Il sospetto

parte settima

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Descrivere la mia gioia, la mia felicità di quei tre giorni passati con lei. E’ davvero possibile? Qualunque racconto ne facessi sarebbe, comunque, lacunoso. Quante parole esistono per esprimere la felicità? E quante sfumature, quanti colori ha la felicità? La nostra, in quei tre giorni, fu così grande…

Nessuno sapeva dove noi fossimo, tranne, probabilmente, la sorella di Oscar, nostra complice, nostra invisibile e silenziosa, lontana ruffiana, per quella fuga da tutto. Dalle mie paure, dalla mia gelosia, dai miei problemi, e da quelli di lei. Soli, in una casa immensa, e vuota, e piena di noi, allo stesso tempo. In fuga dal mondo, non eravamo mai stati così. Felici.

Il sesso, certamente, più volte che potevamo. Ma non solo quello. Un pomeriggio, il primo, interamente passato in un letto, nudi, vicini l’uno all’altra, senza più nemmeno la consapevolezza di che tempo facesse fuori di lì.[1] Forse c’era il sole. Ne entravano i raggi dalla finestra. Ce lo dicemmo, che fuori c’era il sole. Ma non aveva alcuna importanza. Perché la mia vera fonte di luce e di calore era lì nel letto con me, nuda, come se questo fosse il suo vestito naturale, come se fosse sempre stata nuda, di fronte a me. Senza vergogna. Con naturalezza. Me ne stupii, all’inizio. Provai pudore. Poi l’adorai. E non provai più vergogna del mio corpo, nudo di fronte a lei.

E non mi stancavo di guardare il suo corpo,  di desiderarlo, di cercarlo.

Lei guardava a tratti il soffitto, lo sguardo come rapito, come se vedesse al suo posto un manto di stelle, costellazioni infinite di stelle, che disegnavo intanto, con le mie dita, sul suo corpo, che disegnava lei sul mio, seguendole con le sue labbra.

Un pomeriggio intero a sognare, a scherzare con me, di qualsiasi cosa, anche delle cose più stupide. Le sue e le mie risate, e poi di nuovo l’amore, quando ne avevamo voglia. Senza fretta, cercandoci, imparando a conoscere l’uno l’altra. A darci piacere. A riceverlo l’uno dall’altra. A volerlo ancora.

E gli abbracci teneri. Mi addormentai tenendola cinta per le spalle, mentre lei sognava ad occhi aperti. Si addormentò lei mentre, in un altro momento, le accarezzavo il volto dicendole semplicemente: “dormi ora, amore mio”. Le mie carezze l’accompagnavano verso il sonno. Le mie carezze, in altri momenti, eccitavano i miei e i suoi sensi. Dimenticammo di mangiare, a volte.

Non smettemmo di sognare, mai. Se fuori il mondo continuava il suo percorso, si era dimenticato di noi. Meraviglioso. Meravigliosa, lei.

Poi la fame ci vinse, e confessammo l’uno all’altra quello che ci sembrava quasi un delitto. Perché era un delitto scendere da quel letto, era un delitto vederla rivestirsi. Ma era necessario. E momentaneo, per fortuna. Perché in quel letto saremmo tornati. E l’avrei di nuovo baciata, sempre più intensamente, l’avrei spogliata, e avrei fatto ancora l’amore con lei, scoprendo ancora qualcosa di lei che non sapevo, e avrei di nuovo scherzato con lei di niente. Avevamo fame, in quei momenti, soprattutto avevamo fame di noi.

Scendemmo in cucina. Vuota, ma per fortuna piena di cose che potevamo mangiare.

A patto di saperle cucinare.

Ridemmo, rendendoci conto che nessuno dei due sapeva bene dove cominciare.

Ipotesi sui tempi di cottura. Troppo differenti tra loro. Ci guardammo, sorridendo, lievemente preoccupati. E tremendamente affamati. Trovammo delle uova. Furono la nostra salvezza. Riuscimmo a cuocerle. Mangiammo. Ora che la nostra fame era placata, la fame di noi tornava a farsi sentire, prepotente. Mi avvicinai a lei, mentre lei puliva i piatti. Lei si voltò, sorridendomi. “Certo, viste le mie incredibili capacità in cucina, sarei proprio una pessima moglie per un uomo. Se mi vedesse tua nonna…”

La cinsi per la vita. Mi sfuggì una risposta: “Non è per questo che ti sposerei”. Si voltò, sciogliendosi dal mio abbraccio. Il suo sguardo, improvvisamente, come farsi lucido. Senza alcuna motivazione apparente. E una motivazione invece ce l’aveva. E giustificava le lacrime che teneva dentro di sé. Si allontanò da me con una scusa. Rimasi io a finire di mettere a posto. Mentre lei lontano da me, probabilmente piangeva le sue lacrime. Quelle che non poteva e non voleva mostrarmi. Tornò da me, come se nulla fosse successo. Io, ignaro di tutto, pensai solo di aver commesso una gaffe incredibile. Di averla offesa. Le chiesi scusa, stupidamente, invece di chiederle, come avrei dovuto, cosa era veramente successo. Ma lei tornò, portando con sé due spade.

Accettai di battermi con gioia, e vidi tornare di nuovo il sorriso sulle sue labbra. Adoravo vederla sorridere. Avrei fatto qualsiasi cosa, per vederla sempre sorridere. Era di una bellezza infinita, quando sorrideva, il suo sorriso era la mia vera luce, era la mia vera gioia, la motivazione più profonda della mia vita, la giustificazione estrema dell’esistenza della mia anima.

E si batteva con me, come aveva sempre fatto, fin da bambina, con un’agilità incredibile. Apprezzai ogni movimento del suo corpo, a malapena concentrandomi sui colpi, perso in lei. Faceva l’amore con me anche così. Aveva sempre fatto l’amore con me così, e io non me ne ero mai accorto prima. La sua danza intorno a me. Sempre la stessa e sempre diversa. Sensuale. Come lei era. Il mio occhio mi assistette, più del solito, e decisi di sorprenderla. Non assecondai la sua danza, come avevo fatto per tanti anni. Per qualche istante volli essere me stesso. Completamente. E usai la mia forza. Quella che con lei non avevo mai realmente usato. Stupore nei suoi occhi. E poi ancora più grinta nei suoi occhi, e più velocità nei suoi movimenti. Che però ben conoscevo e prevedevo. Per anni avevo imparato come fare a non ferirla, in quelle ore avevo imparato a capire cosa le dava piacere. Una vita intera a studiarla. Ma ora l’avrei sorpresa. Un mio colpo più forte, e per una volta più veloce del suo, le fece volare via la spada. Lei si voltò, seguendo con lo sguardo il percorso della sua lama, che atterrò poco più in là. Poi guardò me. Sorpresa, stupita. Lasciai cadere la mia spada. Mi inginocchiai davanti a lei. Lei abbassò gli occhi su di me. Mi disse, sorridendo, di un sorriso che sapeva di una nuova consapevolezza, e di una serenità almeno apparente: “Anche questo è stato il tuo amore per me, in questi anni, André?”.

“Sì” le risposi sorridendo, “ma tu sei e rimani il mio avversario più temibile”.

Mi abbracciò, si lasciò andare ai miei baci. Eravamo pronti per rientrare di nuovo nel nostro regno. E vi rientrammo, felici.

Il secondo giorno vegliai il suo risveglio. Cominciavo a temere che il terzo giorno sarebbe arrivato. Non avevamo parlato del futuro, ora che eravamo insieme, perché eravamo troppo impegnati ad essere felici. Non avevamo parlato del passato, perché ero troppo impegnato ad assecondarla.

E un segreto c’era, doveva esserci, nel cuore di Oscar. Qualcosa che motivasse quelle fughe di lei, che motivasse il tentativo di lei di nascondermi una verità, che lei riteneva una sicura fonte di dolore per me. Lei dormiva serena, accanto a me. Le accarezzavo piano il viso. Ma i dubbi cominciarono ad impadronirsi nuovamente di me. Insieme con la paura di dare un nome o un significato, una ragione a quei dubbi. La risvegliai, il più teneramente che potevo. Attesi che avesse terminato il suo sogno. Mormorava “amore mio”[2] nel sogno, nello stesso modo dolce che aveva usato per me da sveglia. Godetti di quel momento. Lei sognava. Ma lei stessa era un sogno per me. Il più bello dei sogni. Si mosse nel sogno, a cercare il mio corpo. Lo trovò, svegliandosi. Mi sorrise. Le sorrisi. Ci baciammo. E augurai il mio buongiorno ad ogni parte di lei. Poi restò abbracciata a me. Trovai il coraggio di parlarle.

“Oscar, ci sono delle cose di cui dovremmo parlare, vorrei che tu mi parlassi. Ho l’impressione che ci sia qualcosa che mi nascondi”. Non potevo dirle del diario di lei aperto, della conversazione tra lei e Fersen ascoltata dietro la porta, della confidenza colpevole di Alain. Eppure, qualcosa dovevo dirle. E dovevo avere una risposta da lei. Chiuse gli occhi. Sospirò. Li riaprì su di me, che trattenevo quasi il respiro, in attesa di una sua risposta.

“Hai ragione, ti devo una spiegazione. E te la darò. Te lo giuro. Ma non essere geloso di me, non ne hai motivo, realmente. Ora abbracciami, per favore…”

Tornai ad abbracciarla. All’improvviso il suo corpo mi sembrò fragile. Stranamente fragile. Inaspettatamente fragile. Ma i suoi baci mi fecero rapidamente perdere la testa e mi ritrovai a fare l’amore con lei. Mi ritrovai ad essere felice, nuovamente, tra le sue braccia. E a quella felicità non sapevo rinunciare, neanche per scoprire la verità. Aveva sedotto il mio corpo, in principio. Poi, non soddisfatta, aveva sedotto anche la mia anima. Meravigliosa. E diabolica.

Aveva avuto gioco facile con me. Lo ebbe ancora di più, quando con la scusa di mandarmi a preparare dei cavalli per fare una cavalcata con lei, rimase sola nella stanza. A decidere il suo destino, e il mio. L’aveva già deciso, in realtà, firmando il foglio del mio congedo, scegliendo quella sera, quella casa, il vestito da farmi indossare, il vestito che avrebbe messo lei, le pietanze e la musica per danzare. E la sua confessione d’amore, e il sesso, e le risate, e i risvegli accanto a lei.

Tutto già scritto, tutto già calcolato. E messo in atto con determinazione. Senza una defaillance, nella sua strategia. Se non quello sguardo lucido, in cucina. Troppo lieve per poterla scoprire veramente. Troppo stupido io, per capire quello che stava succedendo.

Ero una vittima. Inconsapevole, apparentemente. Vittima di quei giorni accanto a lei. Vittima del suo amore. Ma ero una vittima per mia scelta. Ed ero suo complice, perché non avevo insistito a sapere la verità da lei. Ed ero felice di non averlo fatto. Perché speravo, mi illudevo volontariamente che non fosse nulla di importante. Di veramente importante. Che la mia gelosia non avesse avuto senso, che la mia disperazione fino a qualche giorno prima non avesse avuto alcun senso. Che la mia rabbia verso di lei non avesse avuto alcun senso. Di nuovo, mi sbagliavo.

Desideravo solo il suo amore. Avrei voluto che fosse il suo amore la pena che dovevo scontare.

Era l’anticamera del paradiso invece. A cui, però, io non ero destinato.

Ero destinato invece all’inferno in terra. L’avrei scoperto di lì a poco, ma intanto, vigliaccamente pensavo a sellare i cavalli. Mentre le porte dell’inferno si aprivano, lentamente, silenziosamente, alle mie spalle, nascoste al mio sguardo.

Il mattino del terzo giorno un odore di croissant e caffè mi risvegliò. Aveva preparato una colazione per me. Mi guardava sorridente, mentre mangiava al mio fianco. Una velatura di stanchezza nel suo sguardo, che attribuii alla notte che avevamo vissuto quasi del tutto svegli a fare l’amore. Mi riaddormentai, dopo aver mangiato. Quando riaprii gli occhi, l’odore che sentii era del tutto diverso. Ceralacca. Oscar era seduta alla scrivania. Dandomi le spalle. I gesti di lei. Un timbro intinto sulla ceralacca, sciolta, e poi su qualcosa che lei copriva con il suo corpo.

La richiamai. Sobbalzò, lievemente. Sospirò. Mi alzai.

“Cosa fai? A chi scrivi?”, chiesi.

Un attimo di silenzio da parte sua, il viso da teso ad improvvisamente sereno. Ingannevole quel suo sorriso. Mi lasciai ingannare. Nuovamente. Perché non sognavo altro che riportarla nel letto con me. Stolto.

“A te. Qui c’è la spiegazione che cerchi. Ma facciamo un patto, o meglio una scommessa. Scommettiamo che questa la leggerai soltanto domani mattina. Per questo l’ho sigillata. Perché so quanto tu sia un curioso. Ma stavolta la tua curiosità dovrà aspettare. Solo per una giornata, te ne prego. Questo è il regalo che ti chiedo. Questo è l’ultimo giorno del nostro congedo. Domani ci sarà il tempo per le spiegazioni e magari anche per delle decisioni. Importanti. Per il nostro futuro. Ma oggi vorrei pensare solo a noi due. In caserma non avremo lo stesso tempo da dedicare l’uno all’altra come ora. Vuoi esaudire questo mio desiderio? ”

Risposi di sì, e l’abbracciai, mentre i miei occhi guardavano avidi quella lettera chiusa, senza nome, indirizzata a me. La verità, sigillata dalla ceralacca. Era lì di fronte a me.

Un’altra giornata da passare con lei. Una giornata che trascorse felice come le precedenti.

Poi, nel pomeriggio, mi chiese di prepararle un bagno caldo. Glielo preparai, e l’aiutai a spogliarsi. Entrò nell’acqua. Mi schizzò, sorridendomi complice. Voleva che quel bagno lo facessimo insieme. Ma io rifiutai, accompagnando quel rifiuto con un bacio, bagnandole lievemente i capelli con le mie mani. Uscii dalla stanza, chiusi la porta. La sentivo sospirare, mentre si distendeva nell’acqua calda.

Ero solo nella stanza da letto ora. Mi sedetti alla scrivania. La disordinata Oscar aveva lasciato fuori la ceralacca e il timbro. Ma aveva riposto la lettera. Aprii il cassetto, la tirai fuori. La guardai, tra le mie mani, per alcuni minuti. Non sapevo cosa fare. La mia curiosità, e la mia preoccupazione da un lato, e la mia fiducia verso di lei, la mia voglia di rispettare il patto che mi aveva dolcemente imposto, dall’altro. Allora presi la mia decisione.   

 

Continua…

 

Ai lettori e lettrici de “il sospetto”

 

C’è una lettera, indirizzata ad André, sigillata, per non essere aperta.

Probabilmente contiene la verità che André, e con lui, probabilmente, il lettore, sta cercando dall’inizio del racconto. La spiegazione dei misteri intorno alla figura di Oscar e alle sue strane azioni.

Il dilemma: André aprirà quella lettera o rispetterà il patto con Oscar di aprirla il giorno successivo? 

Secondo voi, cosa farà? E quali conseguenze avrà la sua scelta?

Per scoprirlo, l’appuntamento è al prossimo episodio, ma con una sorpresa.

Vi propongo un esperimento, nel prossimo aggiornamento troverete due file differenti, che rimandano a due diversi e alternativi proseguimenti del racconto, due finali, per cosi dire, possibili e alternativi.

Potrete dunque scegliere quale leggere, in base alla vostra ipotesi su quello che André farebbe, o fareste voi al suo posto.

Al posto di André, aprireste la lettera? O aspettereste?

Appuntamento al prossimo aggiornamento, dunque.  

Fiammetta

 

 

Continua...

mail to: f.camelio@libero.it

 

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[1] Il brano in parte è ispirato dal fumetto di Neon Genesis Evangelion (Yoshiyuki Sadamoto-Gainax, Ed. Panini-Planet Manga in Evangelion Collection n 5, pag. 129 ) in una scena che ricostruisce il passato di Koji e Misato.

[2] Ispirato ad un brano de “L’Amante” di Yehousha. Ed Einaudi.