Lezioni proibite - Rose II

V

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Ho iniziato questo racconto il 7 gennaio 2015, ispirato da due miei disegni e dal mio testo “Rose”. Da anni avevo l’idea delle lezioni di ballo impartite da André ad Oscar, innestata sulle tematiche di “Rose”, in cui, però, i protagonisti erano poco più che ventenni; poi all’improvviso, arrivò la scena finale scritta sugli appunti del cellulare. Mentre scrivevo già da un po’, si innestarono nella storia considerazioni nate dagli scambi con Sara, per la sua “Essere una donna”.

 

5

Dopo la notte - pentimenti

 

André era rimasto stranamente calmo, in quelle ore. Una calma neanche apparente. Forse più un’attesa. Lo sguardo distante, il cuore parzialmente in allarme, ma un pensiero, una speranza di fiducia tra loro due. Non osava lasciarla né trapelare, né sgorgare. Immagini di loro due, quando lei fosse rientrata. Progetti sulla nottata.

Ma le ore passavano.

 

 

Incredibile, la Oscar di quella sera, rifletteva Hans.

Reattiva, eppure come distante. Difficile da raggiungere.

 

Lo sentì armeggiare.

Stava finendo di spogliarsi.

Si voltò a guardarlo, indolente, ancora pigramente annebbiata dall’orgasmo. Dall’idea di André, tutto, dentro di lei.

Lo osservò.

André le pareva più bello. Fatto meglio. Ammesso che capisse qualcosa di uomini. Ma era anche qualcosa di diverso. Una sensazione di intimità, fra loro. Di delicatezza. Calore. Niente che avesse ritrovato in quella esperienza, se non aver mortificato una curiosità datata e una frenesia frustrata che, da sola, avrebbe soddisfatto più efficacemente. Delusione su tutta la  linea. Si sentì profondamente stanca.

No, io… io…

 

Si alzò a sedere, improvvisamente. Che cosa sto facendo? Raggelata dalla realtà.

“Cosa fate?” Irritato.

“Me ne vado…”

“Non scherzate”, le andò contro.

“Basta così. Non voglio fare sesso con voi”.

“Lo stiamo facendo.” La tenne bloccata, in modo quasi brutale.

“Sono solo preliminari, lo avete detto voi. Ora lasciatemi andare.” Ridicolo stare a sottilizzare, ma utile.

“No, intendo finire.” Di fronte alla sua aria interrogativa, tradusse: “Voglio prendervi.” Sembrava che essere contrariato tirasse fuori un lato spiacevole di lui. Quello di chi è viziato, abituato a non essere contraddetto.

Si alzò in fretta, recuperando gli abiti. “No.”

Lui le fu addosso, strappandoglieli di mano. Inaspettatamente, la schiaffeggiò a forza, poi la ributtò sulle lenzuola.

“Non siate infantile, Oscar…” cambiando tono di voce. Suadente, ora che l’aveva costretta a ubbidire. Ora che a lei colava un rivolo di sangue dal naso, dalle labbra. Era stupita, tramortita da quel comportamento, lui era forte, ma ciò che l’annichiliva era la violenza intrinseca. L’essere scoperta. Nuda. In quella situazione. Non era lei. Lei avrebbe reagito. Lei… non sarebbe stata lì. Sulle braccia lividi stavano affiorando.

Le era sopra.

“Te lo voglio mettere dentro, tutto.”

Ne percepiva il respiro, le spalle. “Come fa lui.”

“Lo senti come me lo fai venire duro?” Ansimante. Mentre le forzava la mano attorno a sé.

I capelli.

Le labbra addosso.

Ne sentiva il membro su di sé, sul ventre. Premerla.

“Io non voglio!” Cercando di tenerlo distante.

Gli mollò uno schiaffo, mentre lui la abbracciava, seduttivo, sicuro di sé. “Stai zitta. Ti faccio godere.”

“Mi state stuprando!” Gridò, colpendolo ancora. Ma lui era alto, più pesante.

“Zitta”, schiaffeggiandola, mentre le serrava la mandibola e la ricacciava indietro.

 

Ora, paralizzata dalla violenza, lo sentiva scendere.

Lo sentiva tra le gambe.

Gliele aveva aperte e le stava tra i fianchi. L’aveva preparata con la bocca, con le dita, per troppo tempo. Era anche venuta. Era chiaro che doveva essere pronta. Si sciolse, Oscar,  sentendo la pelle sulla sua, non perché la eccitasse, ma all’idea della sua prima passione, delusa, infranta. Non con lui. Non così.

Respirava piano. Lacrime le pungevano gli occhi.

 

Talmente piano che i pensieri eruppero con voce sorda.

Le parole si stagliarono nette, sulla sua coscienza.

Mentre sentiva che lui si avvicinava ancora.

Non lo posso permettere!

Io non sono questo!

 

Mi ha messo le mani addosso.

 

Ma che cosa voglio, davvero? Si domandò. Perché non riesco a difendermi? Mi ha picchiato! Come ha potuto? Io non sono debole… allora, sono io a volere che succeda? Certo, l’ho desiderato, ma è finita. È finita… Non devo entrare in questo meccanismo, non devo giustificarlo… mi sta violentando…

Mentre si rendeva inconsciamente conto che stavolta sarebbe successo davvero. Non sarebbe potuta sfuggire.

Se io avessi vissuto come le mie sorelle, a quindici anni, sarei andata in sposa a qualcuno, e, poi, forse, avrei cercato queste situazioni. Per noia. Per dispiacere. Per riempirmi la vita. Avrei flirtato ai balli. Avrei passato del tempo, come amante di qualcuno, salvo correre ai ripari se fossi rimasta incinta. Ma non è questo che io voglio… la mia vita non è vuota. Mi piace. Non mi pesa allenarmi, anzi… la mia è un’esistenza piena. Non mi sono mai sentita sola, perché c’era André… André… e poi lui… lui… lui ha… io…

 

Le ore passavano. André aveva quasi terminato il libro, disteso, fino a tardi, sul suo letto.

Non aveva voglia di nessuna compagnia, quella sera. Aspettava. Sospeso. Avrebbe sentito, se lei fosse rientrata. Avrebbe riconosciuto i rumori noti. Sarebbe andato ad accoglierla, sistemare la carrozza. Questo avrebbe fatto. Ormai stanco, forse deluso, pensò a lei. Congelando nella tristezza l’idea di accoglierla, in un abbraccio, al ritorno. E poi, magari, farla sua. Unirsi, finalmente. Illuso…

Si era trattenuto, cercando di non forzarla, di rispettarla. Aveva forse sbagliato? E cosa, in fondo, significava, farla propria? Apporle un marchio di possesso, che le impedisse di avere qualcun altro? Non sarebbe dovuta essere, invece, una libera scelta, come lui aveva scelto, a riguardo di lei? Povero illuso…

Stanco, iniziava a sentirsi frustrato, pieno di troppi dubbi di anni dimenticati. Cercando di ricacciare indietro pensieri intrusivi, lasciò andare il libro sul copriletto. Le pagine frusciarono contro la coperta. Si era sciolto i capelli.

Guardava in alto, il soffitto spoglio. Il respiro quasi trattenuto. Lui viveva in un modo silenzioso.

Si alzò, per controllare per l’ennesima volta se arrivasse.

Niente, il vuoto pneumatico.

Come sovrappensiero, passò davanti allo specchio. Poi, tornò indietro, a guardarsi. Come a domandarsi cosa potesse o dovesse trovare Oscar, in lui. Perché lui e non Fersen. O qualcun altro.

Basta, André, si disse. Basta. Evita di pensare. Sospendi il giudizio. Stacca.

Rimase ancora un po’ in piedi, come incerto, poi si accoccolò nella nicchia della finestra, quasi cercando un riparo. Stette lì a lungo, immobile, contro i vetro e il muro. Il freddo arrivava, con la notte. Sentiva i brividi lungo la schiena. Aveva le dita gelate. Non allungò neppure la mano a prendere una coperta, il mantello. Rimaneva lì, come se quella posizione sola potesse rappresentare o denunciare la sua solitudine, lo sconforto che, a mano a mano, lo conquistava.

Infine, il sonno lo vinse.

 

“No…” “NO!” Quasi isterica.

“Stai tranquilla…” la rassicurò, mentre armeggiava con impeto, sollevandole i fianchi, reggendo il membro verso di lei. Era chiaro cosa voleva ottenere. La preda, il trofeo, averla. “Te lo farò piacere più di lui…”

Doveva concludere il rituale. Portare a termine l’atto.

L’aveva resa disponibile, ora doveva accoppiarsi.

Mentre lei, quasi smarrita, si sollevava sui gomiti.

Non è questo che voglio…

No… non essere un trofeo.

Io… io voglio un uomo che ami me… solo me… che voglia me e non qualcun’altra… nessun’altra…

Io… io non sono così… e non voglio qualcuno per cui il sesso sia questo…

No…

Non lo voleva.

Non dentro di sé.

No. Non era lui che voleva.

Lui lesse lo sgomento nei suoi occhi, ma forse lo attribuì ad altro. Fremeva, eccitato, sentendola contro la sua carne, misura dopo misura.

Oscar, paralizzata dall’aver perso il controllo con lui, dalla sua violenza inaudita, inattesa, nuda, il vestito vaporoso dimenticato a terra, avrebbe desiderato poter riportare indietro il tempo. Fuggire.

 

 

Ma lui era già su di lei.

“Sei un pezzo di femmina, guardati… sei pronta… umida… ti sento…” Schifata da una volgarità che non gli immaginava e che pareva accrescerne l’eccitazione.

E quasi sarebbe venuto già solo a guardarla, quel seno che si sollevava. Quei fianchi magri e belli.

Il ventre. Bramava quell’ombelico e pensava che sarebbe stato in lei. Ora. Ora… se la sarebbe presa.

E, a dare più piacere all’immaginazione, oltre l’idea di sottrarre la preda ambita a quel bifolco, già pregustava che, forse, l’indomani, sarebbe andato a trovarla, con la scusa di un po’ di scherma, e invece se la sarebbe fatta, nel boschetto vicino. O nelle scuderie. Le avrebbe scoperto il culo, se la sarebbe fatta, così, le mani aggrappate ai seni.

L’avrebbe fatta urlare di piacere. Magari sotto gli occhi di lui.

La desiderava troppo. Ignota. Sorprendente. Soda.

La schiuse maggiormente.

“No, vi prego…”

La cercò più in profondità.

“No…” quasi gemette. “No…”

Si fece più strada in lei: “Voglio farti godere ancora…” sussurrò. “Dai”, mentre la sentiva.

Entrando dentro di lei. “Te lo voglio dare tutto…”

Mentre il no le moriva in gola.

E Fersen arrestò la sua marcia, interdetto.

 

“Ma tu… voi siete…” Finalmente si ritirò.

Oscar, avvampando, si allontanò da lui.

 

La squadrò, incredulo. Facendola sentire una merda. Scosse la testa, irridendola.

“Ma non è possibile…”

“…”

“Non… non l’avete mai…”

Lei lo guardò, rabbiosa per la sua violenza, ma quasi implorandolo di tacere.

“Fatto?” Riuscì a concludere, scandalizzato.

Oscar lo osservava, come a dire “Che diavolo ti viene in mente?”

Si rialzò, precipitosamente. Allarmato. Sconcertato. “Come, non ha provveduto il vostro attendente?”

“Che cosa?” Si allontanò, sbalordita. Offesa. Ancora quasi paralizzata. Doveva recuperare gli abiti. Andarsene in fretta.

“Tutti a corte pensano che sia così!”

“Come…” stava per esplodere. Dalla vergogna, dalla frustrazione, dalla rabbia. Poi, invece, abbassò gli occhi. Rimase in silenzio.

Lui ebbe un gesto.

“Non lo avete mai fatto… dunque…” riprese il discorso, come imbarazzato per lei.

“Perché?” sfidandolo, ma con la dignità sotto le suole delle scarpe, mortificata, nuda, “È un problema?“ Mentre cercava di vestirsi.

Si domandava perché fosse così strano, in che mondo corrotto vivessero a Corte. Rendendosi conto di essere, per quella gente, un fenomeno anomalo. Una che, alla sua età, non l’aveva ancora fatto. Rendendosi conto che, forse, aveva ragione André: lui voleva una preda, lei non voleva un uomo così. Qualcosa da condividere. Di promiscuo. Forse lei desiderava qualcuno che fosse solo suo. Un amore vero. Una persona tutta per sé. Fedele. Forse era lei, fuori dal mondo, ma non aveva neanche voglia di appartenervi. Di conformarvisi.

“Siete incredibile!” La guardò, scuotendo la testa. “Davvero, non immaginavo…”

Mentre lei si ricomponeva, infilando le calze, turbata e francamente scocciata da quell’atteggiamento da coglione.

“Ora almeno capisco perché non volevate…”

Si sedette, sconcertato,  accanto a lei, che si sistemava il corsetto.

“Perché non l’avete fatto con André?”

“Che domande fate?” scattò lei.

“Ma dove vivete, Oscar… dappertutto succede così!”

Lei arrossì, oltraggiata. Si passò una mano sul sangue che le colava dal viso. Che scena triste erano loro due, ora, dopo l’aggressione, gli schiaffi, seduti lì. Era davvero stata innamorata? “Come osate?”

“D’altra parte, si vede che lui è innamorato di voi”. Alzò le spalle, in gesto noncurante. “Troppo riservato. Troppo schivo. Non gli si conoscono storie. Tutte lo vogliono, per questo. Una specie rara. Chiaramente. Sembrava fare la tipica vita di un borghese sposato. Con voi”, accusò dopo uno sguardo.

Oscar arrossì violentemente. Non osava più neanche terminare di coprirsi.

“Sebbene”, aggiunse lui, mondano, “molte dame amerebbero, proprio per questo, la sua, diciamo, compagnia.”

“E, stando così le cose, perché proprio io?”

“Volevo la sua conquista. Nonché”, aggiunse, “vi volevo togliere a lui”.

Interessante, pensò lei. “E dopo?”

“Dopo cosa?” La interrogò lui, sarcastico.

“Dopo.” Insisté, testarda.

Finalmente comprese. Irridendola, enumerò: “Tra persone di mondo, succede. Una, più volte. Sarei venuto da voi, avremmo avuto altri rapporti, quando ne avessimo avuto voglia”.

“Tutto questo”, domandò lei, “per una conquista, come dite voi?”

“Sono onesto. Non maschero il sesso dietro altro.”

“Non lo siete, mi avete corteggiato, prima.”

“Ah, quello… fa parte del rituale…” confessò.

“Siete squallido…”

“Perché? Perché ammetto di volervi anche senza che ci siano sentimenti se non quelli di amicizia?”

“A questo punto” osservò lei amaramente, “direi neanche più quelli.”

“Siete una persona immatura, Oscar.”

“Almeno sono onesta.”

“Siete sicura?”

Su questo, piccata, Oscar trovò la forza di alzarsi.

“Beh, mi pare che quello che dovevamo dirci è sufficiente…”

 

Si allontanò da lui, morendo, ancora di più, se possibile, di vergogna. Raggiunse il resto degli abiti sparsi a terra.

“Aspettate.” La prese per un braccio. “Io… io stavo pensando che…”

Lei raccolse le gonne, cercando di sembrare dignitosa, mentre tentava, impaziente,  inesperta, di serrare i lacci. Di ricomporsi per apparire quella di prima. Non ci sarebbe mai riuscita. E quale, poi? Le dita tremavano. Non afferravano i movimenti giusti. Neppure li conoscevano, in fondo. Non era allacciarsi la spada al fianco.

“Davvero, se lo desiderate, posso provvedere io…” e le si fece addosso. “Lasciatevi prendere…” mentre tentava di baciarle il collo, scostandole i capelli, forzandola a stendersi di nuovo accanto a sé.

Sentiva il respiro di lui, sulla pelle. E sempre più si rendeva conto delle conseguenze. E che non voleva. Non lì. Non con uno così.

Per quanto fosse bello. Ammirato. Un trofeo. Uno stronzo. Che l’aveva picchiata.

Allora, di forza, lo schiaffeggiò lei.

“State lontano!”

Che schifo di delusione.

Sempre meno, anzi, capiva la sua vecchia infatuazione.

Né desiderava essere una pedina, allordata dai piani della regina.

 

 

“Ve ne andate?” La prese per un polso. “Non volete neanche farmi venire?”

Se la accostò sul sesso, turgido.

“Mi fate schifo”, scostando lo sguardo, ritraendo la mano. Da lui, lascivo, che si serrava, disteso sui cuscini, mentre lei si allontanava.

 

Lo osservò, sbalordita, armeggiare, da sé, fino a venire. La testa gettata all’indietro. Scosso da ondate. Le sembrò di aver assistito a qualcosa di sconveniente, osceno, qualcosa che avrebbe dovuto restare intimo, privato, così volgarmente esibito. Non richiesto. Non avrebbe dovuto essere lì. Non avrebbe dovuto dover guardare. Si sentiva oltraggiata, sporcata, era anche scandalizzata. Sapeva di non dovere, dopo quello che era appena accaduto, ma sentiva così.

Lui era venuto. Si ricompose quanto basta, recuperando camicia e calzoni.

Lei, spettatrice allibita, ora, lo osservava nella penombra.

Poi, uscì nel corridoio, dove, ogni tanto, una dama passava. Era, rifletté, un luogo noto, quella stanza. Lei, una delle tante.

Nel buio, si fermò a sistemarsi meglio, nascosta da una rientranza.

Lo vide intercettare una donna. Prenderla per un braccio.

Baciarla.

Passando, dopo essersi rimessa passabilmente in ordine, li scorse dalla porta socchiusa.

Lei nella sua stessa posizione di poco prima, lui che le stava già dentro, poi, dopo un ultimo affondo, si fermò, crollando sull’ennesima donna. Scarsa resistenza, annotò.

 

Si era risvegliato, ancora vestito, André, giusto una coperta addosso.

Poi aveva capito.

Di lei, nessuna traccia.

Aveva cercato ancora una volta di escludere i pensieri. Non era facile. Va bene tutto, ma che cazzo stai combinando, Oscar? Anche a un quasi santo come lui a volte prendeva male. Non sempre, ma a volte sì. Era una di quelle volte.

 

Si sentiva schifata.

Delusa da se stessa per aver perso la testa così. Per uno così. Per aver pensato di poter avere qualcosa a che fare con quel mondo. E per essersi lasciata così andare. Quasi un tradimento di se stessa, prima ancora che di André.

Delusa dalla regina, capricciosa, che l’aveva messa in quel pasticcio per gioco. Con leggerezza. Lei non era come loro.

Voleva tornare a casa.

Voleva lavarsi.

 

La fontana mandava schizzi gelidi.

Sola, appoggiata alla pietra, persa nella costernazione, cercava di riflettere.

Bene, e adesso? Cosa faccio, annego la testa nella fontana, per questa serata, o cerco di dimenticarla e andare avanti?

E lui, lui, che avrà fatto? Sarà andato a puttane? A dame della corte?

Frasi sconnesse alternate ad altre stranamente logiche. Si era persa. Doveva scegliere se terminare di perdersi, proseguire quel percorso di smarrimento o raccattare i pezzi. Raccogliere i cocci e cercare di tenerli assieme. Farne almeno uno schifo di esperienza da evitare.

 

Sperava almeno che lui non l’avesse aspettata.

Si sentiva troppo misera.

 

Furono i rumori noti che fece lei, rientrando, quelli che lui aveva atteso, per ore, a svegliarlo. La carrozza. L’attesa da lungo conosciuta, i tempi ricorrenti dei passi, dei gesti. Ma non scese per sistemare nelle scuderie e nella rimessa. Non l’avrebbe accolta con un bacio rubato. Né una carezza. Restò in attesa. Ogni minuto. Calcolando mentalmente, fino a, poi, sentirla per le scale. Sapere che quella è la mano che lei passa, quasi indolente, sul corrimano. Abitudine. E se non ci fossi, Oscar, che faresti? Si domandò lui, in un impeto di rabbia frustrata, di cui si pentì quasi subito. Certe volte, i pensieri è meglio escluderli. Si fa meno danno.

Allora, si disse, almeno è rientrata.

 

Una rapida, furtiva occhiata al corridoio buio. Lui era là, al limitare, appena l’ultima rampa di scale prima della lanterna. Tirò dritto. Risolutamente pentita, ferita.

Passò nella sua stanza, per lavarsi. Voleva togliere da sé ogni traccia, ogni ricordo.

L’acqua che le avevano lasciato si era raffreddata.

Si pulì a fondo, accuratamente.

Lavò via il sangue dal naso, dal labbro. Ci tenne un po’ sopra un asciugamano bagnato di acqua fredda.

Poi, quando le tracce evidenti furono cancellate, quando finì di lavarsi e si sentì pulita, si rese conto che non sarebbe riuscita a stare lì, a dormire.

Gettandosi una camicia sulle spalle, cercò conforto nei luoghi consueti.

Nel nero della notte, salì le scale fino alla torre. Sola, quasi nel buio. Seduta nella cornice della finestra.

Ma lui, in silenzio, la raggiunse.

 

Tendendole una mano, la fece alzare.

“No”, gli disse, quando lui le accostò una mano al viso.

La scrutò, nel buio. Le passò le dita sulle labbra. “Che ti ha fatto…” disse piano, scuotendo la testa.

Chiuse gli occhi, quando le carezzò i capelli, piano.

“No…”, mentre le lacrime, senza senso, scendevano e lei rimaneva lì.

 

Lentamente, in silenzio, le fece scivolare di dosso gli abiti.

Il respiro sospeso.

Lo lasciò fare. Era quasi distratta, che strano, pensò, dai suoi capelli sciolti. Glieli toccò.

Poi, vergognandosene, ritirò la mano. Respirava, lì, davanti a lui. L’aria la feriva. O la accarezzava. Non avrebbe saputo dirlo esattamente. La sentiva su di sé. Come fossero le dita di lui, i suoi pensieri.

Sembrava qualcosa di sacro.

Sembrava che lui…

Rimase in piedi, nuda, davanti a lui.

Respirando piano.

La pelle si sollevava, tesa. Sentì i capezzoli reagire. Se ne vergognò. Eppure, rimase immobile.

Tutto era come sospeso.

 

Le si inginocchiò davanti. Lei quasi ebbe timore.

Lentamente, appoggiò la testa sul suo ventre, lambito dalla luce della luna. Delicatamente. Labbra. Naso. Ombelico. Ciglia.

Rimase lì, abbracciato a lei, tenendola stretta.

Ne sentiva il respiro. Le ciglia. Il calore.

La serrava, come volesse appartenerle.

Diventare suo.

Parte di lei.

Se non si fosse sentita così colpevole, forse, lo avrebbe stretto a sé.

Ma le mani erano come paralizzate. Non volevano spostarsi.

Sentiva le labbra che, su di lei, pronunciavano parole silenziose. Mute.

Sentì una tristezza profonda. Ma anche una salvezza.

 

In silenzio, la prese tra le braccia, e, lentamente, come in una cerimonia, la portò.

 

Scesero nelle stanze di lei, al buio.

 

La depose sul letto. Rimanendo lì, accanto, a osservarla. Nell’oscurità, alla luce della luna.

Piano, le sfiorò il viso. Mentre gli occhi di lei gli si sbarravano addosso, poi li distolse subito.

Lentamente, la percorse, facendola tremare.

Nel silenzio, ora lui le teneva una mano sulla vita.

Sembrava non volerla lasciare andare.

Era la sera che aveva sognato per loro due…

“Abbracciami”, gli disse solo.

 

Rimase contro di lui, nuda.

Pregò che lui non le facesse domande. Non si facesse domande.

Poi, dopo un lungo silenzio, dopo aver curato il freddo, contro il corpo caldo di lui: “Con te…” sussurrò, piano, “voglio fare l’amore con te.” Lui annuì, in silenzio. “Ma non ora.” Annuì di nuovo. “Non ora…”

“Però tienimi stretta…”

Allora, lui la abbracciò stretta.

Proteggimi.

 

La protesse.

La tenne stretta tutta la notte.

 

Si svegliò, nuda, prima di lui, quella mattina, tra le sue braccia, e le parve di aver vissuto un incubo che continuava a incomberle addosso. Si sentiva ancora sporca, e sottosopra. Voleva cancellare le tracce dei rimorsi. Dei troppi dubbi. Delle leggerezze.

Si girò contro il suo corpo. I seni contro il suo torace. Cercò il contatto anche con la guancia di lui, lo osservò, abbandonato nel sonno, i capelli sciolti sul cuscino, come per riprendere il senso della realtà. Lui era la sua realtà. Ed era bello sentirlo contro la pelle nuda. La stoffa, il calore. La sua pelle. Il suo respiro. Abbandonato, nella fragilità del sonno, contro di lei. Gli carezzò i capelli, improvvisamente intenerita.

André aprì gli occhi, sentendo lo sguardo di lei su di sé. Le sorrise. “Ciao”, con la voce appena arrochita. Ne sentiva il corpo, sul suo.

L’attrasse a sé in un abbraccio dolce, ma sembrava distante, lontano. Scrutandola, le dita sul labbro, “Chi è stato?” Cambiando tono: “Lui? Ti ha fatto questo?”

Lei abbassò lo sguardo.

Poi, mentre le passava lentamente una mano tra i capelli, sulla schiena, le domandò. “Sei andata a letto con lui, ieri sera?”

Non poteva sostenere la domanda, ma neanche il silenzio.

“Controlla tu stesso”, lo sfidò, amara.

Si pentì subito di averlo ferito, della luce di dolore che lesse nel suo sguardo.”Bene, lo farò”, le rispose, come rattristato ma risoluto, bloccandola per i polsi e portandola sotto di sé.

Brutalmente, mentre le stava sopra e le schiudeva le gambe.

“Fermo!”

“Hai cambiato idea?”

“Per favore… lasciami spiegare…”, liberandosi e prendendogli il viso tra le mani. “Per favore… non facciamoci del male tra di noi…”

Si spostò, André. “Ti ascolto.” Pentito anche lui dello scatto.

“Non sono andata a letto con nessuno, ieri. Io…” una lunga pausa, “è con te che voglio fare l’amore.” Lo guardava negli occhi. Si fece più vicina a lui, sentiva il contatto con la sua pelle. Lo sentiva respirare. Lo sentiva contro di sé e lo desiderava. Lo voleva. Anche se le faceva paura quella sua rabbia repressa.

Non aveva più voglia di attendere. Non voleva essere esposta ad altri errori.

“Io voglio farlo. Con te”, gli disse. Era il momento delle rivelazioni. Del contrattacco, anche per non pensare. Continuò. “E non capisco perché mi rifiuti.”

“Io? Rifiutarti?” Si sollevò sui gomiti.

“Noi non l’abbiamo ancora fatto. Forse…  non ti piaccio?…”

“Stai scherzando?” La guardava esterrefatto. “Io sono innamorato di te!”

“Allora perché non lo facciamo?”

Abbassò gli occhi, lui. “Io… aspettavo che fossi più tranquilla… avrei voluto farlo ieri sera, dopo il ballo…” ammise, intimidito dallo scoprire le sue fantasie. “Ti volevo spogliare, volevo prenderti… avevo aspettato tanto… ma poi tu…  non era il caso… sembravi sconvolta.”

Ieri sera, pensava lei. Pensava ai suoi vecchi sogni infranti, a quelli attuali, allordati. Alla sua leggerezza. Al suo egoismo. Di conseguenza, contrattaccò.

“E prima, perché non l’hai fatto?” Quasi accusò, lei, imponendosi di glissare sui rimorsi, rabbiosa per quel quasi volontario, educato, rispettoso restare indietro.

Lui scosse la testa. Possibile che non avesse capito? “Io… in certi momenti, avevo paura di farti del male… temevo non ti sentissi pronta… o potessi pentirtene…”

“Pentirmene?” Scosse la testa, sorpresa. “Davvero pensi questo?”

“Sì. Ed è la cosa che mi ha sempre frenato, tra noi.” C’era amarezza, nella voce. “Quelle che tuo padre definirebbe differenze che non possono colmarsi, quelle che secondo me non dovrebbero esistere. Ma non volevo forzarti, per questa ragione”.

A lei si strinse il cuore. “Io… non…”

“Sono innamorato di te.” Le prese una mano. “Ammetto che non avrei dovuto neanche innamorarmi, ma non è che uno le scelga, queste cose… e non ha senso discuterne ora.”

Lei lo squadrava. Il respiro sospeso.

Si sistemò meglio accanto a lei. Le scostò piano una ciocca, giocandoci tra le dita. Era mortalmente serio, mentre sembrava volerle leggere dentro, con gli occhi. “Vedi Oscar, magari sbaglio, ma per me, se sei innamorato di una persona, devi rispettarla. L’amore… certo, è verso l’altro, ma, in realtà, riguarda noi stessi. È il nostro sentimento verso quella persona. E io sono innamorato”, fece una pausa. “Di te. So che questo mi fa felice. Mi fa stare bene. Mi riempie la vita." Parlava piano, rivolgendosi a lei con infinito rispetto.

Lei non riusciva a staccare lo sguardo. Era incatenata a lui, da quello che le diceva, da come le parlava. Da quello che significavano, nel profondo, le sue parole. Sapeva che André aveva ragione, ma, dentro, si sentiva ancora malissimo. “Ma non volevo forzarti. Tutto qui”, lo ascoltò confessare.

Respirava piano. Doveva parlargli? O cercare di non sporcare loro due con errori idioti? La sua voce la riscosse.

“Ti senti pronta? Io sì… ogni volta, ormai è difficilissimo trattenermi.” La guardava con occhi intensissimi. “Tu non sai quanto ti voglio… da quanto tempo…”

 

Non lo sapeva, né lo immaginava così travolgente, totalizzante. Quando, impacciato e intenso, le sollevava i fianchi, per entrare in lei. Quando le si muoveva dentro, cercandola con ardore infinito, perfino con foga commovente. Non pensava che fosse così, essere desiderata da un uomo. Al punto da volersi fondere con lui. Da voler confondere i battiti dei propri cuori, i gesti, le parole, il respiro, le vite. Al punto da desiderare di diventare completamente sua, e di desiderarlo darsi a lei, annullandosi nel suo corpo, così in profondità da smarrirsi, dimenticare ognuno se stesso, in un’unione ancestrale. Non avrebbe mai voluto staccarsi da lui.

Lo aveva lasciato fare, anche per rassicurarlo e rassicurare se stessa, dopo la notte precedente. Era stato bello, pensò, guardandolo con tenerezza, abbandonato sul proprio corpo, la testa posata sui seni, le dita tra i suoi capelli. Era suo. Quel pensiero la inorgoglì e la commosse. Le lacrime scesero piano, trattenute, per non svegliarlo nei respiri. Dopo, quando lui si svegliò, restò ad osservarne lo sguardo felice, pieno. Lo tenne a lungo stretto a sé, carezzandolo, come volesse consolarlo. Poi, lo desiderò ancora. Fu lei a prendere l’iniziativa, allora, delicatamente, a guidarlo. Richiedendogli baci, morsi, un ritmo diverso, sperando lui non covasse dubbi sulla provenienza delle informazioni, ma, alla fine, si disse, cosa importava se erano loro due, loro due totalmente presi, avvinti, fino a possedersi completamente. Predestinati.

 

Mai. Mai avrebbe voluto, accettato di staccarsi da lui e, ogni volta, era un allontanamento. Doloroso. Come strapparsi da dentro qualcosa di connaturato, che si è a lungo cercato.

Quando i suoi abbracci la abbandonavano, lasciandole il freddo sulla pelle.

Quando lo perdeva da sé e rimaneva vuota, appena placata ma senza riuscire a colmare un lacerante senso di allontanamento, di solitudine.

Era appagata dal suo ardore, sorpresa da come totalizzante l’amore che lui provava per lei fosse diventato, da quanto la desiderasse – questa era la cosa che le scaldava di più il cuore –.

Era bello essere amata in quel modo. E non era più disposta a rinunciarvi.

 

 

Non ci fu tempo per molto.

Oscar non ebbe molto modo di ragionare oltre sugli eventi.

La regina la convocò improvvisamente. Imbufalita, le urlò freddamente contro: “Vi ordino di allontanarvi dalla corte!”

Oscar la guardò, con durezza, negli occhi. Inginocchiata di fronte a lei. Vigliacca, pensava. Sfrutti la situazione…

André, alle sue spalle, sentiva le voci dei cortigiani, percepiva il malanimo e la soddisfazione.

“Vi occuperete di questo ladro plebeo, come ultimo incarico, poi ve ne andrete per mia decisione!” Sottolineò, il tono alzato di proposito. “C’è un posto che vi attende tra quei bifolchi della Guardia cittadina! È l’unica gente che potete frequentare!” Finì di tuonare.

“Andatevene!”

 

 

Laura, da gennaio 2015 a dicembre 2015, revisione estate 2016, inverno 2017, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2017

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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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