Christine

Parte XXXIV

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

“Una piccola Oscar…” un tarlo importuno nella voce di lui che risente. Infastidita, raddolcita.

Mentre si chiude la porta alle spalle.

Sulla notte, sui pensieri. Sulle cazzate alcooliche.

 

 

“Idiota irresponsabile”, mentre picchia, rabbiosa, un pugno sulla scrivania. “Che diavolo gli viene in mente?”, si domanda, mentre pensa che sarebbe più cinicamente comodo se andasse a soddisfare altrove queste smanie di famiglia. Altrove dove, poi, si chiede. “Vuoi un’altra tragedia greca, Oscar…” ride di sé, scuotendo la testa.

Mai avrebbe pensato che lui avrebbe osato chiederglielo…

Proprio lui, che la conosce così a fondo.

L’idea di diventare madre, lei non la contempla. Non la riguarda. E non la sente come una perdita. Le va bene la sua vita di ora.

Non sente la necessità di estendere qualcosa di sé oltre. Non sa se è perché non è stata cresciuta con quell’idea o, semplicemente, perché lei sia fatta così.

Non sente neanche che alla loro coppia manchi qualcosa.

Sta bene con lui. Sta bene nelle serate che si ritagliano insieme. Sta bene con lui al lavoro. Daniel lo tollera, anche se si rende conto che è brutto usare quel termine, proprio perché è qualcosa di annesso. Aggiunto. E proprio perché non è costretta, forzata, in un ruolo che non vuole o da legami. Sono scelte, e le scelte sono cose diverse. Sta lì, le vuole bene, lei gli si è affezionata. È un simpatico rompiscatole che si è appassionato a lei, ma, per fortuna, André se occupa ampiamente, lo tiene arginato. E, per quanto la riguarda, l’equilibrio di loro due più lui è già abbastanza. Anzi, troppo.

Non è neanche mai entrata in contatto con le idee forse più ancestralmente legate alla cosa. Quasi le rifuggono. Il concetto stesso di fare da incubatrice, così, strumentalmente, le ripugna. Un essere umano servente. Una donna non ha proprio altro da fare?

E i cambiamenti del suo corpo? Inchiodata come una mongolfiera, gonfia… ricorda Christine, ha visto qualche altra donna attorno a sé e quasi le ripugnano quei discorsi e modi tutti loro, si è sempre sentita distaccata dalla cosa. Poi loro, le donne, possono nascondersi con gonne e col ruolo sociale, ma lei? Lei, il suo modo di essere, se stessa, vestire semplicemente, camicia, calzoni, giacca… dove andrebbero a finire? Cosa la nasconderebbe?

Soprattutto, nasconderebbe a se stessa, all’idea di se stessa che si è fatta, e che ha modificato, negli anni.

Non crede, davvero, di averne voglia.

E, di nuovo, come un malessere montante, dentro, si domanda perché lui la tradisca così, come possa, proprio lui, con quegli interrogativi a cui almeno un no bisogna risponderlo. Un no, se non un sì. Con tutto quello che socialmente vanno a significare, con tutte le aspettative, gli investimenti. Con tutto quello che, antisocialmente, lei è stata, completamente a sé, tutto sommato contenta di come sono le cose al momento, fino ad ora. È arrabbiata, con lui. È preoccupata di quella variabile che entra nella sua vita. Ha risposto, ma il tarlo è lì.

Poi, però, il fastidio, lo sconcerto, la rabbia stemperano e lei torna a trovarsi in quel bilico, in quel confine sospeso, una zona liminare che, da qualche tempo, fa parte della sua vita. E si domanda perché, tra tante, abbia scelto lei, pur sapendo cosa sarebbe stato. E perché, ora, proprio a lei, lo domandi, sapendo, di nuovo…

Eppure, nonostante l’avversione, di principio, mentale e fisica, all’idea, il suo ripudio del concetto, la scocciatura di dovergli anche rispondere in modo urbano senza mandarlo al diavolo e senza possibilmente sfasciare la loro unione – perché lei non sarà d’accordo, ma, poveretto, un po’ lo capisce –, la fa in qualche modo sorridere, la intenerisce che abbia trovato il coraggio o l’incoscienza o, forse, la demenza, di chiederlo, e proprio a lei.

“Che stupido, Grandier… sei proprio uno stupido…”

 

Il generale tiene Daniel sulla sella, davanti a sé, mentre gli mostra la tenuta e gli parla di armi, di organizzazione militare.

“Posso vederlo anche io, il confine?” Domanda il piccolo.

“Magari…” risponde pensoso, “tra qualche anno…”

“Uffa, io voglio andarci andesso!”

Ride, Jarjayes: “È lontano! Sono giorni di viaggio!”

È appena tornato da una missione sul confine e, come d’abitudine, perché negli anni certe cose non sono cambiate, avrebbe cercato volentieri la moglie, ancora così bella e accogliente. Ne è ancora innamorato, come quando la conobbe durante una missione in Lorena; ancora, dopo averla voluta contro tutti; ancora, dopo cinque figlie femmine e Oscar, che è cosa unica. Purtroppo madame era a corte, con la regina che fin troppo la adora e spesso la trattiene presso di sé.

Irrompe la frase di Daniel, tra le sue, militari, e i suoi pensieri: “Nonno generale, io vorrei una sorellina…”

“Eh? Cosa? Come?”, mentre il cavallo scarta e Jarjayes riesce appena a trattenerlo.

“Va bene anche un fratellino…” aggiunge, con nonchalance Daniel, notando il disappunto del generale.

“Ma, ma, ma, ma, non è possibile!” Mentre sente le coronarie pericolanti.

“Perché?”

“Un giorno te lo spiego…”

 

Più tardi, avvolto nelle braccia della consorte finalmente recuperata, esprime tutto il suo disappunto.

“Non deve succedere!”

“Suvvia”, tenta di farlo ragionare la moglie, “vorreste negarle tutto questo?” Gli fa notare, accoccolandosi meglio accanto a lui.

“No, certo, ma un figlio…”

“Perché no?”

“E il suo lavoro? Come farebbe?”

“Lo riprenderebbe appena possibile. Oscar è sempre stata fin troppo seria, sul suo lavoro, no?”

“E una carriera? Ora è generale di brigata, ma certamente…”

Gli posa una mano sul petto. “Dicono che ci sarà una rivolta popolare. Allora starà certamente meglio il più lontano possibile dalla battaglia. Volete perdere vostra figlia?”

La guarda negli occhi, lui. Profondamente serio.

Le carezza il viso.

“Starà certamente più al sicuro con André, che non in mezzo ai nobili…”

Le prende le mani. “In quel caso, voi dovrete mettervi in salvo, con le ragazze… in Savoia, in Piemonte, non so…”

“E voi?”

“Io… io sono fedele alla corona”, le dice, mentre, l’abbraccia. “Ma ora, che senso ha pensarci…”

 

 

“Ma cosa succede a quei due?” Li osservano, svagati, innamorati persi, scomparire, un gesto rapido della mano, gli sguardi che si sfiorano. Separare le mani, intrecciate, non appena a portata di sguardi. Mentre Parigi brucia, la storia corre, dopo l’ennesimo inverno di gelo e loro sfiancati di lavoro, sempre di corsa, il tempo rubato per riuscire a stare insieme, per vedere Daniel, tra i turni, la pioggia, i tumulti che incombono.

“Lasciateli stare… è l’amore…” commenta Nanny, indulgente.

E, riparati, rimanere stretti, come fosse un ultimo abbraccio, serrati l’uno all’altra. Come non potessero fare altro che appartenersi.

 

Lo osserva, Oscar, mentre la guarda, innamorato.

Sente la sua stretta salda.

A volte si domanda quanto sia dovuto alla gelosia per Alain, al temere di non averla tutta per sé. Ma si dice che non è questo. Che non è così, tra loro. Non ora. Che André ha superato quella fase, e lei quella di Christine. Ora sono, davvero, l’una per l’altro. Ora lei lo ha. Senza riserve.

Ripensa a com’è cominciata.

“Come andiamo”, mentre la mano scivola su di lui, che le struscia la testa contro il braccio, come un gattone.

“La situazione era calma, prima…” sornione.

Poi, è un attimo. Liberarsi dei vestiti, la foga di trovarsi, subito, poi, più lentamente, in un ritmo appagato. E sentire che non basta, non ancora. Le braccia di lei, forti, sulle sue. La stretta solida. Vincerla. Averla, tutta, per sempre. All’infinito.

 

Daniel è appena tornato dalla passeggiata a cavallo col generale, estatico, e non smette di raccontare quello che ha fatto col “nonno signor generale”.

Nelle cucine, Oscar, incredula, annota: “Non ci posso credere”, mentre André la circonda con le braccia, dicendole, in un bacio, tra i capelli: “Io invece sì”.

“Ragazzi”, li rimprovera Nanny battagliera, mentre i due, con aria colpevole, si sciolgono dall’abbraccio, “quante ne deve vedere questo povero bambino? Vergognatevi!”

“Ma noi…”

“No, nonna, io sono contento…” e si guadagna sguardi interrogativi addosso. “Così mi fanno una sorellina”, spiega soddisfatto. “L’ho detto anche al nonno!” Confessa trionfante, come fare due più due.

Rossi in volto, imbarazzatissimi, protestano: “Daniel…” lui, rassegnato, “Basta con gli scherzi!”, lei, imbufalita.

“Ma è vero”, protesta Daniel.

“E lui che ha risposto?”, tenta di inchiodarlo Oscar.

“Che me lo spiega dopo”.

“Ecco, vedi? Non è un argomento da discutere.”

“No, invece” insiste, “me l’ha detto lui” e indica accusatorio il Grandier.

“André”, Oscar lo scosta da sé, inferocita, “Ma che diavolo ti salta in mente!? Cos’è? L’alleanza Grandier?”

 

Sono troppi giorni che la cosa va avanti. Daniel è fissato. Sperava che, come coi giochi, poi la passione svaporasse. Invece qui si sta rivelando grandierianamente testardo. Lo prende da parte. “Vieni, ti porto a cavallo.”

“Ancora! Bello!”

È felice, Daniel. Adora quando Oscar lo porta con sé. Si sprimaccia tutto ben bene contro di lei, gli occhi che brillano di felicità appagata.

“Spiegami cos’è questa storia…” affronta il discorso, dopo un po’.

“…” Alza le spalle. È disorientato, di fronte all’atteggiamento di lei. È diversa dalle altre donne che si vede attorno, non ha le stesse reazioni. Non sa come comportarsi, ora. Quello che prima gli era sembrato importante, a valutarlo da solo, ora pare essere totalmente in discussione, di fronte a lei.

“Avanti…”

“Vedo gli altri bambini…”

Lo guarda con attenzione. Segni, sguardi, atteggiamenti. Ogni cosa.

“A volte mi sento solo…”

“Ci sono i tuoi cugini, François…”

“Ma è diverso… non li vedo sempre…”

“Li vedi spesso, e comunque non sei mai solo, le nonne sono quasi sempre con te… e anche noi…”

Lo vede abbassare lo sguardo, corrucciato, deluso.

“Ti rendi conto che se avessi un fratello avremmo ancora meno tempo per stare con te, tutti quanti?” Glielo dice con dolcezza, ma è ferma.

Annuisce. “Ma… io sarei contento.”

“Io invece credo che ti sentiresti ancora più solo…” Ma com’è questa idea fissa dei due Grandier, si domanda, un po’ scornata.

“Però sarebbe bello…”

“Perché?” Non se ne capacita.

“Ci gioco, gli racconto le storie…”

“Non vuoi un cane?”

“Anche. Me lo prendi?”

“Poi vediamo...” Ossignore…

“Io non voglio essere solo.”

“Daniel, un bambino non è un oggetto di cui un adulto può disporre. Farlo è una cosa seria.”

“Lo so, ma… io vorrei giocarci…”

“Ma non è neppure un giocattolo, è fragile, puoi fargli male… puoi giocare con i giocattoli… non con le persone…” Già, non con le persone… chi di noi, in fondo, sta più giocando con l’altro?

“Tu non capisci…”

“Credo di no… spiegami…” No, non posso capire, sono piena di sorelle, io.

“Credo che papà si è sentito molto solo, da piccolo, finché non ha avuto te…” La sorprende.

Interdetta, si domanda di quante cose si renda conto Daniel. Abile ad ammazzarla col senso di colpa. Si ritrova a considerare che non l’aveva mai vista in quell’ottica: aveva sempre pensato che era André ad aver alleviato la sua solitudine, non il contrario.

Si china verso di lui, in una carezza: “Era diverso, sai… noi avevamo solo un anno di differenza…”

“Va bene, prendi le scuse che vuoi…”

Scuote la testa, incredula. Inchiodata da quella piccola peste. Non ricorda che loro due fossero stati così, ai tempi…

 

 

Se ne sta, sornione, appagato, dopo aver preparato la cena, ad inventare storie mentre aspetta che lei rientri, rilassato su una poltrona, Daniel tra le braccia. Il bambino adora stare in braccio, e a lui piace goderselo finché ancora non si vergogna di essere così attaccato ai genitori. A lui, si corregge. Si è reso conto che Daniel è particolarmente legato a lui. Adora Oscar, ma è quando è assente lui che reagisce peggio. Si domanda come sia riuscita, Oscar, nonostante i mille dubbi che ha sempre mostrato, a farsi capire con tanta naturalezza, a tranquillizzarlo, a fargli intuire che lei sarebbe stata, lì, per lui. La ammira. Non riesce ad essere espansiva come lui, eppure ha degli sguardi, dei gesti che sanno infondere fiducia. E Daniel sembra farne tesoro.

E, in un’ombra, si chiede come farà, quando sarà completamente cieco. Il respiro gli si gela. Stringe di più a sé il bambino. Un bacio sui capelli mossi.

Si alza a guardarlo, si inginocchia su di lui. Un bacio su una guancia. “Raccontami ancora… ricomincia…”

 

Li trova così, addormentati davanti al camino ormai spento. È stanchissima, le gambe che quasi non la reggono, le mani senza forze. Eppure, guardando loro, sembra ritrovare le energie. Fa attenzione a non fare rumore, li raggiunge, da dietro. Poi, una cascata di capelli a sfiorarlo. Non apre gli occhi. Ha paura sia il buio. Sa che è lei.

“Ciao, amore”, la ferma con la mano. La attrae a sé.

“Ciao…”

 

 

Lo guarda, quasi divertito.

“Certo che sei uno scemo…” mentre si scioglie il fazzoletto rosso e poggia la giacca sullo schienale.

“Senti chi parla…” Sembra diverso, dopo la morte della sorella, poi della madre.

“Non dico che non ne valga la pena…”

Vorrebbe fulminarlo con un’occhiata – altri tempi! –, lo sguardo ora è vuoto, ormai.

“Dai, Grandier, piantala… ormai è acqua passata, non puoi smettere di avercela con me?” Insiste, mentre gli assesta una pacca sulla schiena.

“…” Lo sguardo lontano, André rimugina i pensieri. Gli viene anche un po’ da ridere, gli riesce ancora bene fare quello bello che guarda lontano.

“Se lo vuoi sapere…” tenta di insistere, Alain.

“No…” ostinato, André.

“Se lo vuoi sapere”, continua, imperterrito, “glielo avevo detto che sarebbe finita così…”

Non lo guarda, ma il respiro sembra sospeso, e l’attenzione vola.

“Almeno un paio di volte…” sembra ripeterlo più a se stesso. “Io… lo sapevo…”Come in un ricordo. Non ho mai pensato potesse finire diversamente…

Sembra vagare lontana, la mente di André.

 

Dopo un lungo silenzio, all’improvviso, gli domanda: “Che ne sarà di Daniel, se mi succede qualcosa? Se ci succede qualcosa…” è come sprofondare in un abisso, quel pensiero. Improvviso. Cattivo. “E di lei? Se restasse sola, adesso… come farebbe…”

“Andate via… lontano da qui…” La speranza che qualcuno di loro si salvi. “Quando scoppierà, questa sarà una guerra civile…”

“Le guerre civili degenerano in guerre esterne… i governi cercano il modo di distrarre l’attenzione dai problemi interni… le altre nazioni tentano di ingerirsi per guadagnare dai nuovi equilibri, annettere territori, per non perdere i propri vantaggi… Sarà un periodo tremendo… ma Oscar non accetterà mai…” è consapevole, André, della realtà che li attende.

“Lo so… ma almeno il bambino…” Il realismo. “Forse potrebbe stare coi nonni…” E le scelte…

Scuote la testa, André. “Sono nobili… lo adorano, ma, lo sai, vivere con loro è un rischio che non voglio corra.”

“Gli altri?”

“No”, sembra annientato. Perso in un tempo lontano. “No. Gli altri mai…” Una follia… non voglio lasciarlo a loro. “Non posso lasciarlo ai genitori di lei.”

“Come si chiamava?”

“Christine.”

 

 

Gliel’ha domandato di nuovo.

Lo desidera davvero.

“Sei sicura che non vuoi farmi una sorellina?” L’ha scrutata, accorato, un sorriso solare.

Gliel’ha detto all’improvviso, mentre camminava con lui per strada, la mano nella sua, e ricordava la prima volta che lui aveva fatto quel gesto, di prenderla per mano, con estrema naturalezza, e invece lei era trasalita. Il primo contatto di quella mano. L’imbarazzo. L’affetto che cresceva.

E Daniel che sembrava già deluso.

“Daniel… io sono… diversa…”

“Non è vero.” Lapidario. “Tu lo pensi e basta.”

 

Avrebbe voluto piangere.

 

 

Mentre era in lei. Intenso. E le percorreva i fianchi. Il ventre, i seni, con le mani. E a lei pareva d’impazzire. Lo voleva.

Si è guardata, di sfuggita. Non lo fa mai. Ha visto capelli, seni tesi. Ha visto la pelle di lui sulla sua. L’ha sentita, bruciante. La piccola mezzaluna dell’ombelico sollevarsi, abbassarsi, nell’ansimare. Ha visto contrarsi gli addominali, l’ha sentito in sé. Ha serrato, si è mossa, arcuandosi. Lo vuole. Di più.

Non le basta, l’orgasmo, mentre resta abbracciata a lui, ansimante. Lo desidera con violenza. Ancora. Tutto.

Se lo preme sui seni. Gli guida le dita.

“Vi siete messi d’accordo, tu e Daniel?” Ha scherzato, la voce appena roca, muovendosi su di lui. Serrandolo. Sapendo che avrebbe fatto meglio a tacere.

L’ha guardata, sbalordito. “No. Che ha combinato?”

Ha scorso le dita su di lui. “Hai presente, il comitato pro-sorellina?”

Accarezzarlo, percorrerlo, la eccita. Chiude gli occhi.

Sente la pelle sotto le dita. Il respiro.

Si è fermato. “Mi dispiace.” La scruta, serio.

“Se proprio lo vuoi”, gli ha passato le mani tra i capelli. Lungo il viso. Sul torace, “vedi di essere… uhm… molto convincente…” Lo ha guardato con occhi che scintillavano.

“Dici davvero?” ha sollevato lo sguardo su di lei, repentinamente.

“Dici davvero, Oscar?”, ha ripetuto.

Gli occhi continuavano a scintillare, fermi in quelli di lui.

L’ha sentito, dentro, più intensamente.

 

Dio, quanto ti voglio… infinitamente… avvolgendolo, totalmente, come ad invitarlo, prenderlo, completamente. Sono fottuta, ricorda d’aver pensato.

 

Dopo, l’ha abbracciato forte. Contro di sé. Mentre aveva una gran voglia di piangere. Si sentiva sola. Infinitamente sola.

Perduta.

Aveva paura.

E l’unica cosa che riusciva a pensare era di tenerlo abbracciato.

Niente altro.

 

Se ne è accorto, lui.

“Non… avere paura…” le aveva detto, lo sguardo profondo, bellissimo, una mano a carezzarle il viso.

 

Quanta dovrei averne, io, che sto diventando cieco?

 

 

 

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008 e fino a ottobre 2015, revisione primavera-estate 2016, pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2016

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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