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L'alba

I

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

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Questo testo nasce da un mio disegno e il disegno nasce da un regalo di Sydreana, un album da disegno formato panoramico, sempre desiderato ma che non avevo mai osato comprare perché mi ritenevo inadatta a usarlo, un tool, pennelli, colori.

Sono venuti fuori così due disegni, diversi per tinte e atmosfera, e quello che riguarda André l’ho realizzato negli ultimi giorni di maggio e finito il 3 giugno. Mentre lo disegnavo, mi rendevo conto che volevo dire qualcosa, che dietro quell’immagine di alba sbiadita qualcosa raccontava, anche se con un canone diverso, e poche righe.

 

L’alba risplende e avvolge l’ardesia dei tetti, le pietre. Fa ancora freddo e, prima, avrebbe avuto sonno, a quell’ora. Adesso, è solo stanco. Dopo l’ennesima notte insonne, solo, nella casa vuota.

Lascia andare un respiro. Ha guardato ogni cosa per l’ultima volta. Il panorama ai vetri, le stanza. I camini e la stufa.

È rimasto inginocchiato sul pavimento ad avvolgere in carta le cose da salvare, solo in una stanza, annientato dalle sensazioni, dal senso profondo di ingiustizia, di ribellione, ma anche di ineluttabilità. Osando alzare, ogni tanto, gli occhi a quelle pareti, la finestra, le sedie, tutte le cose che ora sta lasciando e continueranno ad esistere sparendo dalla sua vita. Chiedendosi cosa ne sarà una volta messe via, e dove, poi. Se andranno nel sottotetto, e cosa sarà della casa.

Ha passato la notte solo senza dormire, col respiro teso e udibile, nel letto che la mattina, alzandosi, aveva imparato a rifare. Stringendosi a se stesso. Nel freddo umido e vuoto di un guscio vuoto. Quando, all’alba, il sonno lo avrebbe vinto, era ormai ora di andare.

 

Abbassa gli occhi sulla mano che serra la maniglia.

 

Stamattina, per l’ultima volta, si è alzato da quel letto, aprendo gli occhi a un dolore nuovo, che il sonno aveva nascosto. Stamattina, per l’ultima volta, si è lavato in quelle stanze, raccogliendo le sue cose, quelle poche rimaste fuori dal bagaglio. Non sa che fine faranno quelle dei suoi. Spartite, date via. Ha piegato i suoi abiti facendo attenzione, non vuole che la nonna e quelli da cui andrà a vivere pensino che non ha cura delle cose o che non è bravo e che sarà solo un peso. E così li ha riposti in una borsa da viaggio che ora stringe in mano e che era di suo padre, e non avrebbe mai voluto usurparla, perché era sua e le sue cose non si toccano, ma le vicine lo hanno forzato, costretto, e lui ora si sente stonato, come avesse rubato qualcosa, come in scarpe sbagliate, ma sa che non c’era altra possibilità.

Le vicine non gli hanno detto che sarà di quella casa. Come ogni bambino, lui pensa che la casa sia eterna e che, quando sarà grande e tornerà, sarà ancora lì. Magari la troverà più piccola, anche se ora gli pare immensa, perché sua madre gli raccontava che succede così. A lui quella casa piace e gli è sempre sembrata la più bella di tutte. Ma adesso è tutto finito e non ci vivrà più nessuno e forse sua nonna saprà dirgli cosa succederà.

 

La mano, ancora incerta, non osa lasciare la maniglia. La chiave.

Ricaccia indietro un gran sospiro.

Ha un foglietto su cui è scritto il nome di qualcuno e una piazza.

 

Sente nella tasca il denaro contato. L’istinto sarebbe di tirarlo fuori e contarlo ancora, per sicurezza, ma ha paura di smarrirlo e poi? Poi resterebbe per sempre lì, non potrebbe andar via, non potrebbero mandarlo via, né costringerlo, e poi? Poi? Ma non è così che deve andare.

Mentre prova un peso enorme al cuore nello scollare le dita dalla porta in una carezza alle scaglie del legno verniciato sotto l’azione del tempo, si guarda attorno. Poi avanti. Cerca la strada che lo porterà a quella principale. Glielo hanno spiegato. Dovrà raggiungere la persona che sua nonna ha mandato a prenderlo e che lo condurrà a destinazione. È dove lavora la nonna, c’è già stato qualche volta, una specie di castello abitato dalla bambina pestifera e prepotente.

 

Quasi non ha dormito, stanotte. Si è svegliata e ora resta nel letto, fa troppo freddo. Ma scruta dalle imposte la luce tenue di un giorno particolare.

La nonna arriva, ma i movimenti più affrettati tradiscono la sua agitazione, così come la falsa indifferenza tradisce Oscar, mentre l’aiuta a lavarsi e a vestirsi, in piedi, sul letto. E, nel legarle il fiocco, le sorride “Oggi fatti più bella”.

Cosa da non dire ad Oscar, che, stranita, si guarda fugace allo specchio e, apposta, scioglie il nastro e si scombina i capelli, che la nonna ha tirato troppo.

Che senso ha essere diversi da come si è? Se lo domanda dopo la colazione, mentre ha sparso sul tavolo tutti i pastelli che sua madre le ha dato, a loro volta dono di Rosalba Carriera alla giovane e dotata Laborde. Oscar ci tiene. Sono bellissimi, anche se le sporcano le dita che poi restano polverose. Anche se la madre le ha detto di non premere troppo, che rischiano di spezzarsi.

Si alza in ginocchio sulla sedia e si osserva nello specchio. Si guarda bene, studia le sue asimmetrie, le sue linee, a lungo, con serietà e considerazione, e poi, concentrata, passa alla carta.

La carta le consente tanto. Anche di cambiarsi. Di giocare ad essere diversa. Osserva il disegno, poi, di nuovo, si osserva allo specchio e ritorna al lavoro, con precisione.

Quasi quasi sarebbe tentata di alterarsi, di fare quello che, prima, la nonna voleva fare. Migliorarla con un accessorio. Aggrotta le sopracciglia. Prova a disegnarsi meglio.

A lungo.

Mentre la nonna la osserva, in silenzio, e reprime l’ansia. La tristezza. L’arrivo e le perdite. Non è che avere un affetto che vive ormai lontano aiuti ad abituarsi all’idea di averlo perduto per sempre. I mille dubbi. L’imbarazzo per la gratitudine di poter tenere il nipote con sé. L’inopportunità di far crescere i due bambini vicini, col rischio che…

Si torce le mani, caccia via i pensieri, le porta un tea e un piatto di biscotti.

“Brava, Oscar…” la osserva di sottecchi.

Ed è allora che Oscar si rende conto. E passa una mano netta su quel fiocco, sui cambiamenti al disegno.

“Ma no, perché?”

Detesta che qualcuno la guardi. Quello è il suo mondo, sono cose sue.

“Tanto era sbagliato…”

“No, era bello…”

Improvvisamente triste, messa di fronte alla realtà che aveva cercato di alterare, improvvisamente seria e coi piedi nella realtà. È inutile che mi faccia più bella, si dice, io sono come un maschio. E una che è come un maschio non si fa più bella…

 

Guarda la pendola nel soggiorno. Le ore trascorrono. Il raggio di luce che colpisce il tavolo, si è avvicinato al suo avambraccio e cattura il pulviscolo, fa brillare la stoffa. Mette la mano sotto la luce e studia la forma. La disegna. Poi, la disegna mentre tiene un pastello. Concentrarsi, perdersi nel disegno è un modo di passare il tempo. Non è male e poi certe volte bisogna proprio che il tempo passi. Sono le ultime ore che vive in questo modo. Tra poco la sua esistenza cambierà, qualcuno entrerà a farne definitivamente parte e a lei non dispiace, solo, sa che sarà tutto diverso. Non sa dire se in meglio o in peggio. Sa che quel bambino ora è rimasto solo e che verrà a vivere e studiare lì. Compagno di studi e di giochi.

Un compagno.

Non ha mai avuto un compagno.

Se non la nonna.

Non lo sono state le sorelle, neppure le due più giovani, educate troppo diversamente, destinate ad altro futuro. Soprattutto, tenute alla larga per evitare la influenzassero eccessivamente.

E se sua madre facesse un fratello? La sua vita cambierebbe? Dovrebbe diventare come loro, mettersi quelle cose scomode, tirarsi i capelli? Lei non vuole. Quella vita le va bene.

D’impulso, va a cercare sua madre.

Bussa. Attende.

La trova nello studio, immersa nella lettura.

“Oscar…” si alza. “Vieni…”

Timidamente si avvicina. Passa la mano sulla scrivania. Incontra quella di sua madre, che la stringe. Allora, si abbraccia a lei, affondando il viso nella stoffa, memorizzando l’odore del velluto.

“Oscar, che succede?”

Tace, sprofonda nel buio, nelle sensazioni e tra le sue braccia. Sua madre l’accoglie. “Madre”, osa, allora, “non lo fate un bambino! Non lo fate! Ci sono io!” Basto io, vorrebbe urlare.

“Tesoro, ma cosa dici? Perché dovrei…”

“Se lo fate, io diventerò come le mie sorelle… e non voglio! Io sto bene così!”

Si stacca da Oscar. Si inginocchia alla sua altezza. Osserva le guance arrossate, i capelli ribelli. La guarda negli occhi.

“Oscar, tu sei perfetta così come sei. Io ti vorrei bene anche se vestissi da bambina, lo capisci?” Cerca di rassicurarla.

“Madre, è che io non voglio cambiare… io… voglio stare così… non voglio essere diversa…”

Le sorride. “Certo che no. Perché lo pensi?”

“Perché se avessi un fratello, prenderebbe il mio posto e io dovrei smettere di essere… così.” Di essere io, me stessa, avrebbe voluto spiegare.

“Ma non arriverà nessun fratello…”

“Sicura?”

“Sicura.”

“Perché poi oggi arriva André e diventerà mio compagno e lui non ha più nessuno e se io divento come le sorelle lui non potrà stare con me…”

“Ma quanto ti preoccupi per quel bambino?” Ride la madre. “Vi conoscete e per lui è un bene stare qui. Studierete insieme… sarà una compagnia…”

 

Gli fa male la testa. Forse è l’occhio. La tracolla della borsa da viaggio gli sega la pelle sotto la stoffa, e ha sete. Di acqua, non di alcool con cui si stordisce peggio del solito. Per non pensare e per non sentire. Anche se l’alcool comincia a fargli sinceramente schifo.

Non fa quella strada da decine di anni e, costruendo ogni passo, le immagini si ricostruiscono, affiorano ricordi di cose variate. Le pietre. L’intonaco e i colori. Respira come per immergersi, è per prendere coraggio, perché l’emozione lo stringe, quando sa che, girato l’angolo, c’è casa sua.

 

Ha un mal di testa allucinante, ogni suono pare trapanarle il cervello. Un mal di testa da ciclo torrenziale, da lenzuola sporcate fino ai materassi. Forse è anche perché ha bevuto troppo. Non le piace esagerare, ma a volte è l’unico rifugio.

Si sente gonfia, si tocca il seno e le fa male. E le ricorda lui.

Non crede di riuscire ad andare al lavoro, oggi.

 

“Che succede?” la accoglie nanny, che scruta quel pallore, l’espressione disastrata. Poi fa mente locale, e conclude “Ah… mando qualcuno ad avvisare a corte…”

Annuisce, lei. Neanche ha forza di parlare.

Ma nota che nanny è sollevata. Perché non crede le siano sfuggite le rare tracce che possono aver lasciato, pur con mille attenzioni. E allora, che si ripeta la rassicurante scena, facciamo contenti questi quasi nonni, che noi ragazzi di mondo sappiamo come evitare guai nel moderno e illuminato XVIII secolo.

Cara nanny, ora mi siedo qui vicino a te, e mi coccoli un po’. Vorrebbe dirlo, ma tace ostinata. Però la punta, con lo sguardo, e prima o poi nanny accoglierà la supplica.

Infatti arriva.

“Che stanchezza”, sentenzia, e si tuffa sul piccolo scomodo divano. E in un cenno, è un attimo, si è accoccolata vicino a lei, la testa poggiata sulla sua spalla, cercando di aderire bene a lei. Un cucciolo in cerca di conforto.

“Che succede, bambina…” mentre le carezza i capelli. “Perché è andato via?”

Sbarra gli occhi, lei, e spera sia sfuggito alla nonna il cenno impercettibile con cui tenta di angolare il viso in modo che restino nascoste le lacrime che hanno preso a rigarle le guance. Ma il difficile è non alterare il respiro. Quello è impossibile. E trattenere l’onda che le scuote le spalle.

“Sei così bella”, le dice nanny. “Sei la più bella delle sorelle…” mentre le carezza i capelli. E lei tenta di restare immobile. Sottratta a tutto nella penombra ovattata della stanza. “Sarebbe bello, un bambino vostro…” sorride nanny.

“Scordatelo…” protesta, rannicchiandosi meglio contro di lei.

“Perché devi sopportare tutto questo?”

“Perché è così. E mi piace.”

La stringe a sé, come a proteggerla. “Ti piace la libertà. Ti piace il tuo lavoro. Certo.” Sospira. “Ma non ti piace il resto”.

Alza le spalle, come a togliere importanza. “Non sempre. Ma è normale. Neanche a te va sempre tutto bene…”

“Se solo fosse rimasto…” non si dà pace, la nonna.

 

Non c’è quasi nessuno nella piazzetta. L’emozione gli gela un sorriso. Il senso di lontananza lo fa sentire dimezzato. La mancanza. Il ricordo. L’attesa. Una brezza lieve gli scompiglia i capelli e sente sulla pelle ferita la ferita dell’aria che non è più abituata a toccare. Istintivamente china la testa.

Il volo di piccioni si leva. Per un solo attimo tutto ne è riempito. Il gruppo di comari si interroga. Anche un paio di bottegai spuntano per curiosare sull’intruso. Che, però, ha i colori del posto. I capelli scuri e la pelle chiara. Chi è quel bel giovane con le spalle larghe.

“Sei il figlio di Grandier…” quasi un’affermazione. I bretoni non domandano. Si è avvicinata una signora.

“Ma sì, sei uguale a tua madre…” fa eco un’altra.

“Era così bella…”

“Sei André!”

“Quanto sei cresciuto!”

Quasi se lo abbracciano, nel festeggiare l’arrivo. Ritorno no, non si può dire. È quello che sembra. Solo un viaggio. Una sosta. Non sembra niente di più.

“Quanto ti sei fatto bello! Quanti anni hai, adesso, una trentina?”

“Che dici, è sempre stato bello!” La rimbrotta la collega.

“Ti sei sposato?”

“Lavori?”

Dev’essere arrossito, perché sente le guance ardergli, e, imbarazzato, si passa una mano nei capelli. “Ma… ma come avete fatto a riconoscermi?”

 

Gli hanno imbandito davanti un tavolo. Tea e biscotti e come il ricordo delle cose di casa, di quelle sensazioni che lasci indietro, continui a ricordare, ma non ritrovi. A volte neanche cerchi di ricostruire. Perché il tipo di “casa” che può o potrà o potrebbe mai avere con lei non sarebbe così. E in fondo è giusto.

“E così vivi a Versailles…” la comare, sognante, lo contempla.

“E ci lavori…” L’altra

“Anche”, chiosa, sintetico, lui.

“E che ci fai qui?”

Alza le spalle, come a dire che in fondo non ha importanza, in un sorriso disarmante e imbarazzato, mentre le due signore pensano che è proprio un amore, il ragazzo, e lui, invece, non ha le parole, né saprebbe dove cercarle, perché neanche a se stesso ha saputo spiegare quell’impulso di tornare, di ritrovare qualcosa che gli sembrava fosse andato perduto. Forse un frammento del proprio passato. O forse di se stesso. Forse scollarsi da qualcosa.

Lei.

Si alza, si accomiata. Vorrebbe restare ma non può. Bisogna ritrovarsi soli, coi propri passi sulla strada. E affrontare i dubbi del tempo. Come quelli dell’amore.

E quello che era. E si è perduto.

Cammina spedito, non riesce a camminare lentamente, anche se vorrebbe fermarsi e si sente un’emozione che mai avrebbe pensato. Arriva lì, davanti.

La porta è più scrostata. Avrebbe bisogno di essere carteggiata, di una mano di vernice. E chissà l’interno. Con un groppo alla gola, che, per una volta tanto, non implica Oscar, tenta la serratura.

 

Continua

 

Laura, giugno-agosto 2013 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2013

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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