Christine

Parte XXXIII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

“È morta.”

Le ha detto solo questo. Stravolto. I capelli in disordine. La barba non rasata.

E lei ha capito.

 

Perché Alain non tornava? Era sparito da giorni.

Poi l’avevano trovato. A casa. Con la sorella, morta.

 

Aveva sempre saputo che era forte, a modo suo. Ma non pensava tanto. Non pensava fino a questo punto.

È morta sola, come un cane. Come si muore, tutti.

E, improvviso, terribile e perfido, un pensiero. No lei non lascerebbe morire da solo André. Lo seguirebbe, morirebbe lei da sola, piuttosto, ma a lui, no, non farebbe questo. A lui terrebbe la mano. Lo accompagnerebbe. L’ha già lasciato solo troppo a lungo.

“Era incinta.” Gli pesa pronunciare quelle parole. “Era disperata.” Articola a fatica. “Quando quello l’ha lasciata” e il disprezzo pesa, nelle sue parole, “credo non abbia avuto più la forza…” si passa una mano tra i capelli. Ha provato ad abortire… è morta dissanguata. Non riesce neanche a continuare.

“Di forza ne ha avuta molta…”, dice lei, quasi a se stessa.

Lui alza le spalle.

“E tu”, lo aggredisce, poi, impietosa. Rabbiosa “tu non le avevi detto niente?” Lo guarda, senza velare l’accusa. “Tu, così scafato…”

Solleva lo sguardo, sorpreso. Colpito. Impotente.

“Tu, che ti scopavi le altre e stavi attento!” Mentre non riesce a trattenere le lacrime, e le rigano il viso. “E lei? Non pensavi fosse come tutte le altre?!” Mentre, scossa, quasi non riesce più a parlare. “Tu, che sapevi come evitarlo!” E allora urla. “Perché?! Pensavi di proteggerla?”

Sta lì, che lo domina, attonito.

“Perché non gliel’hai detto?” Lo inchioda.

“Cazzo, era quasi una bambina!” Con la voce rotta. “Che le dovevo dire?”

Poi, crolla. Mentre domande si confondono in lacrime. E dita che nascondono il pianto.

Sente solo il petto di lui, che la stringe, piano. Che non sa dire, forse vorrebbe consolarla. Forse che lo consolasse.

Lì, attorno, il grigio incolore delle pareti e l’ombra paiono avvolgere tutto.

“Le ho detto di non preoccuparsi”, ricorda, adesso, piano. “Di scegliere come si sentiva.”

Stanno seduti a terra, ora, le schiene contro il muro sporco.

Nota la polvere, sulle pietre grigie, colpita da un po’ di luce dai finestroni. Da lì, di solito, entra solo il gelo.

“Le ho detto di stare tranquilla… che ce l’avremmo fatta. Che la mia paga sarebbe bastata…” le mani, inerti, intrecciate. “Ma era troppo orgogliosa.”

“Per chiedere aiuto…” lo guarda.

“Anche per accettarlo…”

“Sì…”

“Per ammettere di aver fatto uno sbaglio…”

“Sbaglio…” lo corregge… “Capita… capita… a molti…”

 

Restano lì, un tempo infinito.

Senza sapersi alzare.

 

Li ha visti, André. Ha saputo.

E se ne va, sono dolori che non si possono dire.

Lo osserva, nella distanza. Sospendendo l’animo, il giudizio. Ogni cosa.

 

 

“Vado via, per un po’…”

è venuto a salutarla.

Sembra passato un secolo, sul suo viso.

Quando lo vede girare le spalle e chiudersi dietro la porta, sa che è tutto finito. O forse lo pensa.

 

 

Fa paura, la morte. Attorno.

Quando è di qualcuno che sentiamo vicino o esemplare. E tocca ripensare i cardini dati – o imposti – alla propria vita. Le scelte praticate.

A volte, irrazionalmente, la si vorrebbe sconfiggere. Vivendo. O costruendosi piccole quasi certezze. Puntellando la propria realtà quotidiana. Non pensandoci. Per non pensarci.

È forse questo, che accade ad André, si domanda lei?

Questa storia della ragazzina, lui lo sa, l’ha sconvolta. Lei si tiene tutto dentro. Lui, silenzioso, appronta le sue difese. Vive.[1] La vuole tutta per sé.

 

 

Lui è strano, da qualche tempo. Come preso da un pensiero lontano, che si avvicina, un’idea, che quasi riesce a cogliere, poi, invece, allontana. O, più correttamente, rifiuta. Soffocando dentro di sé quello che istintivamente sente.

Non può chiederglielo. Non a lei.

Un conto è suggerirle, adolescente, di non dimenticare di essere una donna, un conto è ridurla a vivere la usuale vita di una donna. Sono cose diverse. E lui ha avuto già abbastanza così. Deve fermarsi, non può davvero osare.

 

Lo vede distante, come perso dietro fili di pensieri. Come smarrito lungo una strada, a volte.

Lo sguardo, lontano, che vaga chissà dove con la mente.

Che gli succede? Che cosa, si domanda, mentre gli si avvicina, silenziosa, e gli prende la mano.

Un gesto tenero, che lo sorprende.

“Oscar, io…”

Gli occhi negli occhi di lei, mentre un refolo di vento gli scompiglia i capelli, lo jabot.

Lei, in una carezza, glieli sistema, fermando un attimo di troppo la mano sul suo viso.

Gli brilla qualcosa nello sguardo. Qualcosa di diverso dal solito. Le passa un braccio attorno alle spalle.

“Io…”

No… no… non a lei… non posso… non a lei…

Eppure…

Scuote la testa, a scacciare il pensiero, un sorriso lontano.

 

Eppure non riesce a smettere di pensarci.

L’ha baciata, impetuosamente, in quei pochi momenti di libertà nell’ufficio di lei, e l’avrebbe presa lì, subito, già le mani erano scivolate sotto la camicia, sulla pelle di lei.

E, dopo, a casa, mollando Daniel alla nonna, non ha neanche atteso che arrivassero in camera, sorprendendola, spogliandola in soggiorno, le mani che premevano sui seni, contro il tavolo. Le labbra calde sulla schiena di lei.

“Ma che ti prende”, rideva lei, divertita, “Qui fa freddo…”, protestava, mentre lui la liberava dai calzoni e voleva solo lei, voleva solo prepararla, renderla accogliente, per metterglielo dentro. Dentro. Dentro.

Per un attimo, la sua espressione assorta le ha fatto paura. Come presagire qualcosa di anomalo.

Si solleva sui gomiti, incontrando quello sguardo strano. Troppo intenso. Bruciante.

Sono le sue mani, tra i capelli di lui. Le labbra di lui, dolci, rudi, sui suoi seni.

È giusto un attimo.

Lui pare vivere quasi un sogno separato, freddamente, incapace di voler tornare in sé.

Io lo voglio…

Mentre le solleva i fianchi ed è in lei.

Non posso…

No. No, davvero…

Non posso chiederglielo…

Non alla mia Oscar…

 

***** Derive ******[2]

 

Se lo aspettava, da un po’. Da certi sguardi, che indugiavano, come a nascondere pensieri. Da come la teneva più stretta a sé. Con più forza. Come se fosse ancora più sua.

Giusto un’intuizione, ma sentiva che sarebbe successo.

“Vorrei un bambino…” l’ha detto, una notte, così, mentre lo facevano, lei ancora sconvolta dalla sensazione di lui, le sue labbra, la lingua che premeva, insisteva, scorreva, tra le sue gambe, lasciando le parole sospese. Mentre, guardandola intensamente, risaliva su di lei, i capelli a sfiorarle una spalla nuda.

E lei ha provato dolcezza. Dolore. E rabbia. È così che si fa, si è sorpresa a pensare, improvvisamente cinica. È questa la tattica.

Non gli risponde. Lo scruta, allarmata, ansimando, per cercare di intuirne i pensieri, per cercare di calmarsi. Mentre lo sente dentro di sé.

“Aspetta… per favore…”

Possederla. Percorrerla.

“Non… non lo vuoi…” la delusione che la interroga, e pesa. Si è fermato.

“No.”

No e basta. No senza spiegazioni. Un macigno.

Ma è così che si risponde agli attacchi. Alle delusioni. Soprattutto ai tradimenti delle aspettative. Della fiducia.

Restano lì, in silenzio. Lui che non osa quasi respirare. Lei che ora sembra distante, a domandarsi entrambi perché momenti che dovrebbero unire, sembrano scavare solchi tanto più profondi.

La sente girarsi tra le sue braccia. Passare sopra di lui. Sono di lei, i capelli, che, ora, gli spiovono addosso. I seni contro la sua pelle. È completamente preso da lei. Pazzo. Vorrebbe possederla tutta. Farla sua. Avere tutto di lei. Da lei. Tutto.

“Com’è stato l’altra volta…” a bruciapelo.

La osserva, interrogativo. “… Co… come in che senso???” Vagamente in panico. Temporeggia. Non vorrà mica sapere… mentre annota, sconcertato, che gli entusiasmi, mentali e fisici, cominciano a vacillare. Che non bisognerebbe fare e porsi troppe domande, mentre si scopa.

Mentre lei si impossessa di lui, uno sguardo indefinibile, da gatta, e gli entusiasmi sembrano riprendere vita, mentre lo serra.

“Come te lo chiese, lei…” Non sa nemmeno perché abbia parlato. Così, a colpo sicuro, escludendo che fosse stato lui. Ma ricorda bene quando lui le confessò “lei lo voleva”. Cosa l’abbia spinta. Se sia un tentativo di paragonare situazioni e persone. Se sia la voglia di condividere, fino in fondo, le loro due vite, e un pezzo di passato che non le appartiene. Di stare, anche con questo, più vicina a lui. Di farsi del male. Di essere onesta. Non lo sa.

Lo guarda, ne percepisce l’imbarazzo. Il pudore dei ricordi.

Aumenta il ritmo. Spietata. Curiosa.

Una mano sulla sua. “Ti prego… non…”

“No?” lo osserva, divertita.

“Fermati, per favore…” La abbraccia, forte. La tiene stretta a sé, mentre cerca di regolarizzare il respiro, tra i capelli di lei.

Resta così, per un tempo indefinito.

Esita, a rispondere. Sa benissimo di averle detto che era stato Christine a volerlo. Lo ricorda perfettamente. Ma, si domanda, come si fa a raccontare certi momenti? E a non ferirla, lasciandola entrare in istanti così ancora vividi, se ci pensa – e a volte gli pare di averli volutamente cancellati, eliminati –, che non erano stati anche suoi? Come si può non farle del male, riportandola a quando tutto cominciò a crollare, e a riprendere, e poi ancora finire, tra loro?

Respira, piano.

Ma, alla fine, pensa che sia giusto, se lei lo domanda.

“Fu bello…” Non c’è altro modo per descriverlo. Si rende conto che non le basta. Ma è difficile rintracciare le sensazioni e riportarle a galla. Senza ferire. Essendo onesti. “E strano.”

Si è sollevata a guardarlo.

Le prende le mani per i polsi. Li intreccia su di sé. Lo sguardo lontano.

Lei trasale, ripensa a quando tamponava il sangue della sua ferita. Sente la cicatrice sotto le dita. La pelle diversa.

“Non ci pensavo… e, da quel momento, invece, diventò un’idea presente… non so come spiegarti… piccola. Ma era lì.”

Annuisce, lei. Crede di poter arrivare a comprendere. Uno strano stato di follia, si dice… E gli è grata. È uno di quei rari momenti in cui tornano a parlare di lei. E sa quanto gli costi.

Le bacia il palmo di una mano. Le dita.

“Non mi hai risposto…” Non smette di fissarla. Intenso.

“L’ho fatto, invece.”

“Sei sicura…?” Speranza. Delusione.

“No. Non me la sento.” Percepisce la propria voce risuonare come esterna al corpo.

Quella di lui farsi lontana. Indebolita. Annuisce.

“Perché?”

“Perché la mia vita mi piace così.”

Lui resta in silenzio. Si sente allora in dovere di continuare. “Non voglio altre complicazioni…”

Lui sorride, un po’ triste. “Come Daniel, per esempio…”

“Non ho detto questo.”

“No, però…”

“Se penso a Daniel, posso dirti che non voglio che si senta diverso, meno importante… non voglio che si confronti con un… figlio effettivamente mio…” prova imbarazzo.

“Sa di non esserlo, ma ti vuole bene…”

“Ma lo sa… lo vivrebbe come un tradimento. Diventerebbe geloso.”

“Se è lui che ne parla…” obietta.

“Io credo sia un modo per esorcizzare una sua paura di essere soppiantato, sostituito nel nostro affetto… se succedesse davvero, non sarebbe facile per lui…” risponde, pensosa. Eppure è consapevole che a lui non basta.

“È trattandolo così che lo fai sentire diverso. Se fosse nostro,” e lei prova un brivido “non ti preoccuperesti di questo.”

“No. E, sarà pure una scusa, ma è vero che non voglio ferirlo.” André ha ragione, ma lei non vuole farsi incastrare. “In fondo, da mio padre non mi sono mai sentita realmente accettata per quello che sono…”

Annuisce, lui. Sa quanto le costi parlare di qualcosa che tace, da sempre. Che sia lui, sia lei conoscono. È straordinario quanta sensibilità abbia maturato, da quella situazione. Ma è vero anche che lui l’ha sempre forzata a scavarsi dentro, a non mentire a se stessa.

“Sei sicura che sia solo questo?”

Ecco, ci siamo arrivati, si dice. “No. Ovvio. Te l’ho detto, non me la sento.”

Scuote la testa. “Perché… prova a spiegarmi…” sembra interessato.

Sente di dover mettere le carte in tavola e detesta farlo. “Credo siano cose che vadano fatte quando si è davvero convinti… e io non lo sono. Il che non significa che non stia benissimo con te, significa solo che non è una cosa che mi sento di fare.”

”Per me stessa”, precisa.

Si è distesa su di lui, il mento sopra le loro mani. Lo sente respirare. Sente il suo cuore battere veloce. Quel battito la commuove. Lui è vivo, lì, accanto a lei. Due esseri umani.

Legge la sua delusione. I pensieri dietro i suoi occhi. Le speranze che si oscurano. Vede la cicatrice, sul petto, e, subito, la sfugge con lo sguardo. È quasi più facile sopportare quella all’occhio. Non vuole più sentire un dolore come allora. Aveva sperato di potersi lasciare alle spalle gli anni di disagio, solitudine, sbagli, tristezza, eppure, la vita sembra precipitarla di nuovo in confronti, ricordi, che possono essere penosi. Che possono dividerli. Avrebbe voluto una tregua, non ricominciare a lottare. Difendersi sempre. Se stessa. La propria integrità. La propria essenza. Anche da lui. In fondo, fronteggiare questa sua idea è una rogna in più. Non fa parte dei suoi piani. Eppure, le scalda il cuore che gliel’abbia domandato. Che è proprio con lei che l’avrebbe voluto. Ma è un problema.

Le scalda il cuore che l’abbia voluta sposare. Con quella forza con cui l’ha desiderato.

È una cosa che non si può spiegare…

E ha avuto paura di perderlo. Anche questo è da considerare.

Si stringe più forte a lui.

“E tu”, gli domanda, “perché ne vuoi un altro?”

Lui sorride, lontano.

“Nostalgia…” enigmatico.

Le viene da ridere “Non dei pianti e delle nottate in bianco, spero…” Ha ancora ben presente cosa hanno passato. La mancanza di sonno sfuma nel ricordo, ma le sensazioni no. E le è bastato.

La guarda, dolcissimo. “Erano con te… era comunque bello”, le spiega, con tetragona semplicità, il suo punto di vista, e Oscar si domanda con orrore quanto manchi per capitolare, se continua a fissarla in quel modo.

“Vedi… sì, ho nostalgia di quando era piccolo… è vero…”

“Ma lo è ancora…”

“Sta crescendo…”

“Prendi un gatto.”

“Una cosa non esclude l’altra…” ride, sornione.

“Quindi,” lo provoca, “quando il nostro”, l’emozione nel pronunciare quella parola, “sarà cresciuto, ne vorrai un altro, e un altro ancora…” lo osserva, divertita.

“Potrebbe essere divertente provare…” la provoca. Ma lo sguardo funesto di lei lo blocca.

“A me diverte fare sesso con te. Non riprodurmi.” Lo corregge.

“Ma non è questo…” riprende, poi, pensoso. Cerca le parole. “è per qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare con te…”

Lo scruta. E vorrebbe fuggire. Ma non può.

“Nostro…”

Nostro.

Resta lì, ad assorbire il colpo. La sorpresa. L’emozione. Quello che aveva intuito. E che lui non ha avuto paura di dirle. Infine.

“Daniel”, spiega, “lo cresciamo insieme… ed è bellissimo.”

E faticoso, corregge muta lei, che lo ascolta, sconcertata. Non conosce questo lato di lui. Forse avrebbe sperato di non conoscerlo mai.

“Vedere come sei con lui…”

Lo guarda, attonita.

“Vedi… tu sei molto materna…”

Aggrotta le sopracciglia. “Io?” Come avesse ricevuto un insulto. Mentre si avvolge nelle coperte.

“Sì. Anche se forse non te ne rendi conto… sai… accogliere…”

Io?

“Sei una persona in realtà molto dolce… anche se lo nascondi.”

Lo guarda sbalordita. Stai scherzando…

Ora è quasi curiosa.

“Può anche darsi che lo sia con te, ma questo non c’entra…”

“Dico solo che saresti adatta.”

Pericolo mortale in vista. Tu sogni…

“Sarebbe bellissimo…”

“Per te, forse…” ironizza lei.

“È qualcosa che vorrei, con te…”

“Ma perché?!” Sbotta, infine. “Lo sai che mi chiedi l’impossibile!”

Le prende le mani. “Va bene, hai ragione.” Le chiude nelle sue. “Ma ascolta solo un attimo…”

Rassegnata, si accoccola lì accanto.

“È che quando lo progetti, e, poi, lo aspetti, è ancora diverso…” ricorda, sognante, preso, vagamente rincoglionito, nota lei, mentre, con un brivido, pensa che non ha nessuna voglia di sperimentarlo. Cerca un’espressione il più dignitosa possibile e si sente misera, a covare certi retropensieri mentre lui, ingenuo, si scopre fino a quel punto. Lei non se la sente, e proprio in questo, in cui lui cerca di convincerla.

“Alla fine”, ammette lui, quasi triste, “la mia possibilità l’ho usata… sprecata,” precisa “dal tuo punto di vista…” Non sa neppure perché glielo stia dicendo, ma in quella notte le riflessioni, premono per uscire. Anche quelle più demenziali.

Preferirebbe non parlasse. Sa cosa sta per dire. Scuote la testa. “Ti prego…”

“No… se non avessi avuto Daniel, per te probabilmente sarebbe stato diverso…” c’è così tanto rimpianto, e amore, nella sua voce. “Non ci sarebbe stato un confronto… sarebbe il primo… sarebbe tutto diverso…”

“Una cosa solo nostra”, aggiunge.

Ma lei c’è stata…

“Smettila, André.” Smetti di farti del male. “Non è così. È una cosa mia, non riguarda te o lui.” È serissima, ora. E, poi, in un sorriso “E se non avessi lui, non ne avresti neppure uno, caro il mio pater familiaï… tutto qui”.

Sorride, lui, mentre le serra le mani nelle sue, come a sussurrarle di tacere.

 

“C’è un’altra cosa…” lontano. Dopo il silenzio.

In quelle notti in cui si fanno discorsi che poi restano. Distruggono o costruiscono. Ma mettono a nudo. Loro due, di quei momenti, ne hanno cumulati. Da bambini. Da amici. Da fratelli. Da amanti.

Lui respira piano. E pensa a qualcosa difficile da ammettere. Con se stesso. Coi propri pensieri, di allora, e coi ricordi, adesso. Difficile da provare a spiegare a lei. Ma è una notte strana, questa, scura, che li avvolge, e li nasconde, e quasi pare proteggerli, se oseranno mostrarsi. Mostrare il loro lato nascosto. “Non lo dico per convincerti… voglio solo che lo sappia…”

Oscar sa solo che André Grandier è un giocatore di quelli che ti scardinano. Che ti rovesciano una vita di certezze con una frase. Una rosa è una rosa, fermati e diventa una donna, cose così. Sparate a zero, nette, talvolta veritiere. Che, quanto meno, spiazzando, costringono a porsi domande. È uno di quelli che non molla. Non urla. Ma resta coi propri pensieri. Fermo.

Soprattutto, ti scava dentro. Ti resta dentro. Metaforicamente e non, povera lei.

Si solleva a guardarlo, così, il viso proteso in avanti, scosta i capelli dagli occhi. “Dimmi…”

“Quando è nato Daniel sono stato contento che fosse un maschio.”

Fulminato da uno sguardo truce, ha un sorriso lontano.

“No, no…” si schermisce, “è difficile spiegarlo…” una pausa, a cercare le parole.

Mentre lei cerca una posizione più comoda.

“Io… ho sperato che non fosse una bambina… perché mi sembrava l’ennesimo tradimento… di te…” Respira. Non è facile continuare. Non imporle qualcosa che somigli ad un ricatto morale. Perché non è questo.

È solo la verità.

Lo guarda, sorpresa, attenta. Cerca di non lasciar trapelare alcun tipo di valutazione, impressione.

“Quando pensavo ad una bambina, mi veniva in mente una piccola Oscar…” sorride, timido, impacciato. “L’avrei voluta solo da te…”

Lei, rossa, non sa più dove guardare e non osa muoversi, a disagio. Lo odia. Lo ama. Profondamente.

“Se fosse nata, l’avrei adorata, credo, come Daniel…” gli si illumina lo sguardo. Lei lo osserva con dolcezza stupita. Ama le sue espressioni, anche quelle da novello padre rincoglionito – cosa non si accetta, per amore, annota truce –. “Solo, speravo non succedesse… Non volevo… tradire anche questo…” Le stringe forte le mani. La guarda, infinito. Coraggio o faccia tosta, si interroga Oscar. “Credo…” non sa come dirglielo, teme di ferirla, eppure, sa che è il momento di andare fino in fondo. “Credo che anche… lei se ne rendesse conto…”

Trasale, Oscar.

Lui continua, la voce persa. “Quando è nato, mi ha guardato come se volesse condannarmi… ha detto ‘Meglio così’. Sapeva benissimo cosa avevo in mente…”

Lei resta lì, le lacrime agli occhi, il respiro più difficile. Le mani, gelate, nelle sue. Il freddo sulle spalle.

Quella sensazione, ora certezza, di essere stata comunque presente, tra loro due. Di aver gravato come un’ipoteca sulle loro vite. Sul loro futuro.

Un’altra si sarebbe sentita forse gratificata. Per lei era solamente di una tristezza infinita. Per tutti loro.

La guarda negli occhi. “E ho fatto di tutto per evitare succedesse di nuovo.” Abbassa lo sguardo. “Non dopo quello che era stato. Non volevo fare un altro errore…”

Torna a fissarla, gli occhi che brillano lucidi.

è per questo… che…”

Si muove, rapida, su di lui. Non sa neppure lei cosa prova. Trasporto. Rabbia. Dolore. Pena. Un affetto infinito. Un amore senza confini. Gli posa un dito sulle labbra. Poi, lo avvolge, capelli, braccia, ciglia, lacrime, su di lui, tutto. Come a custodirlo. Come a proteggerlo. Da lui stesso. Da lei. Dal passato. Ricordi. Tutto.

 

È quasi l’alba.

Senza sonno. Gesti. Respiro. Sguardi.

Di sogni. Speranze. Di ardore. Calore.

Di quello che è l’amore. Quando l’amore è una vita intera. In una notte. In un attimo.

 

Resta lì, a fissarla, senza confini. A stringerla a sé e carezzarle le spalle, le braccia. I capelli. Senza sembrare volerla lasciar andare.

“Ti amo”, le dice, intenso.

 

“Una piccola Oscar…”, riflette, scacciando subito l’idea importuna, imbarazzata e divertita, mentre culla la sua testa tra le braccia. Pensa che è completamente matto, ma tace.

 

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008 e fino a ottobre 2015, revisione primavera 2016, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2016

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 14- marzo 2007.

[2] nota: questo doveva essere un inside what if interno alla storia, che doveva proseguire comunque senza di esso. Siccome il testo continuava a scriversi da solo, avevo pensato appunto a uno sviluppo parallelo. Ho continuato a scriverlo non essendo sicura se pubblicarlo o no, poi, il 30 gennaio 2015, ho deciso di sì, assieme a un’altra decisione, relativamente a un dato che avevo volontariamente omesso, e che chiudeva, così, il cerchio della storia.