Christine

Parte XXXII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

È così cambiato, che non l’aveva riconosciuto. Apparteneva alle memorie lontane, e l’aveva rimosso. I capelli corti, mezzo viso segnato da una cicatrice.

André, invece, l’ha riconosciuto subito. Istinto.

 

Aveva ragione sua madre, pensa, in un lampo subito censurato. S’era fatto più bello.

Si guardano, l’imbarazzo. Quello che non è stato.

E un sorriso.

“Come stai?” Gli tende la mano.

 

 

“Ciao…” è un secolo che non la vede.

Si era chiesta spesso come stesse. Cosa facesse.

Poi, aveva soffocato i pensieri. E le domande.

Scomode. Importune.

“Lo sapevo, che eravate tornata…” quasi timida. Come da ragazzina.

La guarda, ammirata. “Fammi vedere, che bei capelli! Sono lunghissimi!” Le brillano gli occhi. “Ti sei fatta bellissima!”

Si era spesso domandata come l’avesse presa. Come gliel’avesse detto, il fratello. Aveva sperato l’avesse dimenticata. Avesse compreso.

E, ora, come capita a volte, troppi anni spiegati in due parole, troppi silenzi in pochi istanti.

E, dietro, quello che sarebbe potuto essere.

A volte bastano.

A volte, davvero, è come tornare indietro.

 

È difficile, all’inizio.

Le parole. Le spiegazioni che si vorrebbero dare. O ascoltare.

Il tempo, trascorso. Quando dimenticare fa soffrire meno che curare le ferite.

Eppure è bello, e lei non è più la ragazzina di allora, è torbida e limpida. Di silenzi e sguardi. E qualche sorriso.

Non è facile sorridere, quando la vita ti ha ferito. Deluso.

Vita sta per persone a cui tieni, ovviamente.

Sta per quello che ti capita, e ti domandi perché a te, e non ad un altro. Perché sei tu a nascere in una determinata situazione, e non qualcun altro.

Sta per l’aspetto che hai, che non hai domandato, e magari vorresti essere diversa.

La vita, in fondo, aveva deluso anche lei, s’era detta. Ma, con una botta d’onestà, non aveva potuto non ammettere che a Diane era andata peggio.

 

È nervoso, André, in questo periodo.

È diventato più difficile nascondere i problemi alla vista a chi gli sta vicino. Daniel l’ha capito.

E lui ora quasi cerca di sfuggire Oscar, perché non se ne accorga anche lei.

È successo un pomeriggio, quando, la luce più bassa, non è riuscito ad andare avanti a leggere una storia al bambino. Provava ad insegnargli a leggere, gli stava spiegando le varie lettere, e non è più riuscito a continuare, mentre tutto sfocava e si faceva buio.

Daniel ha intuito con terrore, ha coperto le parole con le mani. E André cercava ancora di leggere. Il bambino l’ha guardato, impaurito.

Poi, non ha potuto continuare…

“Continua…” ha detto Daniel. E poi l’ha ripetuto, quasi cattivo nell’insistenza. E poi implorato. Mentre il tempo sembrava aver perso di senso e lui, gelato, poteva solo restare fermo, sentire, col corpo, il mondo là fuori, lo spavento del figlio, che gridava “Che ti succede? Papà!” Ho paura!

“Niente, amore, stai tranquillo”, cerca di tranquillizzarlo, mentre lo abbraccia, protettivo, e si stringe più forte a lui, come se potesse salvarlo.

“Che è successo?” Lo vede, sfocato, ora, che lo guarda spaventato. Forse sta passando.

“Non è niente, sto bene, vedi?” Lo mette a sedere sul tavolo, gli gira la testa, deve muoversi con cautela.

“Non ci vedi?” quasi grida Daniel, allarmato.

“Promettimi che non dici niente alla mamma. È una cosa tra noi…”

 

Si china sui fogli, cercando, stupito, di decifrare quelle scritte. Sono così piccole, si domanda infastidito perché non scrivano più grande… la testa che gira, il corpo che sbanda e lui serra più forte le dita sul legno del tavolo, temendo di cadere. In questi casi è importante evitare di muoversi troppo, cercare di fare lentamente. Ha imparato ad aspettare. Che passi. Passa sempre meno. È sempre peggio.

Oscar l’ha spedito lì a fare delle ricerche per alcuni controlli. Le ha sempre fatte lui, queste cose, e, stordito, le lettere che si annebbiano color seppia, ora si rende conto che gli è sempre più difficile riuscire a leggere. A fare il suo lavoro. Quello che ha sempre fatto. A rendersi utile.

L’archivista lo conosce da tempo. L’aveva salutato, dopo tanto che non si incontravano, l’ha scrutato, scivolando veloce sulla cicatrice.

“State bene, André”, gli ha domandato, ora. “Siete pallido, vi sentite bene…”

“Sì, sì…”, ha risposto incerto, passandosi una mano sulla fronte, pallido, “solo un po’ di stanchezza…” Ma è diventato sempre più arduo nascondere dietro la stanchezza quei problemi alla vista. Soffoca un conato. Deve uscire. Respirare un po’ d’aria fresca.

 

Si appoggia alle pietre a secco. Cerca di spostarsi lentamente, ogni movimento, anche alzare la testa, gli provoca la nausea.

Stanchezza… Lui stesso all’inizio ha pensato che davvero fosse solo questo. Ma non passava. Peggiorava.

Alla fine, è andato dal medico.

E, dopo, lo ha solo pregato di non parlarne con nessuno. Neppure con Oscar. Sempre sperando che non abbia sentito troppo l’altra volta, quando lo ha sorpreso col dottore, durante il controllo. Ma era tempo fa.

 

Scruta perplessa gli appunti che le ha consegnato.

Li sfoglia, incredula. Spazientita. “Ma cosa combina…” rabbia. Poi, il gelo. La realtà che le crolla addosso. “Oddio…” si passa una mano sul viso.

Esce come una furia.

Corridoi, sala d’armi, soldati che si girano a guardarla curiosi.

“Avete visto André?”

Lo cerca. Ha bisogno di vederlo. Non sa a cosa serva, una conferma, tranquillizzarsi, non se ne rende neppure conto. Riesce solo a correre, da lui.

Lo raggiunge, ansimando, mentre cammina lungo un corridoio, la destra leggermente in avanti, a scorrere sul muro. Si blocca. Non riesce a pensare. Non lo chiama neppure.

Quando, sorpreso, riconosce la sua presenza dietro di sé e si volta a guardarla, lei quasi non ha più dubbi.

“Oscar…” stringe gli occhi. Controluce è più difficile. “Hai bisogno di qualcosa…”

Scuote la testa. Solo vederti…

La osserva, incuriosito.

“Torniamo a casa…”

Si illumina, sorpreso.

“Aspettami, chiudo una cosa e ce ne andiamo a casa…”

 

Le immagini si confondono. E le sensazioni.

Mentre lo attrae a sé, una mano tra i suoi capelli, le labbra su di lui e sente il suo respiro, la sua pelle, il velo leggero di barba, la linea dalla mandibola agli zigomi sotto le dita. Che scorrono su di lui.

E lo rivede, la difficoltà nel cercare le redini, nell’orientarsi, poi, non ce l’ha fatta, gli ha teso la mano.

Annulla le labbra in un bacio infinito.

“Sali dietro di me”, gli ha detto, è una cosa che avrebbe voluto fare da tanto, lui le ha stretto le braccia attorno alla vita e, poi, quando si sono allontanati a sufficienza, l’ha abbracciata, da dietro, il viso accanto al suo, gli occhi chiusi, abbandonato a lei.

Lo vede gettare indietro la testa, i capelli che scivolano dalle spalle, completamente preso dalla sensazione di lei. Addosso, attorno, totalmente sua. Corpo. Capelli. Mani. Labbra. Gli occhi che brillano tra le ciglia socchiuse. È bellissimo.

Lo ha condotto per la mano, lui si è lasciato guidare. Immagini della casa in penombra, la stanza silenziosa, poi, le lenzuola.

Ha guidato le sue mani su di sé. Ovunque.

Dentro di sé.

L’ha voluto in una maniera disperata. Come fosse l’ultima volta. Come ad annullare tutto.

Vorrebbe solo poter dimenticare. Che dimenticasse anche lui. Tutto. E restasse solo l’amore.

 

Ricorda quella volta in cui, da fuori dalla porta, aveva sentito André domandare al dottore: “Diventerò cieco?” e allora non aveva capito. Aveva pensato a una eccessiva preoccupazione. Non aveva voluto rendersi conto… si maledice per non averlo protetto. Per non aver evitato che si stancasse e sforzasse. Ma André era così testardo, a volte, che sarebbe stato difficile impedirgli di vivere normalmente.

 

“Sai che papà non vede bene?” Una domanda diretta, ma fa in modo che il bambino non debba mentire e tradire il padre, eventualmente. Le strane dinamiche di quei due complici strampalati, quasi sempre d’accordo su tutto.

Annuisce, serio, preoccupato.

“Cerca di stargli vicino, di aiutarlo…”

“Lo faccio già”, la sorprende.

Si domanda dove trovi, così piccolo, quelle risorse, si dà della stupida per averlo sottovalutato. Si chiede come reagirà di fronte a tutti quei cambiamenti dei suoi punti di riferimento. Di André, per cui il bambino prova un’adorazione sconfinata. E comprende, ora, perché stiano tanto insieme, quei due, ultimamente. Li ha notati vicini, a confabulare, camminare, Daniel qualche passo più avanti. Aveva pensato che lo volesse trascinare da qualche parte, come fa tante volte, invece, lo guidava.

Le si è stretto il cuore. Lo ha abbracciato, forte. “Sei un tesoro…”

“Ma perché è successo…” e si stringe più forte a lei, una desolazione immensa nella voce, nelle mani che si serrano su di lei. Come quelle di lui. A cercare conforto. Un riparo da quella pena.

“Non lo so…” lo sa bene, invece. “Ma noi lo aiutiamo e andrà tutto bene…”

 

è incredibile come Daniel abbia imparato velocemente a leggere. Non sa se sorridere, Oscar, o cedere a quella pena che la gela, improvvisa, al pensiero. L’ha fatto per André, per potergli essere d’aiuto, è per questo… soffoca ansia e tenerezza tra le mani nervose sul viso, tra i capelli.[1]

 

Il ponte sul fiume, nella sera di Haroncourt,[2] e loro due. Un faccia a faccia spiacevole, non necessario.

“Devi farti da parte…” gli fa Alain, “Non sei più in grado di proteggerla.” Si riferisce all’assalto dei commilitoni, poche ore prima. “Non so a  chi hai sparato, dalla torre.”

André continua a guardare avanti, l’acqua del fiume si confonde in spire, sempre più sfocate, ancora peggio nel buio.

“Cosa vuoi? Far fuori me? Vuoi lei?”

Alain si gira a guardarlo.

“Pezzo di idiota! Se non ho capito male la cosa, sei stato tu a non aspettare lei!”

“Lei non mi ha voluto, cosa puoi saperne, tu?” Poi, attonito, stranito si rende conto, in un pensiero di fastidio, che lui potrebbe saperne più di qualcosa. Se lei…

“E tu non l’hai aspettata. Una come lei, avresti dovuto capirla: non è una donna qualunque.”

“Lo so, pensi che non lo sappia?”

“E cosa pretendevi, fammi capire, di poter vivere la tua vita senza che lei reagisse? Che restasse a tua disposizione? Comodo… non hai pensato a come si sentiva lei? A quello che ha passato? Ti pare normale che una ragazza innamorata si accontenti di un altro, se non c’è qualcosa che l’ha distrutta? Dimmi? Ci hai pensato?”

“…” Rimane in silenzio. Non c’è niente da dire.

“Tu e la tua idea di famigliola felice… Sei un coglione presuntuoso! Pensi di essere l’unico a potersi innamorare sul serio?”

“…”

“Ad amarla…”

“Non doveva tradirmi.”

“Sei un imbecille! Chi avrebbe tradito? Tu eri sposato, non stava con te, non stava tradendo nessuno!”

“Sei solo un egoista, ecco cosa sei! Tu non la meriti, come me. Tutto qui.”

Lui si ferma, pesto. Gli occhi sbarrati.

“Solo che lei era innamorata di te. E ha voluto te. Contenta lei…”

 

Poi, la mattina, risvegliandosi sul ciglio digradante della collina, li ha visti. Lui che la teneva stretta. Negli attimi concitati dell’assalto, dell’esplosione. Quando André l’ha cercata. Allora, si sente vinto.

 

 

L’hanno incontrata per le strade, con quel bambino. Lo teneva per mano, attenta che non si facesse male. Le hanno fatto festa, sorpresi, inteneriti: “Comandante, dovete portarlo in caserma!” Si sono inginocchiati attorno a lui, si vedeva che avevano dimestichezza coi bambini e nessuna vergogna di riempirli di coccole. Erano naturali. Come non li aveva mai visti. Come lei non sa essere. E Daniel si è sentito importante. Hanno insistito, e ha promesso che lo porterà, un giorno di questi, in caserma.

 

“Sapevi che aveva un figlio?”

“No. E tu?”

“Nemmeno io…”

“Chi l’avrebbe detto…”

Curiosi e delusi, il comandante non è solo loro, ha una vita, a quanto pare.

 

Ha lasciato cadere l’argomento, sperando dimenticassero, ma, puntuali, ogni settimana, tornavano a domandare.

 

E, così, ecco il comandante col piccolo, in braccio, che lo porta nella camerata.

La guardano con sorpresa, quella versione inedita. E si profondono in tentativi di farlo divertire, di avere la sua attenzione. Daniel seduto su uno dei tavoli, a lungo ricorderà quella scena, la luce strana di quella stanza, e tutti quegli adulti attorno a lui.

Osserva da lontano, il soldato. In silenzio.

Poi si chiude la porta alle spalle.

E anche André sprofonda nell’imbarazzo. Non sa bene cosa fare. E resta lì, in fondo alla camerata, seminascosto nella penombra.

Oscar lo porta in braccio verso il fondo della stanza. Per fargli guardare un po’ in giro. Un soldato gli mostra le uniformi, le armi, a distanza. E Daniel osserva.

Poi, lo scorge. E stende le braccia, e Oscar non riesce ad evitarlo. E in un attimo, Daniel vola tra le braccia di André, e lo stringe forte.

E gli uomini lo vedono. E notano la loro pelle, simile. La carnagione. I capelli. E restano in silenzio. E ora sanno che André è il suo uomo.

 

è mio?” L’ha presa in disparte. Pensoso. Da qualche giorno.

Vuole solo sapere.

Lei ha un sorriso triste.

“Non ricordi?”

“Tutto.” Anche ora. Vorrebbe dirlo, ma tace.

“Allora sai come la pensavo.”

“Si cambia idea, no?”

“No.”

“Allora non è mio…” chissà, forse… e non riesce a non provare disagio e, insieme, gelosia, all’idea del figlio di qualcun altro.

“Non è neanche mio…” lo sorprende, divertita e seria, insieme.

“Quindi… è suo?”

“Per favore, non parlarne, sono cose riservate…”

 

Fine parte XXXII


 


 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008 e fino a ottobre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Da appunto 21-3-2006.

[2] Curiosamente, sempre nel villaggio fittizio di Haroncourt è ambientato parte del romanzo della serie di Adamsberg, di Fred Vargas, Nei boschi eterni.