Solo uno

parte 6

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 Nota della webmaster: questo racconto era presente sul sito di Alex, La leggenda di Versailles. Quando il sito, per una sofferta e dal mio punto di vista comprensibilissima, decisione di Alex ha chiuso, il racconto era rimasto senza finale, in particolare, senza uno dei finali. L'autrice si è rivolta al sito Little Corner per curare una nuova pubblicazione, con una nuova revisione del testo e noi siamo felici di accoglierla. Cogliamo anche l'occasione per un saluto affettuoso alla nostra Alex!

 

Alain sedeva di fronte al mare. A un osservatore disattento sarebbe forse potuto sembrare che stesse contemplando il tramonto, ma non era così. Alain non vedeva il mare, ma le strade di Parigi, la città che aveva lasciato da… chissà quanto ormai!

Vedeva in particolare una certa strada e una certa piazza, che avevano a loro volta visto il mondo crollargli addosso.

Erano passate ormai tre settimane da quel giorno, quando avevano scoperto le malattie del loro comandante. Già, era malata, nel corpo e nella mente. O forse, era più giusto dire nell’anima. Malata. Malata quanto nessuno avrebbe mai potuto immaginare. All’inizio erano rimasti confusi, senza sapere cosa fare. Avevano parlato con Rosalie, con Bernard, col dottore. Era stato proprio lui a dare l’idea. Loro avevano accettato, si sarebbero aggrappati a qualsiasi cosa.

C’era stato qualche problema organizzativo, del resto, loro erano abituati a eseguire gli ordini, non a darli. Incredibilmente, era stata la stessa Oscar ad organizzare tutto. Si rendeva volentieri utile, se si trovava il modo in cui prenderla. In più, a volte il pensiero della sua malattia l’annoiava, e preferiva aver qualcosa di diverso cui pensare.

Così, senza sapere che quel viaggio era per lei, senza sapere che quel viaggio si sarebbe fatto, l’aveva organizzato quasi nei minimi dettagli..

E ora, ora erano lì. In quella piccola casetta vicino al mare, lui, Oscar e Rosalie continuavano la loro vita, una di loro aspettando di morire, due di loro decisi a non permetterglielo.

Non c’erano stati altri scoppi della sua pazzia, erano stati molto attenti a evitare di turbarla, anche se non sempre potevano riuscirvi. Spesso, il suo disappunto si manifestava con un improvviso aggrottarsi della fronte, un indurirsi dello sguardo, spesso per fatti banalissimi. Non sopportava che alcuno toccasse lei o i suoi abiti. La sua uniforme non era stata più nemmeno sfiorata, per nessuna ragione, da nessuno di loro. Lei continuava a indossarla, sempre, in ogni occasione. Metà dei bottoni era andata persa, ma a lei non importava che fosse un poco disordinata, per quanto lei detestasse il disordine. Ma, a quanto pareva, per quella giacca non valeva ormai più nessuna logica. Ora che le avevano tolto anche le strade della città che aveva visto morire il suo amore, voleva almeno tenere quella giacca immutata, forse anche temendo che ulteriori rimaneggiamenti potessero far sbiadire ancora di più quella macchia di sangue, l’unico ricordo che conservasse di lui.

Guardandola, non si sarebbe mai detto che fosse malata. Era più bella che mai. Il suo corpo flessuoso, la sua pelle quasi trasparente, gli occhi sempre persi dietro a un sogno, ma luminosi, ossessionavano Alain. I suoi movimenti, da sempre permeati di una grazia innata, dalla notte che aveva passato con André erano anche impregnati di una sensualità inconsapevole e istintiva. Quante volte, la notte, si era ritrovato davanti alla sua porta, la mano sulla maniglia, lottando tra il desiderio di entrare e lasciare libero sfogo ai suoi desideri, e la consapevolezza della reazione che lei avrebbe avuto, se si fosse svegliata e l’avesse trovato nella sua stanza, intento a sfilarle la camicia da notte, intento a sfiorarla in una carezza che sapeva bene impossibile. Ma sapeva bene che lei aveva il sonno leggero, e la speranza che non si svegliasse era vana. Quasi tutte le notti, in attesa davanti a quella porta, combattendo la sua personale battaglia, la sentiva rigirarsi nel letto, o camminare per la stanza, o vedeva una sottile luce che filtrava dalla porta.

Alain sentiva di amarla ogni giorno di più, e ogni giorno di più si accorgeva che lei stava inesorabilmente scivolando via da loro, da tutto e da tutti. Anche se, negli ultimi tempi, aveva subito come un rallentamento. Probabilmente, era da imputarsi al cambiamento d’aria, alla nuova compagnia che si era trovata, o, per meglio dire, che l’aveva trovata.

Non aveva minimamente interrotto le sue passeggiate. Ogni giorno stava ore e ore fuori casa, spesso non rientrava neanche per i pasti. A questo proposito c’era stata una discussione tra lei e loro, ricordò Alain con un sospiro. Discussione che aveva portato ad un accordo: non avrebbero cercato di imporle limiti d’orario (non ci sarebbero riusciti), ma lei si sarebbe portata appresso un cestino, un sacchetto, con qualche cosa da mangiare. Così, da qualche giorno, ogni volta che usciva, Oscar prendeva con sé il suo pranzo.

Ma quel cestino non pesava a lungo sulle sue braccia. Appena lei compariva sulla porta, infatti, ecco che appariva Fabrice.

Sembrava sbucare dalla sabbia, quel ragazzino. Gli occhi verdi e i capelli biondi, aveva immediatamente conquistato il comandante. E ne era stato a sua volta conquistato.

Aveva quattordici anni, l’età dei colpi di fulmine, anche se ne dimostrava alcuni di meno. Oscar l’aveva incontrato qualche giorno dopo essere arrivata. Era uscita per la sua quotidiana passeggiata sulla spiaggia, ancora senza pranzo. Aveva fatto pochi passi, quando l’aveva visto lì, seduto sulla sabbia. Lui guardava il mare, eppure lei si sentiva osservata. Si era fermata, a pochi passi da lui, osservandolo. Lui aveva girato la testa e le aveva sorriso. Non aveva potuto resistere a quel sorriso. Gli si era seduta accanto, ma non abbastanza vicino da toccarlo. Si era seduta sulla sabbia, sorridendo, anche se nel suo sorriso perdurava un’ombra oscura.

- Ciao. - gli aveva detto – come ti chiami?-

- Ciao. – le aveva risposto – io sono Fabrice. E tu?-

- Io sono Oscar. Oscar François. Piacere di conoscerti. – non gli aveva teso la mano, anche se era solo un bambino, ma i suoi occhi blu si erano come rasserenati, guardando quelli verdi di lui.

- Piacere mio, madame Grandier. – lui, serissimo.

Oscar era trasalita al sentirsi chiamare così, ma poi si era sentita stranamente sollevata. Madame Grandier… sì, si meritava quell’appellativo. Meritava di portare il suo cognome. Del resto, era come se lei fosse sua moglie. Che importava una cerimonia? Loro avevano già fatto il loro giuramento, senza bisogno di parole, mentre l’ultima, fragile barriera che divideva le loro anime cadeva, in quella notte che era stata la sua ultima notte di vita. In un certo senso, loro erano stati sposati per più di vent’anni. Non c’era rito che potesse creare un legame più profondo del loro. La loro unione non aveva bisogno di sacerdoti. Sì, lei era sua moglie, la sua donna, la sua…

- Vedova- questa parola la riportò bruscamente alla realtà, strappandola dai suoi sogni ad occhi aperti. Crudelmente.

Fabrice ancora la guardava. Non aveva aperto bocca, forse capiva che lei sognava, forse capiva che lei teneva a quei sogni, che erano l’unica cosa che ancora la facevano vivere.

- Quanti anni hai?- gli aveva chiesto lei, cercando di non lasciarsi sopraffare dalla nostalgia.

- Quattordici madame. Quattordici dal 13 luglio. – la risposta, sorridente.

Quella strana coincidenza la colpì. O forse, fu solo il sentire ricordata quella data. Il compleanno di quel bambino cadeva proprio il giorno in cui lei… in cui lui… in cui loro

Lo guardò più attentamente. I capelli erano tagliati corti, ma non abbastanza da impedire di notare quanto fossero biondi, e ricci. Gli occhi verdi erano vivaci ed espressivi, come… proprio come quelli di lui da bambino. E poi, quel ragazzo ispirava tranquillità. Da quando l’aveva incontrato, da quando stavano parlando, era riuscita finalmente a sentirsi tranquilla, senza gli scoppi di dolore che l’avevano tormentata ogni giorno, anche se lei aveva fatto di tutto per tenerli nascosti. Nell’ora che passò quel giorno con lui, il suo dolore rimase latente, sepolto nella profondità del suo cuore, zitto mentre lei parlava, ascoltava, camminava con quel ragazzo che sembrava ancora un bambino. E quando lui se ne andò, lasciandola sola, lei rimase a lungo in piedi, guardando il mare, prima di tornare indietro, ripercorrendo a ritroso lo spazio che aveva percorso con quel bambino e da sola, prima di incontrarlo, lentamente, tornando a quell’abitazione che non poteva chiamare casa, perché niente la legava ad essa, a quel gruppo che non era la sua famiglia, perché non c’era lui, André, che doveva essere, da quella notte, tutta la sua famiglia.

Da quel giorno, ogni giorno, quando Oscar usciva, puntualmente arrivava anche Fabrice e, da quando lei e loro avevano fatto quel patto, la sollevava dal peso del cestino, portandolo lui, come per un tacito accordo.

Oscar gli si era affezionata tantissimo, amandolo come avrebbe amato un suo bambino. Era l’unica persona che riuscisse a strapparle un sorriso, anche se ancora carico di tutta la sua tristezza. Eppure, anche lei aveva fatto l’errore di considerarlo un bambino. Quando lo guardava, non riusciva a credere che avesse quattordici anni. E l’affetto che gli riservava, pur se il più profondo che potesse permettersi, era l’affetto che si prova per un bimbo.

Ma lui, lui… quando lui la guardava, c’era nei suoi occhi l’adorazione, l’adorazione più totale. Quando lei parlava (accadeva molto raramente, ma con lui più frequentemente che con gli altri), lui la guardava, ascoltandola in silenzio, senza mai interrompere il suono di quella voce che gli sembrava così dolce, e bella, più di quanto avrebbe mai potuto immaginare, più di quanto chiunque avesse potuto descrivere. E così, anche lui era caduto nella trappola che si celava, per tutti, in fondo agli splendidi occhi di Oscar, nella sua voce, nel suo modo di muoversi. E la guardava camminare, ascoltava i suoi silenzi e le sue parole, desiderando che fossero di più, come per i suoi sorrisi.

Ma era lui a parlare più spesso. Le raccontava quello che avveniva in paese, di sé, della sua famiglia (o meglio di quando ancora aveva una famiglia che si potesse chiamare tale), la portava in giro per la spiaggia, facendole vedere i posti più belli e più pittoreschi, curando che non si stancasse troppo; baie, scogliere, la costa di quell’angolo di mondo si rivelava ai suoi occhi, poco per volta, pezzo per pezzo. Durante quelle passeggiate, Oscar ritrovava a poco a poco la forza che prima aveva avuto, gradualmente, poco a poco, senza che lei se ne potesse accorgere.

Le piaceva camminare. Certo, prima preferiva cavalcare. Era uno sport più signorile. Ma lei non aveva più cavallo, né voleva averne, e l’esercizio del camminare poteva essere considerato equivalente. Così, seguiva Fabrice in numerose escursioni, lasciando che lui la guidasse, scoprendo a poco a poco il paese in cui si era ritrovata a vivere. O meglio, a morire, pensava, con un fugace sorriso.

 

Era stato così che era arrivata anche lì, vicino a quella casa, che sembrava avvolta dal mistero, così come la strana donna che sembrava esserne la proprietaria, e tutti coloro che vi vivevano, Fabrice compreso.

 

parte 6b

 

 

Le onde del mare lambivano i suoi piedi, giocavano con essi, ora li sfioravano appena, ora li ricoprivano di schiuma. Lei lasciava fare, ferma ad osservare il mare, a sentirne la voce. Le piaceva il suo suono, era calmo e rassicurante.

Succedeva spesso che si fermasse per ore intere sulla spiaggia, a piedi nudi, lasciando che le onde li coprissero, che facessero fuggire la sabbia da sotto i suoi talloni. Le piaceva osservare l’orizzonte, sentire l’acqua che le accarezzava la pelle col suo tocco leggero e vellutato, così come erano state le carezze di André.

Non avrebbe più potuto avere le carezze da quelle mani, lo sapeva, ma le piaceva farsi sfiorare da acqua, vento e terra. Sentiva che, in esse, André era presente, sempre, ricordandole il suo amore. Come se ce ne fosse stato bisogno! Come se lei avesse veramente potuto dimenticarlo, lui, l’unico uomo per cui era stata veramente pronta a tutto. Lui aveva sconvolto il suo cuore e i suoi sensi, lui aveva dato un riparo al suo spirito quando era confuso, perso nella tempesta delle supposizioni, dei “se fosse” e degli “avrebbe dovuto essere”. Lui era stato l’unico punto fermo in tutta la sua vita, sempre piena di cambiamenti e insicurezze. E, ora che se n’era andato, l’unico tocco che sopportava era quello dell’acqua, dell’aria e della terra.

Oscar si strinse nella giacca. Spirava un leggero venticello che la faceva rabbrividire. Si volse, lentamente, cominciando a camminare verso casa. Casa! Era veramente casa sua quella? No, no, no, no! Nessuna casa poteva essere la sua casa. Non più, ormai. Aveva perso ogni possibilità di avere una casa quel maledetto 13 luglio, quel giorno in cui una pallottola l’aveva uccisa. Alain e Rosalie, sì, loro potevano anche considerarla casa loro. Anche Bernard, che vi veniva un volta al mese, poteva considerarla casa sua, perché lì aveva moglie e cuore, lì i suoi pensieri si rivolgevano quando pensava alla sua famiglia. Ma lei, lei non aveva più famiglia. No, non più. Non più. Lì lei aveva un tetto, un letto, degli amici. Sì, loro erano suoi amici, nonostante tutto. Nonostante sperassero di salvarla dalla sua malattia. Pazzi! Pazzi ed egoisti! Perché insistevano nel cercare di curarla? Per salvarle la vita? Ma quale vita? Quale vita? Una vita di disperazione e rimpianto, di dolore e nostalgia. Ecco l’unica vita che potevano offrirle. Una vita senza André. Una vita passata a ricordare il proprio passato, a rivedere tutte le occasioni mancate di afferrare quella felicità che aveva sempre avuto accanto. A questo, loro non pensavano. Pensavano solo a tenerla stretta a loro, la volevano tra loro a tutti i costi, perché le erano affezionati, perché seguire i suoi ordini era diventata una dolce abitudine.

Ma lei non poteva più dare amore, non voleva più dare ordini. Non aveva più alcun motivo per farlo. La Rivoluzione sarebbe andata avanti anche senza di lei, in Francia c’era tanta altra gente capace. Non avevano bisogno di lei. Nessuno aveva bisogno di lei. Perché era ancora in vita? Perché?

Gli stivali in mano, Oscar camminava sulla spiaggia, facendosi riprendere dai suoi pensieri, sprofondando ad ogni passo nella sua malinconia. Succedeva sempre così, ogni giorno, ogni volta, in ogni luogo, se qualcosa non veniva a interromperla. E sempre più spesso quel qualcosa arrivava, sempre uguale e sempre sgradito, nonostante i suoi maldestri sforzi di piacere.

Si intrometteva malamente nei suoi pensieri, tentando di seguirli e prevederli, assolutamente convinto di conoscerli. Ogni sua parola, ogni suo gesto la colpivano al cuore, come segni del più profondo disprezzo. Una donna… la trattava come una donna… ma nel senso più basso e avvilente della parola “donna”…come una preda, un oggetto da conquistare, un qualcosa da aggiungere alla propria collezione. E questo lei non poteva sopportarlo, no, assolutamente no. Era già troppo che qualcuno si intromettesse a forza nei suoi pensieri, sostituendo la dolce immagine del suo amore con quella del suo viso, il ricordo della sua voce col suono delle proprie parole. E quello che le diceva, poi… banalità imparate da un nobile libertino, cerimoniale di corteggiamento trito e ritrito, che aveva osservato tante volte nei corridoi di Versailles, accettato solo dalle dame più frivole e sciocche. Quelle con un minimo di personalità no, rifuggivano da quelle cerimonie. Anche Girodel, quando l’aveva corteggiata, era inevitabilmente caduto in quelle banalità, ma lui almeno aveva tentato di trovare il suo punto debole. Non si era affidato solamente a quelle futili frasi. Perché lui sapeva, capiva che lei non era una donna comune, che non la si poteva conquistare con le comuni tattiche. Ma questo, Marc Bois non lo capiva.

Non lo capiva, e arrogantemente pretendeva di trattare tutte le donne allo stesso modo. Credeva che tutte desiderassero gioielli e fiori e altri doni, e pensava di accontentarle tutte inviando loro dei regali. Oh, tutto ciò aveva un prezzo, lo sapeva, ma lui poteva contare sul patrimonio del barone Montreil, e non badava a spese. Si sa, non può occuparsi d’amore chi ha preoccupazioni materiali, questa era una massima antica e fidata.

E con lei aveva già speso molto, in fiori, vestiti e regali, che vedeva costantemente sdegnati. Neanche rifiutati. Semplicemente, non presi in considerazione, come fossero paccottiglia senza valore. Esattamente ciò che erano, per lei, ma questo lui non riusciva a capirlo, no, non lo capiva. Come non capiva niente di lei, assolutamente niente.

E nonostante questo, perseverava, troppo orgoglioso per ritirarsi, troppo cocciuto per ammettere di non avere possibilità. E continuava a portarle dei regali, che ritrovava gettati per terra, ancora incartati, a pronunciare frasi leziose e sciocche, che non venivano ascoltate. Eppure continuava a pronunciarle, sempre le stesse e sempre uguali.

Come avrebbe fatto sicuramente anche ora. Oscar lo vide che si avvicinava a grandi passi. Cercò di fingere di non averlo visto e proseguire per la sua strada, ma sapeva bene di non avere possibilità. La sua arroganza e la sua insensibilità gli negavano di avere il minimo tatto, di capire quando poteva parlare e quando doveva tacere e scomparire. In quei momenti, l’unica cosa che la consolava era il pensiero che la sua condanna sarebbe finita presto. Il giorno della sua liberazione era vicino, e lei non faceva nulla per allontanarlo. Le sue forze diminuivano ogni giorno di più, e ogni giorno più rapidamente, e lei non le ripristinava né col cibo né col sonno, anzi, cercava in ogni modo di sfinirsi. Il suo corpo era sempre più magro, i suoi occhi segnati da occhiaie sempre più profonde. Eppure… eppure non aveva minimamente perso la sua bellezza, e la sua malinconia l’ammantava di un velo romantico per chiunque l’incontrasse.

Ma pochi, pochissimi sapevano quanto profonda fosse quella tristezza, e quanto grave la sua malattia. Lei, solo lei sapeva quanto fosse vicina la sua morte. Ogni volta che pensava a ciò, le veniva da ridere. Anche ora, pensando che non avrebbe dovuto sopportare ancora per molto la compagnia delle persone, scoppiò in una risata feroce e soddisfatta, che sconvolse il giovane Marc, che le si era avvicinato, lasciandolo ammutolito per qualche istante.

- Buongiorno madamigella, buongiorno. Come state oggi? – le disse infine, ritrovando la sua spavalderia. Oscar si azzittì, si voltò verso di lui, guardandolo con occhi vacui. Sbatté le palpebre, lo mise a fuoco, lo squadrò per qualche secondo. Senza una parola, si volse e riprese a camminare.

Lui stette qualche secondo immobile, cercando di contenersi. Poi la seguì, riprendendo a parlarle, continuando ancora e ancora, omaggiando la sua bellezza, lodando i suoi capelli e i suoi occhi e le sue mani, credendo di poter far breccia nel suo cuore, credendo di averla già conquistata, mentre vedeva il suo sguardo farsi più sognante. Come poteva immaginare che lei non lo sentiva più? Che non ricordava più neanche che lui le camminava accanto? Come? Lui era tanto convinto di non poter fallire da non immaginare neanche quanto impossibile fosse la sua vittoria.

Marc era un uomo cui piacevano le sfide. Non sapeva resistervi. Fossero carte, duelli o altro. E soprattutto gli piaceva vincere. Per questo, aveva fatto di tutto per entrare nelle grazie del barone di Montreil, per imparare a vincere. E già essere riuscito in quello era stata una vittoria, per lui. Accanto al barone aveva imparato come duellare, come giocare, come sedurre le donne. E molte ne aveva sedotte, nobili e contadine, paesane e cittadine, figlie di mercanti e di pastori, attirate dalla sua audacia o dai suoi modi affettati, conquistate dai suoi regali o ingelosite dalla sua indifferenza. Aveva sempre vinto le partite che voleva vincere. Ma, tutto sommato, le partite che aveva giocato erano sempre uguali, sempre riconducibili a un identico schema. Fino ad ora. Finché non aveva incontrato Oscar, la prima donna che non gli fosse caduta tra le braccia dopo il duo corteggiamento. Ma anche la prima donna a cercare qualcosa in più di bei regali o maniere che sapevano di nobiltà. La prima ad aver bisogno di qualcosa di speciale, perché speciale era lei stessa. la prima che Marc avesse incontrato ad aver avuto vicino qualcuno speciale. Ma lui non lo capiva, e continuava a sbagliare.

Aveva provato ogni tattica con lei, tutte quelle che conosceva, tutte, ma non avevano mai dato alcun risultato. Ma stavolta… stavolta era sicuro di riuscire. Quale donna non ne sarebbe stata felice? Una di quell’età poi! Certo era così triste perché ancora non aveva trovato marito. In più, non aveva più quell’espressione ostile negli occhi. Certo, Marc non poteva sapere che, in realtà, Oscar pensava ad André, non a lui, con quella dolce luce nei suoi occhi. No, non poteva essere per nessun altro quello sguardo, ma lui non lo sapeva, e se lo avesse saputo non vi avrebbe creduto, ora che era così vicino alla vittoria.

- Mademoiselle, ho un pensiero per voi. Mi concedete di mostrarvelo.-

Riscossa bruscamente dai suoi pensieri da quella frase, Oscar non lo guardò neanche, ma rispose nel tono più acido che potè trovare:

- Non sapevo sapeste pensare.-

Lui decise di fingere di non capire. Trasse di tasca un piccolo astuccio, si piazzò davanti a lei col suo sorriso più smagliante.

- Guardate, mademoiselle, l’ho preso pensando a voi. Non avevo mai fatto una cosa del genere. – lo aprì, lentamente, lasciando scorgere un piccolo bagliore… una pietra, che catturava la luce dell’ultimo sole e la restituiva amplificata, montata su un piccolo cerchietto di metallo… un anello… quanto avrebbe voluto ricevere un anello, anche molto più semplice! Ma da ben altra persona, e in ben altro contesto… in lei crebbe l’ira… come osava? Come osava? Credeva forse di poter prendere il posto di André? Credeva di potersi sostituire a lui? Di potersi anche solo paragonare a lui?

Marc non vide la furia crescente nei suoi occhi, sentì solo la sua risposta sferzante.

- Avevo ragione, dunque. Voi non sapete pensare. L’unica cosa che sapete fare è infastidire le persone, disturbare i loro pensieri e credere di fare delle brillanti osservazioni. Andatevene!-

- Ma, mademoiselle… io… voi…- non sapeva come reagire. Il suo regalo non poteva non esserle piaciuto! Non poteva non essere gradito!

- SPARITE DALLA MIA VISTA, MALEDETTO! SIETE SOLO UN IDIOTA! VOI NON SAPETE NIENTE! NIENTE! – urlò lei. Ma Marc non era disposto a tollerare oltre.

- Come vi permettete? Sappiate che io sono l’attendente personale del barone di Montreil!-

- Ciò non vi nobilita affatto! Siete solo un verme che crede di poter passare per farfalla! Vi ho detto di andarvene!

- Credete di poter offendermi così impunemente? Che credete di essere? Dovreste farvi passare la boria! Siete forse una nobile, per parlarmi così?- la prese per un braccio, le sollevò il mento. – Potrebbe essere, i tratti li avete…-

- Lasciatemi stare! – urlò lei, divincolandosi. Lui le strinse maggiormente il braccio. Lei urlò di nuovo, ancora, cercando di liberarsi.

- Non mi toccate! Lasciatemi! Lasciatemi!-

Lo colpì, un pugno al viso. Non aveva ancora perso tutta la sua forza, né la sua disperazione. Al primo pugno ne seguì un secondo allo stomaco, e fu come se picchiasse il soldato che aveva ucciso André. Lui si piegò in due, mollando la presa.

- Maledetta! Tu hai il diavolo in corpo! – mormorò lui, dalla sua posizione. Oscar non rispose, riprendeva il fiato. Riportò, lentamente, il braccio lungo la vita. Lo contemplò per alcuni istanti, poi, d’improvviso, si voltò, riprese a camminare.

- Eh no, bellezza, non te ne vai così! – reagì lui, slanciandosele addosso. Oscar cadde sulla sabbia con un grido. Non era morbida come sembrava, no, era dura, e pungente.

Non attese di essere immobilizzata dal peso di lui, ma reagì subito, addestrata da anni di zuffe e combattimenti. Reagì, colpendolo in tutti i modi che le erano possibili, e gridando, gridando, fino a diventare quasi isterica, gridando senza un vero motivo, senza un’effettiva utilità, gridando solo per dare finalmente un piccolo sfogo a ciò che si portava dentro da settimane. Non poteva sapere che, lì intorno, qualcuno avrebbe sentito le sue urla, una persona che ogni giorno la seguiva, preoccupata, e che sarebbe stata richiamata all’istante dal sentire la sua voce.

Alain arrivò di corsa, vide il suo comandante liberarsi del peso del ragazzo e continuare a colpirlo e ad esserne colpita… ad esserne colpita… esserne colpita… colpita… Afferrò Marc con un urlo rabbioso, lo strattonò via, buttandolo sulla sabbia. Quello si rialzò, fissando l’uomo che giganteggiava su di li.

- Che le hai fatto, bastardo?-

- Non sono affari tuoi.-

- Sì che sono affari miei. Avanti, parla! – lo afferrò per la camicia, lo trasse a sé. – Cosa volevi farle?-

- Io mi stavo solo difendendo. L’ho appena sforata, e lei ha iniziato a urlarmi contro e colpirmi, sembrava una gatta arrabbiata, che diavolo!-

- E tu perché l’hai toccata? – e vedendo che l’altro taceva – perché l’hai toccata?-

- Ehi, che diamine…?Adesso magari sarebbe anche colpa mia? Cos’è, la regina, che non può essere toccata?-

- Non preoccuparti di chi sia lei, bada solo a non toccarla un’altra volta, se vuoi restare intero. Chiaro? – Alain lo scosse ancora, tenendolo sempre per il colletto. – Chiaro?-

Oscar lo guadava, seduta sulla spiaggia, seguendo il corso dei suoi pensieri. Da un lato, ringraziava Alain per essere intervenuto, ma dall’altro… dall’altro…Dio, che ipocrita era! Lui, proprio lui, rimproverava un altro per averla toccata? Ma se era lo stesso desiderio che lei gli vedeva riflesso negli occhi, ogni giorno, ogni momento, e non solo il desiderio di un tocco amichevole, no!, lui aveva quasi lo stesso desiderio di Marc… certo, lo desiderava in modo diverso, ma la sostanza non cambiava. Lui voleva prendere il posto di André nel suo cuore, nella sua vita, e nel suo letto… ma non ci sarebbe riuscito, lei non gliel’avrebbe permesso! Mai!… e, lo sapeva, a volte, la notte, si lasciava andare a quel desiderio… quante volte, mentre fingeva di dormire, l’aveva sentito entrare e sedersi sul suo letto, scostare lentamente il lenzuolo… sentiva il suo alito sul viso, sul corpo, sentiva il suo sguardo ardente, che la bruciava, la scottava, curioso, oltrepassando la camicia sottile, tanto sottile, troppo sottile, che rivelava più che celare… e sentiva le sue lacrime, dopo, i suoi singhiozzi disperati, le sue bestemmie contro il cielo, le sue preghiere a lei, che non si arrendesse, che continuasse a vivere, per lui, per loro, per la Francia, per qualsiasi cosa, ma che vivesse, vivesse, vivesse… E ora eccolo lì, pronto a pestare un uomo che l’aveva toccata… già, l’aveva colpita, l’aveva picchiata… aveva cancellato con i suoi pugni le carezze del suo uomo… le vecchie, che le aveva fatto con le sue mani, e le nuove, che aveva affidato al vento e all’acqua…. e aveva cercato di prendere il suo posto… sì, sì, sì Alain, picchialo, pestalo, fa’ che non possa più muoversi, mai più, mai più, mai più… Ma Alain l’aveva lasciato andare, avvisandolo semplicemente di star lontano da lei, di non azzardarsi mai più a toccarla. Un avvertimento… un avvertimento… era più di quanto avesse avuto André con lei… con quella pallottola maledetta. Perché lui doveva avere qualcosa in più di André? Non gliel’avrebbe mai perdonato… Alain infliggeva un’altra ferita al suo cuore, con la lama dell’ingiustizia, ed era una ferita che lei non aveva mai saputo curare.

Ed ora si voltava verso di lei, si chinava davanti a lei, e lei gli vedeva in fondo agli occhi, riposto, quasi nascosto, il desiderio di toccarla, di prenderle la mano e aiutarla a tirarsi su… si ritrasse, come se lui la disgustasse, e vide la sofferenza, sul volto di lui, lampante per un istante, e poi subito repressa, nascosta, soffocata dal ragionamento.

- Va tutto bene, comandante Oscar? – si limitò a dire. E quando lei non rispose lasciò perdere, come sempre. – Venite comandante. È quasi ora di cena.-

Lei rimase un momento a guardarlo, come indecisa, sempre con quello sguardo disgustato negli occhi, poi si rialzò, da sola, recuperò le sue scarpe, cadute poco lontano, si sistemò la giacca e cominciò a camminare. Non gli rivolse sguardo o parola, si limitò ad avviarsi, senza badare neanche a Marc, che osservava, beffardo, a qualche passo di distanza.

Ma vi badò Alain, a quel sorriso beffardo, e gli si avvicinò, col desiderio insopprimibile di cancellarlo, con i pugni se necessario, per sfogare il suo dolore per la reazione di Oscar.

- Quella donna è pazza, e tu lo sei peggio di lei, se continui a reggerle il gioco. Il suo posto è in un ospizio, con i pazzi come lei. – lo apostrofò Marc. Alain sorrise, amaramente.

- Una cosa l’hai azzeccata: lei è pazza. – gli rispose, e lo prese, nuovamente, per il bavero. – Ma non azzardarti a giudicare, bellimbusto, perché tu non sai com’era prima, non sai perché è impazzita, non sai niente di lei, niente. Quindi cerca di ricordarlo, e stai zitto, perché la prossima volta che ti becco a ronzarle intorno non te la cavi così. -

- Ma che minacce, grand’uomo! Non mi fai paura! Non sei neanche in grado di farti rispettare da una donna.-

- E io ti ripeto soltanto di non giudicare gli altri, piccolo insetto che crede di essere importante. Tu non sai niente. Accetterò il tuo giudizio solo quando avrai imparato cosa significa soffrire per gli altri. – lo spinse via, si volse e seguì il suo comandante, nella luce dorata del tramonto, come aveva già fatto prima e avrebbe continuato a fare.

 

pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2004

Continua...

mail to: florimonde@hotmail.com

 

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