Christine

Parte XXXV

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

La cerca, sempre più spesso. Dolce. Ardente. Intenso. È come una fuga.

La interroga con lo sguardo, e lei scuote la testa in un cenno leggero. Ancora no, tutto normale. Alza le spalle, un sorriso lieve.

 

“Il fatto è che sei tu, ad essere convincente”, ha scherzato, riprendendo le parole di lei, il respiro più intenso, mentre le tormentava i capezzoli in quell’alba insonne.

“Mhh…?”

è normale desiderarti… Ti desidero. Ti voglio. Tutta… completamente…”

Si è sollevata a guardarlo, sbalordita.

“Sei così bella…” Come se potesse spiegare.

Sentiva le labbra, la voce di lui, su di sé. Era bellissimo. E spaventoso il pensiero di lui, dentro. Aveva paura. Terrore.

“Sono totalmente innamorato di te.” Le dita, ancora, a scorrerla.

Sono fottuta… In un brivido. Glielo serra. Lo sente caldo contro il palmo. Lo vuole. Ancora. Ma forse, riflette, davvero le manca l’istinto riproduttivo. Sono fottuta…

“E ti desidero.” Ansima.

La sensazione delle dita di lei, poi, gli occhi chiusi, percepirla accoglierlo, eccitata.

 

La desidera. Le riscalda il corpo. In mille piccoli baci. Gesti. Si trattiene, a lungo, prolungando il desiderio. Preparandola. Ma desidera follemente fondersi con lei. Raggiungerla. Essere in lei. Nel più intimo. Il desiderio lo riempie, quasi doloroso. Pensare di esserle dentro. Di possederla. Darsi.

Aver attorno il suo calore. Le sue onde.

Mentre si sente il suo carnefice. Perché non ha mai desiderato cambiarla. Ha solo desiderato fosse sua. E, anche ora, non crede che sia qualcosa di diverso. Ma sa che per lei lo è.

L’ha intercettata, prima, di ritorno dal lavoro.

Un bacio leggero, un braccio attorno alla vita.

Riparati nella luce del tramonto, nell’ombra che invadeva la stanza e li nascondeva.

Poi, il respiro farsi più rapido.

Cercarle i seni, morderli. Stringerli.

L’ha presa quasi brutalmente. Senza dedicarsi ad appagarla.

E ora è in lei, è tutto di lei. La pervade. Riempie. Impetuosamente. Irrefrenabilmente.

Resta lì. Abbracciato a lei. La guancia contro la sua.

Le passa una mano sul viso, tra i capelli. Una carezza dolcissima, che contrasta con la rudezza improvvisa degli attimi precedenti. Un bacio sul collo.

Sulle labbra. Sulla guancia.

Sospira. Appagato. “Ti amo…”

Si solleva a guardarla meglio.

Le scosta i capelli.

Lei lo guarda. Infinita. Condannata. Quasi triste.

“Sei così bella…” respira piano.

Poi, senza riuscire a trattenersi, l’abbraccia. Stringendola forte. “Ti amo… ti amo…”

Resta lì. Pelle contro pelle. Ad assaporare ogni attimo. La sensazione dei capelli. I battiti delle ciglia. Ogni respiro. Ogni parola taciuta.

Le passa le mani sulle spalle. Sui fianchi. Le sfiora i seni e li sente premere contro di sé.

Poi, di nuovo, sente crescere il desiderio. E riprende a muoversi. Dentro di lei.

 

Lei, pensosa, lontana, alla finestra. Guarda lontano, assente da tutto.

La cerca, in un gesto della mano.

Gira la testa verso il vetro.

“Lasciami. Ho voglia di stare sola”.

 

Poi, lentamente, chiude a chiave.

Lentamente, di fronte allo specchio, si spoglia.

Si osserva. Prendendo a toccarsi.

Eccitandosi.

Non ha bisogno di lui.

Ora si stende sul letto, si schiude. Continuando a darsi piacere. Mentre si guarda, si carezza. I capezzoli rosei, tesi. L’ombelico che si solleva. Quel ventre così piatto. Pensa a quando lui la lecca. A quanto glielo dà. Caldo. Duro. Glielo mette dentro.

Si inarca. Il respiro si fa più intenso.

Sa come toccarsi, sa come raggiungere l’orgasmo. E, metodicamente, lo ottiene, scossa dalle ondate bianche che infine si sciolgono.

Resta lì, languida, a sfiorare quel biancore che intuisce allo specchio. Se ne bagna il ventre. I seni.

Inappagata.

 

Dopo, va di là. Lui è alla scrivania.

Sorprendendolo, la camicia buttata negligentemente sulle spalle.

Quando si volta verso di lei e se la trova quasi nuda. Che se lo preme contro i seni. Freddi, tesi.

Senza parlare, quasi brutalmente, gli slaccia i calzoni, lo prende nelle mani, per renderlo pronto.

E dentro la trova così calda, accogliente.

 

Si sente strana. A volte con le ali ai piedi, a volte come se stesse precipitando in un baratro. Eppure, è irresistibilmente attratta. Da lui. Dal suo magnetismo. Da quel precipizio in cui sa di stare per inabissarsi. Come un cedimento temporaneo delle sue barriere usuali. Come aver lasciato un varco in cui lui ha saputo insinuarsi. O, forse, è stato lui a cercare qualcosa di più ancestrale, tra di loro, e, in qualcosa, contro ogni previsione, è riuscito a coinvolgerla.

 

Lui è lì, innamorato, a volte malinconico, che lotta per non cedere alla cecità e impara ogni giorno un pezzo di territorio in più, in una lenta conquista. Ogni volta che lo vede più esitante, ha una stretta al cuore, si domanda come sarà. Eppure, si rende conto di quelle piccole conquiste quotidiane che per lui sono fondamentali. È spaventata. Innamorata. Totalmente avvinta da lui. E lui da lei.

La ama. La ama da morire. Se possibile ancora più di sempre. Non saprebbe spiegarsene la ragione, ma forse non è neppure qualcosa che si possa spiegare. È innamorato. E basta.

 

Si chiude la porta alle spalle. Le cinge la vita. Il respiro, su di lei.

 

“Probabilmente sono solo un egoista… ma lo voglio. Con te. Solo con te.”

L’ha presa con ardore infinito. Le dita intrecciate alle sue. Il corpo sul suo. Era caldo. La sua schiena liscia. Sentiva i muscoli di lui, sotto le dita, contrarsi, nel darsi a lei. Cercarla. Di più.

“…”

Lo sentiva scorrere, contro di sé.

Percorrerla.

Volerla.

Possederla. Forse, aveva riflettuto, era davvero quello, il senso del possedere. In un coinvolgimento totale. È stato diverso da ogni altra volta. Come volesse raggiungerla. Darsi. Completamente. Infinitamente..

Ha pensato che era bellissimo. Sesso. E dolcezza. Desiderio. Struggimento.

Lo voleva. Tutto. Voleva avere tutto di lui. Anche se aveva paura. Lo voleva da impazzire, in una sensazione di eccitazione. Di frenesia.

Ha pensato che niente sarebbe più stato lo stesso. Era come proiettata verso un’idea di futuro. Mentre guardava al passato con la paura dell’ignoto.

 

Cammina, come svagata, per le strade. Assente. Il cuore in subbuglio. Emozionata. Spaventata. Sposta lo sguardo dal cielo, terso, alle pietre. I propri passi. Il ventre.

La sensazione di quella sostanza estranea, dentro. Da quella prima volta.

È un passo senza ritorno.

Ha paura.

 

Si domanda quando succederà. Il tempo, ogni volta, che vince e, nei mesi, la rassicura. Lo lascia fare ma non lo vuole, in fondo. Il tempo, che si prende gioco di André, delle sue speranze, e aiuta lei, le sue barriere, le sue paure.

 

La fa sorridere l’atteggiamento seduttivo che lui inalbera, la notte, o quando vuole prenderla. Le carezze. La dolcezza. Quelle piccole manovre per convincerla a non sottrarsi. Le piace sentirsi desiderata.

La riempie. Di sé. Le fa paura quella cosa che le lascia dentro. Vorrebbe scorresse fuori, come in un orgasmo. Vorrebbe desiderare di annullare quella cosa che la riempie, volta dopo volta, quando si guarda il ventre piatto, gli addominali, i fianchi magri e sa che quella, e non un’altra, è lei.

 

Perché André ha voluto complicare tutto? Perché non gli è bastato il sesso, così, bellissimo, com’era tra loro? Cosa cambiava?

Per lei, questo è un sacrificio, e sconvolge tutto. Quasi la porta ad odiarlo. Per lui, sembra un completamento.

 

La tiene per mano. Orgoglioso.

Lo scopre che la scruta, estatico. Tenero. Mentre china il viso verso di lei, in un bacio tenero, e le passa un braccio attorno alle spalle. Come a volerla proteggere. È per questo, si domanda? È per questo che hai messo su quell’aria illuminata? Era così importante, per te? Sono importante, per te, o sono solo uno strumento?

Si ferma.

Socchiude gli occhi, lui. E si trova addosso il suo sguardo disperato. Pieno di paura e amore. “André io…”

La stringe di più a sé. La testa di lei contro la spalla. A cercare un contatto.

Un bacio, leggero, caldo, sui capelli. “Ti amo.”

Basta a rassicurarla?

 

L’ha fatta impazzire, leccandole, succhiandole i seni. Percorrendoglieli con le dita.

Si è inarcata dal piacere, dischiusa per lui. Accogliente.

Gli graffia la schiena, venendo.

Muovendosi su di lui con violenza, poi, avvolgendolo completamente, annullandolo in sé. Una voragine di calore, ardore. Cedendo.

Resta a guardarla, dopo. In silenzio. Ha fatto scivolare giù le lenzuola.

Adora quei seni così perfetti. Che reagiscono al suo tocco. Quel ventre piatto, con l’ombelico appena allungato, che adora baciare, percorrere. Quasi trema, al pensiero di sé, dentro di lei, a prendersi tutto il piacere. E darglielo. Del suo sperma fuso in lei.

È bellissima, Oscar. Bella più di una statua. Molto di più.

Mentre, incantato, pensieroso, ne osserva il seno sollevarsi, al respiro lieve, e la sfiora appena, e si rende conto che, lui, quella perfezione, vuole rovinarla. Deformarla. Col suo seme.

Renderla diversa.

Puro egoismo. Pura follia.

Eppure, la sta trascinando con sé, considera, in un brivido. Sentendosi il carnefice della donna che ama e a cui chiede di snaturarsi.

 

 

Un giorno. Ma no, sarà domani…

 

Un pensiero improvviso, come un lampo, mentre comanda la pattuglia.

Gli occhi sbarrati.

Io…

Lo sguardo addosso. La mano sul ventre.

Annichilita. Le redini in mano. Ferma, lì, in mezzo alla strada. Gli altri, che sono passati oltre. Le voci, i rumori, lontani. Come in un limbo.

Il sentirsi sempre la stessa, e invece si va a cambiare. Non volendolo, realmente. Senza riuscirci a credere davvero.

 

Non pensava sarebbe stato così e forse per una donna come si conviene non dovrebbe esserlo. Non può essere questo terrore, a nascondere le mani che tremano, gli oggetti che cadono. A sentirsi svagata, spaventata, inchiodata, in dubbio. A guardarlo e non riuscire a dire. A sentire questa condanna crescere, farsi concreta.

 

Se l’è cercata. Ma ha una paura terribile. Le tremano le mani. Le gambe. La voce.

È dovuta correre via dalla caserma. Lui neanche se ne è accorto. Alain sì, invece. Non riusciva neppure a firmare i rapporti. A raccogliere i fogli sulla scrivania. È così, si domanda, è così che ci si sente? È normale? No, non lo è, probabilmente. Io non sono normale, io sono diversa e dovevo capirlo, si era detta, non dovevo accettare questa cosa.

Cosa.

Cosa.

La prende per le spalle, il dottore, come potesse tranquillizzarla.

 

Con la voce spezzata. La realtà dei numeri. La vergogna di dover raccontare al medico la sua vita privata. Odia queste cose.

La speranza, illusa dal tempo, da tutto quel tempo scampato, di averla fatta franca. Di poterlo far contento in quel capriccio e, in fondo, non riuscirci senza una decisione sua, netta. Un no.

L’incertezza. La visita. Terribile. Cercava di viverla in maniera spersonalizzata, ma era lei. Il suo corpo. La sua vita.

Che cambiava. E non voleva. E non sapeva come.

Si osserva desolata il seno. Il ventre. Si sente da schifo.

Ama com’è e ora, invece, le tocca cambiare.

 

Vorrebbe vomitare fuori tutto. E invece, sta lì. Per colpa di André.

 

E il dottore che, mentre lei si rivestiva dietro il paravento, le aveva spiegato.

Ricorda che si era sentita perduta. Che era rimasta seduta, come annichilita, sul lettino. Mentre il medico era tornato alla scrivania, lasciandole modo di vestirsi. Ricorda che faticava a prendere aria. A recuperare gli abiti. Il respiro tagliato. A guardarsi. A non poterlo credere. Oddio… oddio… e le mani tremavano troppo.

Ricorda che un pensiero tipo oddio… ha fatto centro… l’aveva poco elegantemente attraversata. Quello stronzo… L’ha odiato. Visceralmente. Con tutta se stessa. Perché aveva sperato di prenderla più alla leggera. Magari di essere diversa, trentenne – ma che idiozia! –, e di non riuscirci più. Di accontentarlo nel capriccio e poi svignarsela, salvata dagli anni che avanzano (ma quali anni, si era detta). No, niente. L’imbecille aveva fatto centro e il suo corpo l’aveva tradita. Un grumo estraneo, annidato dentro. Una sensazione di ostilità e di freddo. E la paura irrazionale di ferire il grumo. Pazzesco. Di doverlo proteggere. Assurdo. Straniante. Dilaniante.

Le era passata la gran voglia di trombare, annotò, brutalmente e ironicamente, con se stessa. Vaffanculo, Grandier.

Quanto è grande, dentro, ricorda di essersi domandata distogliendo rapidamente lo sguardo.

Quasi non riusciva a raggiungere la scrivania del dottore. Le gambe come di pietra, ma fragili. Quasi non sentiva le sue parole. Le spiegazioni. Immagini che aveva tirato fuori per illustrare progressi e cambiamenti. Tempi. Cosa l’aspettava. Organizzato, efficiente, manco stessero preparando una missione. Ed era quella cosa che le stava dentro. E che ora percepiva, sgradevole. Infida. Traditrice. Debole. Forte.

Non ha sentito cosa ha detto, tutto era sfocato nella percezione. Forse ha annuito, non lo sa. Avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto qualcuno che l’abbracciasse e la consolasse. La liberasse.

Ricorda di avergli consegnato, con mani tremanti, il pagamento. Di essersene vergognata. E quasi il denaro le cadeva dalle dita.

 

E, dopo, la strada. Quel sole che l’abbagliava. E lei, disperata, spaventata. Persa. Gli occhi lucidi. Le mani a coprire il viso.

Che succederà, ora… che faremo…

Devo dirglielo…

Non aveva neanche la forza di camminare. Si era appoggiata, tremando, al muro, sparendo in un vicolo riparato. Avrebbe voluto sprofondare. Uno squarcio di cielo, tra le pareti alte delle case. Strette. Gli occhi a quel lembo.

La mano sul ventre. Subito allontanata.

 

Non ricorda com’era arrivata al lavoro.

Cosa aveva fatto, chi aveva incrociato. Le risposte che aveva dato. Non ricorda quanto tempo fosse passato. Pensava devo dirglielo… devo dirglielo… ma lui, dov’era finito?

Devo andare via. Devo andare via. È un incubo… è un incubo…

 

Si era spogliata. Sul letto, si era osservata. Passando le dita sul seno, sul ventre. Allontanandole subito. Stringendole, a pugno, di orrore. Di scoramento. Si sentiva infinitamente sola.

Che fregatura… che tremenda fregatura… non sono fatta per questo, ricordava di aver pensato. Lei voleva André, voleva stare con lui, che lui la toccasse. Voleva il sesso, sì, ma non questo. Che punizione era, questa? Perché non l’aveva capito?

Chissà per quanto non si sarebbe notato ancora… Pensieri che si affastellavano, rabbia, paura, frasi, immagini.

Abbandonata, i capelli sparsi sul viso, sul seno, era rimasta lì.

 

Che tu sia maledetto.

 

Poi, era arrivato. Che era sera fatta. Trafelato. Stanco.

Era entrato in casa. L’aveva chiamata. Poi, non sentendola, era entrato in camera.

Sapeva che quel momento doveva arrivare. Non aveva avuto la forza di muoversi.

Era rimasta lì, quasi nuda, e non aveva più quasi lacrime.

Si era sentita malissimo, quando lui si era preoccupato. “Amore, cosa succede?”

E lei non era più riuscita a trattenere i singhiozzi.

“Cos’hai?” L’aveva presa tra le braccia. “Sei gelata!”

Le aveva messo una coperta addosso.

“Io… io…” era stravolta. Non riusciva a parlare.

“Che succede, amore? Stai male?” Si era allarmato.

Aveva fatto cenno di no. Le mani a coprirsi il viso. A cercare di soffocare i singhiozzi. E non riusciva a smettere di tremare, in quell’abbraccio. Perché lo odia.

Gli aveva preso le mani, se le era portate in grembo. Aiutami…

“André, aiutami…”

“Che cosa succede?” Allarmato.

è che… oggi… prima… il dottore…”

“Che hai?”

“Oddio, aiutami…”

“Oscar, ma tu…”

“André, aiutami… ho paura…”

Aveva provato rabbia, e tenerezza, sentendo la dolcezza, nella sua voce. Il calore. La speranza. “Sei incinta?” Aveva osato. “Sei incinta?”

“Ho paura…”

Aveva annuito, e si era sentita buffa. Impacciata. Si era nascosta nel suo abbraccio. Odiandolo, ed era tutta colpa sua.

Le aveva scostato, piano, le mani dal viso, in un gesto di tenerezza infinita.

L’aveva sollevata tra le braccia e se l’era messa in grembo. Come una bambina.

Lo odia e si sente in colpa.

Perché lui è dolce. E lo vuole.

Si odia.

È più facile odiare se stessi che chi si ama.

Aveva letto il dolore, André. Le lacrime. La paura. L’amore. “La mia Oscar…” si era commosso. E lei si era sentita malissimo. Spaventata. Furibonda. Felice per lui. Le aveva carezzato il viso. Intrecciato le dita sulla nuca. “è… è bellissimo…” in un’espressione d’incredulità. Scuoteva la testa. “è bellissimo…”, ripeteva, piangendo.

“Noi due avremo un bambino…” le aveva detto. Accostando il viso al suo. “Un bambino… ci pensi… noi due…”

Certo che ci penso, idiota…

Le aveva raccolto le mani sulla pancia. Accarezzandola.

Aveva sentito un calore fastidioso, l’avrebbe ucciso, l’avrebbe abbracciato.

L’aveva abbracciata lui. “Sei spaventata…” e l’aveva stretta forte. “Non avere paura…” non avere paura… aveva ripetuto. Forse a se stesso.

E lei non riusciva a dire, e pensava, in un tuffo al cuore, che lui era incredibile, straordinario. Che era ingiusto verso Daniel. Che lei si sentiva male, terrorizzata. Confusa. Noi avremo un bambino… Spaventata. Sentiva, dentro, una voragine. Una commozione infinita, e spavento. Il noi avremo un bambino che suonava diverso dal dire sono incinta. Un progetto folle contro uno stato di fatto medico. Il suono rassicurante di quel non avere paura… Se tutto si fosse risolto, rifletteva, nel trovarsi in casa un bimbo in più, sarebbe stato forse più semplice, anche se complesso. Invece, bisognava produrlo. Le donne producevano bambini. Lei era una donna. Lei, che lo aveva evitato per anni, aveva accettato di fare un figlio con lui. Non era il bambino di un’altra. Stavolta era il suo.

Come cazzo le era venuto in mente?

Si sentiva fragile. Si sentiva male. Con se stessa. E come persa in una speranza.

Pregò che lui sapesse starle vicino.

Che non la abbandonasse. Mai. Che avesse forza e testa e cuore per tutti e due.

 

Perché lei non era preparata. Non lo era in alcun modo.

Forse poteva conviverci, finché non si notava troppo. Ma dopo? Dopo, come avrebbe fatto? Nascondersi? Sparire anche a se stessa? Sarebbe riuscita ad accettarsi? Ora si rendeva conto di non aver calcolato, da prima, ciò a cui stava realmente andando incontro. Si sentiva perduta.

Definitivamente perduta.

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione primavera-estate 2016, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2017

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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