Storia di un amore banale

parte prima

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Non potevamo dirci felici, io e lei. No, non lo eravamo, anche se lui non era più tornato qui, da anni ormai. Non eravamo felici, prima che lui tornasse qui.

Ma eravamo insieme.

Condividevamo molto. No, non tutto.

Non avevo mai condiviso un abbraccio con lei. Non avevo mai condiviso un bacio con lei.

Nonostante la amassi da impazzire. Nonostante la desiderassi da impazzire, a volte.

Trascurabili esigenze di un amante qualunque le mie, se confrontate all’eternità che sembravamo vivere insieme. Trascurabili desideri di un uomo qualunque. Banale. La storia di un amore banale.

Il mio per lei.  Banale, come ogni amore lo è, agli occhi degli altri. Come il mio per lei.

Fatto di attenzioni per lei, ogni giorno. Fatto di desiderio per lei, certe notti.

Fatto di voglia di vederla sorridere, questo sempre.

Fatto di voglia di vederla felice, almeno per un giorno.

Fatto di voglia di essere felice io stesso, sì, anche questo.

Niente lettere d’amore, niente fiori, nessun gesto folle o eroico per conquistarla.

Ci sono eroismi più grandi che gettarsi nel fuoco per amore. Ci vuole tanto coraggio per vivere insieme ogni giorno. Ci vuole tanta attenzione per essere vicino a chi ami. Ci vuole tanto amore per non ferire con i propri silenzi, con le proprie piccole infelicità quotidiane chi ami. Ci vuole amore per continuare ad amare. Nonostante gli anni. Nonostante i silenzi. Nonostante la voglia di fuggire, a volte. Nonostante la voglia di urlare, a volte.

Per sempre insieme, per un tempo che mi sembrava potesse essere eterno, perché di me non avrebbe mai potuto stancarsi. Perché io non mi sarei mai stancato di lei.

Quando si ha davanti l’eternità, che senso ha soffrire per le carezze che non si ricevono ora?

Avevo scelto di non rivelarle mai che l’amo. Una scelta dolorosa? No, in fondo la più facile. Perché di me avrebbe potuto forse… innamorarsi. Un rischio che desideravo non correre, come per paradosso.

Preferivo non essere il suo amante, perché non l’avrei mai delusa, né a letto, né fuori dal letto.

Perché quando si sogna di fare l’amore siamo tutti bravi, e tutto è perfetto. E i vestiti vengon via da soli. E nessun tocco è maldestro, nessuna carezza è dolorosa, nessun desiderio è fuori luogo. E si viene sempre, entrambi, insieme perfino…

Preferivo non essere il suo amante, perché un giorno non avrebbe più avuto voglia che la toccassi.

Perché un giorno avrebbe inventato una scusa perché non la toccassi.

Perché un giorno avrebbe potuto desiderare un altro.

E quel giorno avrei inventato una scusa per non toccarla

E quel giorno avrei io desiderato un’altra donna.

E perché, per quanto possa essere forte e totalizzante una passione, prima o poi finisce. E perfino il migliore degli amanti finisce per essere un peso di cui liberarsi.

In fretta, di nascosto, senza clamore, non senza dolore.

Allora sì, sarei morto per amore.

Allora sì, sarei morto per mano sua.

Allora sì, sarei morto per lei.

Mi avrebbe mentito, negando perfino di avermi mai amato. Come se fosse stata un’altra la donna tra le mie braccia. Come se non fossero mai stati suoi i sospiri, i gemiti nel letto. Come se non fossero mai stati i suoi gli occhi che mi avrebbero chiesto di rimanere.

Accusandomi dei peggiori delitti dell’amore, perché mi sentissi colpevole, talmente colpevole che l’essere allontanato mi sembrasse quasi un sollievo. Una grazia immeritata, di cui, perfino, esserle grato.

Ecco, questo non volevo essere per lei. Perché un giorno, felice, mi avrebbe baciato. Ma un altro giorno, infelice, mi avrebbe lasciato.

Preferivo essere la sua ombra per sempre, che la sua luce.

Di un’ombra non ci si accorge quasi, ma non se ne può fare a meno. La luce può essere talmente calda da bruciare, talmente accecante da finire per fuggirla.

Avrei finito per scaldare il suo cuore per una sola stagione. 

Ma tutti noi abbiamo dentro un po’ di inverno. E in inverno il sole è un fatto trascurabile.

Era un pomeriggio di fine inverno, o forse era già primavera, e io non me n’ero accorto, quando lui tornò.

E la vidi correre verso di lui, di nuovo, come tanti anni prima, quando lui se n’era andato. Quando l’aveva lasciata, tanti anni prima. Correva di nuovo verso di lui, perché mai lo aveva dimenticato.

Lo chiamava, urlava felice il suo nome. Non ho mai potuto sopportarla quando grida il suo nome. Se non posso sentirti urlare il mio nome, nuda, nei gemiti dell’amore, perché devo sopportare di sentirti urlare il suo, vestita, ma come nuda, nel tuo amore così manifesto, quando sei di fronte a lui?

Quel pomeriggio mi resi conto che ero sempre stato infelice in realtà, nonostante fossi stato accanto a lei.  E pensare che per convincerlo a rimanere chiese solo un piatto di minestra...

 

L’agitazione che prese tutti quella sera finì per scuotere anche me, alla fine. Mia nonna intenta a cucinare, a dare ordini alle cameriere, come se fosse arrivato un principe reale. 

I servitori, già, forse dovrei dire gli altri servitori, giacché questo io sono sempre stato, pronti a compiacere il “gradito” ospite in qualsiasi suo desiderio o esigenza. Persino io.

Oscar… come sembri ridicola a volte, quando cerchi di camuffare che muori dentro per amore.

Come sei ridicola, amore mio, quando cerchi di mantenere la cordialità di una perfetta padrona di casa, scherzando del nulla, e divorandolo con lo sguardo, ogni volta che lui abbassa gli occhi sul bicchiere pieno di vino.

Come sembro ridicolo io, quando cerco di dissimulare che muoio dentro per amore di te.

E sembro ancora più ridicolo, amore mio, quando cerco di provocarlo con l’ironia perché a parlare al posto mio non sia la gelosia.

E non dirmi che non ti sei mai chiesta perché ci ha messo due anni a tornare nonostante la guerra fosse finita.

E non dirmi che gli hai creduto quando ti ha detto che è stato ammalato. Per due anni?

E non dirmi che gli hai creduto quando ti ha detto che non la ama più.

E non dirmi che gli hai creduto quando ti ha detto che non vuole vederla mai più.

Ma tu gli hai creduto. E quel sorriso è per lui.

E questo piatto di minestra è diventato freddo, e cattivo. E non riesco più a mangiare. E non ne voglio più. Non voglio più vederti così.

Innamorata di un vigliacco, di un avventuriero qualunque. Di uno che “sperava di morire sul campo di battaglia”. Questo ti ha detto. E tu, commossa e felice di averlo invece qui. Commossa e felice di avere alla tua tavola un uomo sciocco.

Perché a morire sono i fanti, non lo sapeva, il giovane ufficiale? Non lo ricordi nemmeno tu, amore mio? 

A lui bastava una ferita qualunque, per ottenere una medaglia. Ad un fante, ad un uomo come me, non basterebbe morire per avere il proprio nome su una lapide.

Oscar, non morirà mai per amore uno come lui. Ci sarà sempre un’altra sottana, possibilmente impreziosita di merletti e seta, a consolarlo del suo incredibilmente infelice amore.

A morire per amore sto iniziando io, stasera, mentre offri la tua casa, e il tuo cuore, per tutto il tempo che lui vorrà.

Alla salute, conte di Fersen! Alla salute! Alla salute di un uomo che non doveva tornare mai e che invece è tornato! Alla salute allora! Alla salute di un uomo che continuerà ad usarti come ha sempre fatto. Alla salute di un uomo che continuerai ad amare, senza un vero perché. Alla salute, amore mio.

Dimmi, ma per quanto ancora? Alla salute, amore mio!

Non disturbarti a salutarmi, vado a dormire. Non disturbarti ad accorgerti di me, non ce n’è bisogno ora. Io non lo voglio, ora. Buona notte… amore mio…

 

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Ora è qui, sotto questo stesso cielo, sotto questo stesso tetto. Dio solo sa quanto ho voluto che lui tornasse. Quante lacrime ricacciate nell’uniforme per nasconderle al mondo. Per nasconderle a lei. Lei si è consolata, dopo tanto soffrire. Perché non dovrei essere consolata io ora, dopo aver tanto sofferto?

Quanti bicchieri di vino, quanti pugni per ingannare la mia rabbia, e quante notti insonni passate ad aver paura per lui, io che la paura quasi non la conoscevo.

Per anni ti ho atteso. Per anni ti ho pianto, in silenzio. Forse il mio amore è meno meritevole di quello di lei?

Non potrei amare altro uomo che non fosse lui. Sì, non può essere che così.

E sento che è arrivato il mio momento. Sì, non può essere che così. Non sarebbe qui ora. No, non sarebbe qui. E allora, perché, appena celata nella mia gioia, sento anche tristezza? E allora perché ho mille dubbi? E‘ qui, non la ama più. Non dovrebbe essere sufficiente? E’ qui, dormirà qui, rimarrà qui. Devo credere solo a questo. Non avrebbero avuto senso altrimenti tutti questi anni passati a rimpiangerlo. Anni vissuti, senza mai nemmeno assaggiarli, aspettando che tu tornassi.

Dimmi che non ti ho aspettato invano. Dimmi che non ti ho sognato invano. Dimmelo, ti prego.

Domani, domani sarai ancora qui, e altri giorni ancora, e forse per sempre. Non devo pensare ad altro che a questo.

Passi, nel silenzio, come vicini a me. Qualcuno, fuori dalla stanza? Sarà la nonna nel suo abituale giro di perlustrazione. E allora, perché mi sento ancora più inquieta? Silenzio. Trattengo il respiro, per percepire ogni minimo rumore. Passi, ancora nel silenzio, che si allontanano lentamente. E’ tornato il silenzio. Solo il rumore del mio cuore è così forte da riempirmi le orecchie. Domani, domani sarà ancora qui. Per me.

 

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E’ stata la prima volta, quella, che sono andato via senza di lei. La prima volta, di notte, senza di lei. Fuggire via da questa casa. Non riuscire a dormire sapendola sveglia a pensare a lui. Non riuscire a bussare alla sua porta, per avere paura che aprisse. Per avere paura che vedendomi così avrebbe capito tutto. E paura e voglia che lei sapesse. Che la amo. Che non sapevo dove avrei trovato il coraggio per affrontare il giorno dopo, con lui in casa. Con lei, persa negli occhi di lui. Non bussai, andai via, con il mio cavallo verso la città. La prima volta a cavalcare da solo, senza di lei. La prima volta ad ubriacarmi di notte, senza di lei. Mi sembrava facile e, invece, nonostante l’alcool, sentii lo stesso la sua mancanza. Anche di vederla più ubriaca di me. Ero solo, e in fondo alla bottiglia trovai tutta la mia solitudine. Ma non trovai neanche un po’ di coraggio per correre da lei ed implorarla di ascoltarmi. Per ascoltare il mio amore. In fondo, il mio era un amore banale, come tanti altri…

Poi vidi entrare lei. All’inizio non la riconobbi affatto. L’avevo vista poche volte in fondo, però… c’era qualcosa di conosciuto, di familiare in lei, nonostante i vestiti più semplici. Una veletta sul viso, di pizzo nero, a celare in parte il suo volto. Si sedette, in compagnia di due uomini. Due servitori, mi sembrò evidente. Si fece portare da bere. E mi avvicinai al suo tavolo, sedendomi poco dietro. Beveva, tra lo sguardo preoccupato dei due servitori. Qualcuno dei presenti la guardava con interesse, desiderio. Una bella donna, in un tavolo di un’osteria qualunque a bere. Un comportamento non proprio da nobildonna, ironizzai tra me e me. Poi ricordai chi era e dove l’avevo vista. Rimasi lì, come un gatto pronto ad afferrare la coda di un topo. Sapevo chi era stata. Forse sarebbe stato più opportuno dire “con chi” era stata, per molto tempo. Perse la testa velocemente, non doveva essere abituata a bere così. La vidi buttare indietro il capo e dire “Hans, amore mio, perché mi hai ridotto così?”. Per la prima volta nella mia vita mi sembrò di avere in mano la carta giusta. E la giocai. Senza pietà per nessuno.

 

 

Continua...

mail to: f.camelio@libero.it

 

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