BK III
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Ad un certo punto il dolore cessò.
Ricordò sempre quel particolare momento in cui, appoggiandosi ai cuscini, si era reso conto che l’occhio aveva smesso di fargli così assurdamente male. Una sensazione di assenza, vuoto. Liberazione.
Nelle rare occasioni, dopo, in cui avrebbe ripensato a quei giorni, su tutto prevaleva quell’istante in cui si era lasciato finalmente andare, sorpreso, rilassandosi contro lo schienale del letto. In cui, con sollievo, aveva pensato “è passato”.
Poi, era rimasto lì, quasi abbandonato, la schiena rilassata, e aveva lasciato vagare la mente, godendosi la libertà.
Svegliarsi e scoprire che il dolore non torna, è finalmente finito.
Si era sorpreso a considerare che non era Oscar, il primo dei pensieri e desideri da guarito, ma un bagno caldo. Aveva riso di sé all’idea di comunicare ufficialmente ad Oscar che la ferita aveva smesso di fargli male. In fondo, era dato per scontato che, prima o poi, smettesse. Magari sarebbe stata lei a liberarlo dall’imbarazzo domandandoglielo. Probabile.
Tutto quello che desiderava era acqua bollente in cui immergersi per un tempo vergognosamente lungo.
Cercò di alzarsi, richiamando il corpo, che era come se si fosse tolto un peso e che una sensazione di liberazione miracolava.
E, dopo l’agognato bagno caldo, contrattato con la ferocissima nonna, quando l’acqua si era ormai raffreddata e lui si era lasciato cullare da un po’ di serenità, piano, in camera sua, si era goduto le lenzuola pulite, e l’incavo che il letto aveva conservato del suo corpo. E si era abbandonato. Non pensava all’occhio. Non pensava alla sensazione di quando, poco prima, si era osservato, di sfuggita, le labbra serrate, e quel pensiero cinico che, finché i capelli avessero retto e avrebbe avuto ancora l’età per portarli tagliati così, sarebbe riuscito a nasconderlo. Poi, chissà…
Ora non aveva nessuna importanza. Ora voleva dimenticare tutto e riposare. Per un po’. Solo per un po’.
Sembrava strano vedere Oscar in casa fuori orario. Eppure, si era data assente e non aveva spiegato né consentito parole o commenti. Strana presenza, tesa. Faceva in modo di esserci quando il dottore forniva i responsi. Voleva essere lì, e non altrove. Senza dirlo. Pudore. Cose sue.
Quello che era successo, aveva cambiato qualcosa. Non riusciva a dare per scontato di fare finta che con lui fosse tutto come doveva essere. Se lo fosse stato, lei sarebbe stata un lavoro, e lui avrebbe avuto una famiglia. Da anni. Era chiaro che non lo era. Non lo era mai stato.
Lo sapevano tutti. Loro due compresi. Accordo tacito e non scritto. Un bambino che altrimenti sarebbe cresciuto solo. Una bambina che, altrimenti, sarebbe andata in convento o sposa.
Nanny osservava, impietosa. Disapprovava. Tutta la vita aveva disapprovato. Il padre. La signora. André. Poi Oscar. Ma come avrebbero potuto due ragazzi che crescono insieme, se non si odiano, se non si ignorano, –e loro due andavano più che d’accordo – anzi, da subito era apparso come fossero miracolosamente compatibili –, si sarebbe detto fatti l’uno per l’altra –, evitare di volersi bene? Di vedere ognuno il proprio specchio nell’altro? Di abituarsi alla presenza, di entrare in una simbiosi naturale, fino a sentirsi incompleti e tristi, se l’altro lo era. Malriuscito esperimento del drammaturgo Jarjayes.
Entrò, dopo aver bussato piano. Non le aveva risposto, ma era preoccupata, un’ansia giustificata, e aprì ugualmente, scrutando attorno, nella stanza, chiamandolo piano nel vedere i capelli sul cuscino. Era girato contro il muro. La luce doveva dargli fastidio.
Mosse qualche passo, facendo scricchiolare le assi. Si accostò al letto, la mano a sfiorare la lana, un gesto per chiamarlo. Come quando erano bambini e, la sera, si rintanavano a giocare e raccontarsi tutto o commentare e stare insieme. Come era stato fin quando non erano diventati adolescenti e l’età li aveva fermati, perché non era più possibile nascondersi sotto le coperte e parlare e darsi un bacetto sulla guancia, come due fratellini che giocano e si vogliono bene e si proteggono. Non era più così, anche se bene se ne volevano, sempre. Ancora. E gli sguardi di André erano profondi, e non la lasciavano, e parlavano come i silenzi. Non parlavano più solo di affetto, ma di amore. Da tanto tempo. E parlavano, ormai, quelle mani, che la sfioravano, come casualmente, poi si ritraevano e lui abbassava il viso, e lo sguardo, come se potesse nascondere quel rossore.
Parlavano le pause. Le incertezze e i vuoti.
Parlava la luce che si accendeva nel suo sguardo, quando la vedeva.
Rispondeva il tuffo al cuore di Oscar, quando compariva lui. Una cosa nuova e inattesa, all’inizio. L’emozione, quando le diceva qualcosa, magari accostandosi impercettibilmente all’orecchio. Come quando erano bambini. Ma bambini ora non erano più.
E afferrandole un polso, e, poi, trattenendolo, quell’attimo di troppo, e lasciandolo, sentire il vuoto tra le dita e della stretta, sentire che manca qualcosa, intuire che cosa sia. Averne timore. Sapere di non potere.
Per fortuna la signora assente non aveva idea degli itinerari domestici di Oscar. Per fortuna il generale in missione non sarebbe stato capace di vedere.
André…
Così pallido…
Avanzò, cauta. Che le assi smettessero di far rumore! Per non svegliarlo.
Si sorprese, a vederlo senza bende. Immaginò che lui finalmente si sentisse libero, meglio, ma distolse subito lo sguardo, per non indagare l’evoluzione della cicatrice. Per non vedere. Non voleva vedere. Non voleva fronteggiare quell’affronto e quella realtà che le ricordava cos’era successo e come fossero cambiate, in uno stupido attimo, le cose. Come quella ferita l’avesse costretta a fare i conti con se stessa, la paura, finalmente ammessa, di perderlo, e i sentimenti che, lentamente, a fatica, lottando contro se stessa aveva accettato di provare.
In realtà, non era mai stato messo in discussione, quel volersi bene. Era stato mascherato. Un affetto atavico e quasi scontato, che, negli anni, aveva cominciato a fare paura. A lei, per prima, ma, se ne rendeva conto, quasi a tutti attorno a loro.
Che il bambino cresciuto con lei l’adorasse e la proteggesse, se era parso naturale e doveroso, era, poi, diventato socialmente inaccettabile. E lei si era chiesta, all’inizio, e, anche dopo, talvolta si chiedeva, se anche André giocasse quello stesso gioco di finzioni, anzi, ne era stata certa e forse comprendeva di aver fatto fin troppo affidamento su questo.
Troppo facile. Troppo scontato. Tutto dietro le quinte, tutto nascosto, anzi, negato.
Così aveva messo un freno e André era finito. Nel senso che era stato eretto un confine tra loro, che lui rispettava. Così tutti volevano. Eppure non era scontato e non era dovuto.
Non era normale.
Non era normale giocare a guardarsi. A rincorrersi. Sfuggirsi. Sentire che quello che si preparava avrebbe potuto essere gioia, e invece era vuoto, buio, dolore. Sentire che oltre ci sarebbe stato molto di più, a poter solo raggiungerlo. Non era un passo, era un infinito. Eppure, c’era un vuoto che non le bastava più.
Cosa potesse essere di diverso, se a lui potesse questo diverso andare bene, non osava domandarselo. Erano interrogativi che non si poneva neanche quanto a se stessa. Conservava tutte le immagini più belle di André, da quelle prime, in avanti, e pensava che le erano infinitamente care. Se le capitava di osservare un uomo, immancabilmente veniva confrontato nel modo di parlare, di porsi, di essere intelligente, di piacerle, di lui. Così, a parte l’innovazione svedese, si era conservata immune da ogni tentazione. Perché André le andava bene, formazione simile, studi simili, comprensione profonda e radicata, carattere adatto al suo. Perché mai avrebbe dovuto cercare qualcun altro quando il meglio lo aveva? André le andava bene proprio così com’era.
Eccolo lì, il meglio un po’ avariato. Convalescente e abbandonato contro i cuscini. Mentre avanzava alleggerendo passo e respiro, per non svegliarlo. Una volta gli si sarebbe stesa vicino, abbracciandolo. Spalmandosi tutta, innocentemente, per bene accanto a lui, per catturare meglio il calore, per non congelare. Ormai non oserebbe. Neanche prendergli la mano. Ma è per paura di svegliarlo.
Neanche sederglisi accanto.
Il prosieguo di una fanfic avrebbe voluto imperativamente che lei sollevasse d’istinto le coperte e, subito, gli si abbrancasse. E che lui, appena sveglio, notoriamente arrapato, se la facesse, nonostante pare che le ferite agli occhi siano particolarmente dolorose, appunto.
In realtà Oscar aveva paura che André le avrebbe serbato rancore e che quella ferita sarebbe rimasta, oltre che su di lui, anche tra loro. E si sentiva stordita per quello che era successo e che lui, tutto sommato, sembrava metabolizzare con più naturalezza. Erano le sue decisioni, sapeva cosa rischiava.
Per Oscar era diverso, era tutta, tutta, tutta colpa sua. Avrebbe voluto solo non fosse successo niente, avrebbe desiderato non sentirsi questo senso di vuoto nello stomaco, di mancanza di aria ad ogni gesto, questa consapevolezza mostruosa di aver fatto un grosso errore, irreparabile, di aver arrecato un danno, e di non poter in nessun modo tornare indietro.
Così restò ferma, addolorata, bloccata. Immota in quel raggio di luce e pulviscolo, a percepire solo il proprio respiro, magari anche il battito delle ciglia e il martellare del cuore.
A chiedersi perché non osasse neppure sfiorargli la guancia con un bacio, uno piccolo, innocente, come allora, non c’è mai stato niente di male e ricorda la sua pelle e quasi non la riconosce più.
Non lo sapeva, Oscar, non lo sapeva più.
Quel non sapere – o non poter sapere – che sembrava diventato la cifra stilistica della sua vita.
Scoraggiata, si inginocchiò accanto al letto. Avrebbe voluto almeno prendergli la mano tra le sue e portarsela al viso. Era concesso tra due antichi amici, di cui uno malato? Avrebbe potuto, questa temporanea debolezza, essere la cifra, invece, per ritrovare come erano stati?
In realtà, quello che erano stati lo erano ancora. Avevano soltanto dovuto innalzare delle barriere. E queste barriere pesavano sempre più e sempre più si rivelavano inutili. Dannose. Rovinose.
Bruciava, Oscar. Non era solo il dolore. Avrebbe voluto un compagno accanto a sé. Non che avesse grosse aspettative o prospettive. Le sarebbe andato bene un compagno, che avesse condiviso con lei i momenti belli, che l’avesse compresa. Che se la fosse scopata. Beh, anche questo, non c’era niente di male. Era adulta, informata, progredita. Ci sarebbe voluto solo un uomo.
Che le fosse piaciuto.
Lui le piaceva, da tanto. Le era sempre andato bene. Anzi, André avrebbe perfino potuto essere d’accordo sui suoi nulli progetti di vita (continuare così, che non era male, cambiare aria, perché no?, verso un lavoro più utile), perché non avrebbe dovuto essere lui?
Il fatto era che era lui.
Solo che non si poteva fare. Troppi freni vincoli no e non si può, anche ammesso che lui fosse d’accordo.
Eppure, con lui avrebbe vissuto.
Era a lui che pensava, quando bruciava di desiderio e immaginava che qualcuno la sfiorasse. Ne immaginava la pelle. Il respiro. Il tutto.
Gli prese la mano tra le sue, e furono pelle, naso gelato, lacrime, capelli. Dita fredde che s’intrecciano. Faceva freddo in quella stanza. Era sempre stata fredda. Ma l’aveva sempre preferita alla propria, formale, esibita. Quella di André era più vera. C’è solo l’essenziale. L’aveva sempre pensata come di lui e le sarebbe stonata l’idea che non lo fosse più.
In fondo, non aveva mai pensato André al di fuori di quel contesto, eppure, lui aveva avuto una madre, una casa, e non aveva quasi mai voluto parlare di allora, con la scusa di non ricordare o perché lei si era vergognata di domandare. Eppure, ricordi avrebbe dovuto averne.
Quando si era svegliato, c’era qualcuno. Lentamente, aveva messo a fuoco la visione di lei accanto al letto. Un mare di capelli, il bianco della stoffa. Abbarbicata alla sua mano, che si teneva contro la guancia. Doveva essersi addormentata. Per non svegliarla, si era sollevato su un gomito, mentre raccoglieva la sensazione del suo respiro, delle sue labbra, sulla mano e la sua mano si arrestava appena in tempo, dai riflessi dei capelli, dal suo respiro, per non infierire col suo amore, per non metterla in imbarazzo.
Avrebbe voluto metterle qualcosa sulle spalle. Le mani erano gelate.
Aprì gli occhi, tra ciglia e capelli. Appena un cenno. Lui era sveglio. Li richiuse, pigramente. Era parte del gioco. Anche questo fingere, poteva far parte del gioco.
Un respiro più profondo.
Bastava far finta di niente.
E così fu, quando lui la sollevò, e si sentì leggera, stranissima, tra le sue braccia. E l’attrasse accanto a sé, al caldo del suo corpo. Al riparo, sotto le coperte.
Restò così, fingendo di dormire.
Laura, dicembre 2011-marzo 2012 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2012
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