Kitchen Corner
parte 11
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Oscar!
L’ha attesa davanti al camino spento.
Quasi sbronzo.
Terrorizzato dallo spettro della cecità.
Ora glielo dico.
Ora glielo dico, ha pensato.
Ora chiedo aiuto…
Oscar…
Oscar aiutami…
Aiutami…
Diluvia, quando riaffiora alla coscienza del sonno.
Stava male, la sera prima. Dopo quei “gli manchi”, “mi manchi”. Un’altra si sarebbe sentita ringalluzzita, lei si sente strana. E, poi, quando pensa al suo vecchio lavoro, ancora rimugina. Così, disagio. Disagio e tristezza e malinconia. Una che vincerebbe e riesce a perdere. Che starebbe bene e sa farsi del male. Salvo ingannarsi che sarà l’ultima volta. Una che salva gli altri e non se stessa.
Istintivamente, si rannicchia sotto le coperte, umide. Ma, improvvisamente, non riesce più a riaddormentarsi, e, in fondo, continua a pensare ai tempi che furono, a come avrebbero potuto essere, a chi ha conosciuto e lasciato indietro, come una vecchia compagna di sbarra, che era brava, di cui le sarebbe piaciuto diventare amica e ora non sa che fine abbia fatto, anoressia o la capitale e il balletto per davvero.
Quando era piccola, immaginava di aprire gli occhi dal sonno nella penombra della stanza, protetta dalle coperte, in una mattina di pioggia e, come attimo di assoluta felicità, per quei tempi da bambina, sognava di avere un lui per svegliarsi vicini. Un marziano, non una persona normale. Tipo Goldrake, per dire.
Ora, e per ogni anno che il lui l’aveva avuto, sebbene quelle sensazioni le fossero rimaste molto impresse, era come se non le considerasse. Si può fare finta di non vedere la felicità?
Si può davvero imparare ad essere felici?
Passato il momento no.
Questi sono i nostri momenti di proterva duitudine. Difesi contro tutti, contro i messaggi subdoli o smaccati. Questa è la nostra vita, di due e non di più, a due e quattro zampe, che ci unisce più di tutto il resto. Contro chi ti fa notare che sei comunque sola, che lui non è convenzionale, che non ti fa i regali alle ricorrenze comandate e però non ti fa notare che te li fa a sorpresa, che lui è quello che va bene per te, che neanche tu sei convenzionale.
“Noi due siamo uguali”. Questa piccola, lapidaria verità Andre l’aveva sentenziata – e aveva ritenuto di comunicargliela – quando era ragazzino. Pare lei l’avesse recepita. Fatta propria. Ma, dopo tanti casini, non era bastata più. Anche assommata alle molte, infinite, altre. Come fa un amore a non bastare? Eppure, siamo qui a girarci attorno.
Se pensa a lei, com’era, a com’è cambiata, conservandosi, in fondo, se stessa. Sei riuscita, mia bellissima, a imparare a non avere paura? A cercare te stessa al di là degli eventi del passato? Che sono finiti, chiusi, e devi capirlo, infine? Sei riuscita a trovare un modo per gestire la sofferenza e a ritrovarti? A ricominciare a vivere?
Che cosa sei diventata?
Spaventata. Colpita. Ancora più distante. Non è ora di rinascere?
Ché io non basto, non basta niente, quello che hai, abbiamo, e neanche il mio amore, fosse anche infinito, fosse il più grande al mondo – e non lo è, è solo amore, quello di un essere umano per la persona che ama –.
Se pensa a sé, sospende il giudizio. Quando puoi fare una bella doccia, caldissima, con una saponetta, dono di una persona cara, quando puoi permetterti di chiudere gli occhi, e lasciare che l’acqua scorra, tutto scorra, e tutto vada via. In fondo, lei sta bene. Gli manca enormemente, ma lei sta bene, è là a fare, finalmente, il lavoro che ama, pagata. Che amore sarebbe, se fosse solo tenerti legata? Se io stesso non so, perché non posso, offrirti altro? Solo, perché deve essere tutto, per noi due, sempre così distante, scomodo, difficile? La logistica è nemica dell’amore. Per noi, niente è mai stato scontato.
Si avvolge nell’accappatoio, i capelli bagnati. Scivola lentamente a terra, sul tappetino, la schiena contro la parete, le braccia sulle gambe. Resta lì, a lungo. Respiri brevi. Respiri profondi. Finché il freddo non lo riscuote e si forza ad alzarsi, vestirsi, tornare di là. Continuare a vivere.
Starnutire.
Le cose positive, a parte la cronica assenza di lei, ci sono. Insomma, è una bella, rotonda soddisfazione sapere che, dopo mesi e mesi, il minimo del tempo necessario tra scioperi e rinvii, ha ottenuto una revisione delle condizioni di separazione di Lia, che, per la cronaca, neanche era d’accordo. È qualcosa che ti aiuta a sopravvivere. Perché il lavoro ti distrae. Ti fa andare avanti passo passo. Convincere la recalcitrante. Passare in cancelleria. Redigere l’atto e depositarlo. Poi, le rare volte che la giustizia funziona, pensare che si è ottenuto qualcosa di equo. Che una persona ha qualche problema in meno. Per come vive Lia, non è poco.
L’ha chiamata per darle la notizia, e lei momenti s’incazzava. Le ha detto, ridendo, di evitare di rimandare indietro i bonifici. Ma è stata dura. Dura. Quella ragazza è tutta d’un pezzo, troppo, e tende a farsi male da sola. L’idealismo è bello ma poco pratico. Oggi come oggi, tranne rare eccezioni, non puoi permettertelo.
“Firma questo, per favore”. Quel pomeriggio, l’aveva presa, quasi di sfuggita, all’uscita delle lezioni. Le aveva passato il foglio, sopra il borsone da cui spuntavano con gli scaldamuscoli, il deuserband. La speranza era che non si mettesse a far casino proprio di fronte alle allieve.
L’aveva guardato, perplessa. “Cosa sarebbe?” Subito sospettosa.
E ora viene il difficile, ricordava di aver pensato. “La richiesta di revisione…” Aveva snocciolato, trattenendo un sospiro, tenere duro e far finta di niente. Parlare netto e spiegare poco.
“Eh no!” Era sbottata, martirizzando le punte innocenti contro la panca.
“Piano che si rompono…”
“No!”
Si era ritrovato a domandarsi se si sarebbe messa a pestare i piedi. “Sì, invece.” La prende da parte, non è proprio il caso, lì. “Tu non ce la fai. Ti ammazzi di lavoro. Lui può farlo.” Non le disse che aveva speso i soliti controlli di routine. “Credimi.” A lui quella cifra non scostava seriamente di molto.
“No!” Aveva strappato provocatoriamente l’atto.
Lui, implacabile, ne aveva tirato fuori un altro. “Non fargli questo favore.” Non sprecare carta, cazzo!
“Non voglio essere umiliata!”
“è un’umiliazione per lui, non per te.”
Lia era rossa in viso. Avrebbe voluto piangere e le tremava la voce. Per l’umiliazione che quel distorto senso dell’onore e dell’autosufficienza le facevano provare. Per il bene che sentiva per Andre e per la gratitudine e perché sapeva di aver bisogno di quei soldi. Perché era un peso che poteva togliersi, almeno uno, che un essere umano pensasse a lei, agisse per lei. Una volta tanto. Solo una volta. Ma determinante.
Andre era rimasto in piedi, dietro di lei. Aspettava. Non c’era niente da discutere.
“Ora firma”.
“Anche la delega”, aveva aggiunto quando gli aveva restituito il foglio stropicciato. “Per sicurezza.”
Sono piccole soddisfazioni.
L’attimo di completa felicità mentre si termina una pirouette.
Mette la panure sopra i filetti.
Guardare una foto di lei ritrovata dopo una ricerca feroce in cui aveva messo sottosopra ogni angolo della casa, che pareva fosse passata un’armata di vandali.
Il Magimix amaranto ha svolto amabilmente i suoi due principali compiti. Allietare la vista, sminuzzare.
Ricordargli che è lei che gliel’ha regalato. Una malefica fitta al cuore.
Immaginare un viaggio.
Cazzo, cazzissimo, cazzo! Torna, ti prego, torna…
Si sente solo e di merda. Soprattutto quando va a fare la spesa, lista alla mano, e ci sono le coppiette e le famigliole infestanti e diventerebbe un killer e le terminerebbe perché lui è lì, povero scemo, senza di lei. Non è che sta male, è spezzato. Manca una parte. Tipo Voldemort? Ci scriverebbero una saga, su un animo dilaniato per malinconia d’affetto e amore? Esistesse la Felix Felicis… magari anche il teletrasporto. Puoi decidere di fare finta che non ci sia, l’assenza, quel senso di vuoto che non si colma, ma sai che è una finzione. Quando passa davanti a qualcosa che comprava lei, che in casa c’era, quando c’era anche lei, a volte, al culmine dell’idiozia sentimentale, lo compra. Poi, arriva a casa, e lo mette lì, insieme agli altri dieci identici, dove ricorda lo poggiava lei, magari a caso. Ogni volta vorrebbe chiamarla, per sentirla e per chiederle “Dove metto questo?”, poi la mano si ferma a mezz’aria e lui si sente immensamente stupido, sentimentale. E solo.
A volte spera che qualcuno venga a salvarlo. Che lei torni, e lo salvi. Basterebbe? Si illude di sì. Fortuna che c’è Al. Una somma di solitudini, scampoli di sopravvivenza. Fortuna che Al non cucina, o, meglio, cucinerebbe da dio, aveva pure il Bimby fighetto, ma è momentaneamente off. Fortuna che bisogna nutrirlo, pensa, mentre lo vede stagliarsi contro la porta, issatosi dai piani bassi, e i gatti lo festeggiano.
Al lavoro, dunque.
Peperoni ripieni light.
“Perché non hai fatto il ballerino?” lo interroga Al, mentre gli ronza attorno e spizzica in giro. “Qui sembra la succursale di Castroni”. Ride.
“E della Rinascente, magari… dovresti chiedermi perché non faccio il cuoco, semmai…”
Cibare se stessi e un altro essere umano come forma soterica. La cosa, stavolta, prevede giocare con la vaporiera del micro o col rice cooker, a seconda del tipo di riso usato e del tempo di cottura. Il basmati profumato o gli integrali Venere, Thai nero, corallo. È divertente e lo distrae.
“Affetta la cipolla, dai…”
È buffo, perché Al è troppo immenso per quell’angolo cottura. Casa sua era tutta moderna e ampia, qui è fuori misura.
“Allora, perché non hai fatto il ballerino…” insiste, mentre gli passa, lacrimando, il tagliere.
Si prende anche la somma soddisfazione di lanciare la cottura col timer, le volte che vuol trovare pronto il riso quando rientra. Dopodiché tratta i peperoni, questione di tinte e gusti, e prepara il resto del ripieno.
Gli sorride, sapiente. “Complicato. Dovevo studiare.” Attraversa il suo regno e si dedica a scegliere la pirofila. “Poi non sarei andato troppo oltre… invece così faccio qualcosa a cui tengo, ma con calma….”
Non si fa mancare neanche qui di cazzeggiare con strumenti e colori. Bisogna tenersi su, nella vita. I gatti, in barba a un po’ di sano rispetto, osservano dal muretto. Quando il riso è pronto, aggiunge il resto degli ingredienti, farcisce, spolvera e passa alla cottura.
È un fatto di allegria, cucinare. Di colori. È un’attività creativa e, anche se ti sfianca perché devi farlo insieme a tutto il resto più imprevisti, in realtà c’è, se ti diverte, qualcosa di rigenerante.
La soddisfazione di usare gli elettrodomestici. Di sentire la casa pervasa di odori piacevoli. Di non fare come quegli uomini che restano soli e lasciano la domus andare in malora. Se lei torna, troverà un posto decente, non un merdaio.
Con Al, invece, davvero non se lo spiega. Il casino che gli è piovuto addosso. Come il ragazzino sulle sue, tanto da sembrare strafottente, che sfangava storie appena rischiavano di diventare serie, per non accasarsi, si sia infilato in un casino del genere.
Almeno lei ha sempre avuto la scusa della totale precarietà, per sostenere fortemente la famiglia a due, anche se sa bene che, invece, si tratta di una scelta non contingente, invece lui, che, più o meno, non rinnegava di pensarla come lei, che si era saldamente mantenuto disimpegnato – temeva di intuirne vagamente la ragione e fingeva di non vederla e non recepirla –, si era impelagato con una donna total-trendy, con l’aggravante dell’intelligenza e della simpatia. E, così, ogni moda, ogni tendenza, ogni must avevano contornato un’esistenza agiata a due, poi, doverosamente, a quattro con cane di razza, che lui e l’assente si erano trovati davanti, osservando, commentando, più spesso, tacendo.
Lui, immenso, immoto, contorto, spesso bello e lontano, lei tutta come si deve essere, perfetta, sapiente. Insieme stonavano. A meno che, per tutti quegli anni in cui avevano conosciuto Al, entrambi non avessero preso un clamoroso abbaglio. Il che poteva essere.
Eppure, l’ex silenzioso, ombroso, distante era lì, si era ammogliato e riprodotto, come dio comanda.
La ventata di scetticismo non li aveva abbandonati. Si limitavano ad osservare. Progressi, passi. Regressi, dal loro punto di vista. Non ce lo vedevano, eppure Al era lì. Allora toccava a loro scapolare dai percorsi prestabiliti, per tutti e due, cosa che facevano con sommo impegno. Andre, paziente, che subiva domandandosi cos’altro gli sarebbe toccato; lei strampalata, con una gran difficoltà, aiutata, va detto, dai tempi difficili, a mettere la testa a posto. A posto dove, poi? In fondo la sua testa le sembrava abbastanza ok.
E Al era finito da loro, in quell’appartamentino che avevano sistemato insieme e lei, da lontano, non sapeva se fosse una benedizione, che Andre non fosse solo, o un problema, la fitta di tristezza che provava a saperli insieme e lei lontana, in giro, una punizione, il famoso episodio 29, qualcosa come volergli e volersi fare del male.
“Perché non lo fai davvero?”
L’ha sorpreso, una domanda impertinente. Scomoda. “Voglio dire, è quello che ti piace…” Ora sono io a tormentare…
“E dove?”
Le mani infilate nelle tasche, alza le spalle, noncurante. “Qui, per esempio…”
Un sorriso pigro, la disillusione che cancella i due secondi di visione ottimistica del futuro “Se non è nemmeno casa tua…”
“Lei sarebbe d’accordo…” lei, assente. Annota a margine.
“Lei sa a malapena che sono ancora qui…”
“Lo sa benissimo: il micro te l’ha inviato qui…”
“TU hai fatto in modo che…”
Lo interrompe “Naaa, è stata lei, inutile cercare di negarlo. Accetta il fatto che tiene a te.”
Lo investe di uno sguardo limpido e disperato, pieno di luce, di vita, e con un barlume di dolore. Le mani in tasca. Abbassa il viso. “Lascia perdere”.
“Mettiti una mano sulla coscienza: dovrebbe tornare dalla cattività, se si facesse… dare l’assenso, firmare un contratto…”
“E speri che non scapperebbe di nuovo…”
“Why not…”
“Ragazzo, lasciamo stare, non è cosa…”
“Sì, invece. Possiamo farlo. È plausibile. E, se non va in porto, avrai almeno dato una mano ad un amico…”
> Bellissima,
> che combini? Con la tua metà a distanza
non chiamarlo così! Protesto fermamente!
> è per caso il tuo doppio? ^_-;
> Ascolta, anzi, leggi: avremmo un progetto…
Lettere piene d’amore. Magari. Mai ne ha ricevute. Forse l’avrebbero pure messa in imbarazzo, schiva com’era. Ne ha scritte, forse. Lettere, tra loro, poche ce ne sono state. Neanche memorabili. Meglio così. Cose da persone normali ma non banali. Finire per scrivere le stronzate Che certi immortalano, su richiesta del fotografo creativo, sull’album di nozze, ‘na vergogna pazzesca. Questo è quando uno dei due ha del sentire. Patetico, ma sempre sentire è. Poi c’è la fiera delle banalità di certe mogli, che scrivono stronzate anche peggiori, e che, dopo un sano paio di pargoli, ottenuta la casa di famiglia (di lui) minacciano di sbatterlo fuori. Femmine che rovinano la categoria, come si dice.
Ma che palle!
Ha chiuso di colpo il programma per le mail, la risposta salvata nei Draft. Non sa che dire. Palle piene dei tentativi di riportarla indietro? Coscienza scossa di fronte all’amico disastrato? Curiosità e basta? È avvampata, a leggere, tra quel bellissima e la metà a distanza. Che dire, poi, della conclusione, che non avrebbe certo quotato, quel “Voglio abbracciarti presto”, pieno di speranza, che in un impeto di cinismo considererebbe prostituzione via mail, ma sente che non è così?
Scappare a gambe levate, ai poli, stavolta, altro che quella cittadina fervente di studi tanto simile alla vecchia Europa! Questo le dice l’intuito.
Poi, il cuore. Il cuore no, sobbalza, e vorrebbe tornare e telefonare, qualche volta. Ma si metterebbe a piangere, e non vuole.
Lia anche vorrebbe tornasse. Le ha accennato a qualcosa, ma poi non ha parlato più. E allora, ora che i corsi stanno terminando, ora che ci sono i balletti e non ci sono le soliste, non sarebbe il caso di prenotare un volo, di lasciare quella stanza spartana che in altri tempi avrebbe addomesticato, ma ora è troppo stanca, come volesse dimenticarsi di sé, di ciò che è.
Erano loro due le soliste di Riverdance.
Laura, autunno 2010, estate-inverno 2011, marzo 2012 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2012
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