Il sospetto

parte sesta

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Pochi minuti alle otto, ed ero vicino al cancello della villa dove abitava una delle sorelle di Oscar. Poche stanze illuminate. Non sapevo se entrare oppure andarmene. La mia rabbia mi spingeva a tornare indietro; il mio amore, nonostante tutto, a varcare la soglia. Quest’ultimo, alla fine, vinse.

Mi sentivo strano, abbigliato in quel modo, non capivo il perché di una mascherata del genere. Voleva farmi vestire come un nobile. Come il suo Fersen, forse… strinsi i pugni e avanzai. Il mio proposito era di affrontarla brevemente e andarmene il più velocemente possibile. A piangere le mie lacrime da un’altra parte. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Avrei pianto, e tanto, proprio dentro quella casa.

Un servitore che non conoscevo, e che non mi conosceva, venne ad aprirmi. Mi venne quasi da ridere, quando si offrì di togliermi il mantello e il cappello. Ma accettai. Per una sera, essere servito non mi sembrò poi un così gran delitto.

Mi accompagnò davanti ad una porta che ricordavo dava su un grande salone. Lo ricordavo. Eravamo stati qui da bambini, lei e io. Ripensai a lei, a come lei era allora, con gli occhi stupiti di bambina, meravigliarsi, un giorno, di sua sorella vestita da sposa, e io che la prendevo in giro, ricordandole che un giorno si sarebbe sposata anche lei, che, fintamente inorridita, mi rispondeva che non lo avrebbe mai fatto.

E invece, pensai tristemente, forse lei stava ora per farlo. Per sposarsi.

Perché mi hai ingannato? Perché da bambina mi giurasti che non ti saresti mai sposata?. Perché mi assicurasti che l’amore per te non contava e che non ti saresti mai innamorata?, pensavo.

Per un momento solamente, desiderai di tornare di nuovo bambino, con lei, lontani da tutto, dall’amore, dal sesso, dalla gelosia.

E dalla mia paura di perderla.

La voce del servitore che aprì la porta annunciando il mio ingresso mi riscosse dai miei pensieri. Entrai, quattro musicisti, in fondo al salone attaccarono una sonata di Händel, che riconobbi, per avere sentito tante volte a Versailles. Una tavola imbandita, per due persone, illuminata da candelabri d’argento. E, lontana da me, accanto ad una finestra poco illuminata, una figura femminile, di spalle, vestita, quasi fasciata in un lungo abito da sera, di un azzurro intenso, a contrastare con i capelli biondi, raccolti in cima, ma fermati con poca perizia, tanto che vidi scendere dietro le spalle all’improvviso una ciocca furtiva, in fuga verso la base delle sue spalle, scoperte. Quelle spalle che avrei voluto stringere, e baciare con passione. Da una vita. Dalla prima volta che mi ero reso conto di essermi innamorato di lei. Tremai quasi dall’emozione. Per un istante, pensai che quella sera lei era lì per me. Qualunque fosse stato il suo scopo, quella tavola, quella musica era per me. Lei era lì per me. Voleva rendermi meno amaro il suo addio, pensai. Sentii le lacrime scorrermi sulle guance. La musica cessò per un istante, prima di riprendere con un adagio. E lei si voltò. Bella, bella, mille volte bella. Così bella non l’avevo vista mai. Così radiosa da accentrare realmente ogni luce su di sé. Fersen avrebbe dovuto essere cieco per non averla notata, per non essere stato rapito dalla sua bellezza. E io, che cieco lo stavo diventando veramente, la divorai con gli occhi, per conservarne il ricordo, per i giorni senza luce e senza colori che sarebbero venuti. Volevi che ti vedessi così? Più bella ancora di quella sera che con il tuo abito bianco andavi al ballo per lui. Infinitamente più bella. E infinitamente più triste mi sentii io all’idea che quel regalo per me, che ti avevo sognata per una vita intera, sarebbe stato l’ultimo. Ma era il mio. Il mio regalo. E quella sera era mia, sicuramente. Avanzò verso di me, con una grazia che non conoscevo in lei. Naturale, non studiata. Mi sorrise. Poi, abbassando lo sguardo, come intimidita dalla mia vicinanza, mi prese per mano e mi condusse alla tavola.

“Avrai fame…”, mi disse, sottovoce.

“Sì, Oscar… tutto questo è così strano per me…”, le risposi, come a cercare una risposta da lei.

“Non dire niente, André, ti prego…”

Le sorrisi, in segno di tacita intesa. Quante volte a Versailles avevo assistito, in piedi, alle cene dei cortigiani. Ora il cortigiano ero io, e la donna, splendida, che cenava accanto a me; che, in silenzio, mi sorrideva, un leggero rossore sulle gote ogni volta che i miei occhi cercavano e trovavano i suoi, era lei. Sembrava rapita dalla musica, per poi tornare nuovamente a guardarmi, con uno sguardo dolce. Non mi chiesi se quello stesso sguardo lo rivolgeva a Fersen.

Ma in quel momento era solo per me. E ne ero assolutamente inebriato. Rise con me, quando il cameriere fece un piccolo errore nel servire, e io, una volta allontanatosi, le ricordai di una solenne sfuriata di mia nonna che insegnava ai camerieri di palazzo Jarjayes e a me come servire a tavola. Il ricordo di mia nonna, che mi inseguiva tra i tavoli con il suo mestolo in mano, la fece ridere. Poi, come in un gesto furtivo, mi sfiorò la mano. La sfiorai a mia volta. Rossore sul suo viso, di nuovo, e sul mio. Si alzò all’improvviso, porgendomi la mano. La presi. Si avvicinò a me.

Mi disse, sottovoce, ad un orecchio, che voleva ballare. Mi accorsi solo allora che aveva un solo orecchino. L’altro identico, un fiore d’oro, l’avevo io nel mio sacchetto di velluto, nella tasca della giacca.

Il suo profumo di rose e begonie mi inebriò, quando, tra le mie braccia, cominciò a danzare con me. Lo stesso profumo che, quella notte, la notte del 25 dicembre, avevo sentito sulla mia pelle nel dormiveglia. La mano che aveva sfiorato la mia fronte era stata la sua, le labbra che avevano sfiorato la mia fronte erano le sue. Ne ero certo. La strinsi all’improvviso contro il mio corpo.

“Tu hai già messo questo vestito, non è vero? La sera del tuo compleanno, no?”

Sorpresa nei suoi occhi, poi colsi come una tristezza che in lei non avevo mai visto.

“Sì. Avevi la febbre, quella notte. La tua fronte scottava…”

“Dove andavi quella notte?”

Si separò per un istante da me.

“Non lontano da te, in realtà.”

Confuso, ripresi le sue mani tra le mie, e ricominciammo a ballare. Stavolta fu lei ad avvicinarsi lentamente a me, a cercare come un abbraccio, per quanto i passi previsti da quella danza lo rendessero possibile.

Restammo così per tanto tempo, ballando, guardandoci negli occhi, finché lei non si sciolse dal mio abbraccio e congedò i musicisti.

Rimanemmo soli. Avvicinandomi alla finestra mi accorsi che i pochi servitori presenti stavano lasciando la villa, uno dopo l’altro. Li guardai allontanarsi, con tristezza. Quell’incanto stava per finire.

Rimasti soli, Oscar mi avrebbe detto addio. Addio per sempre. Le voltavo le spalle, avevo paura, e allo stesso tempo speravo che quell’addio fosse il più veloce possibile. Avrei portato il ricordo di lei nel cuore tutta la vita, ma in quel momento desideravo solo fuggire.

Ora eravamo veramente soli. E non osavo voltarmi.

“André…”

La sua voce, che mi chiamava. Feci finta di non sentirla. Non volevo sentirla, in quel momento.

“André”, disse di nuovo, più dolcemente.

Mi voltai, mio malgrado. Dovevo affrontare anche questo dolore. Speravo sarebbe stata l’ultima prova da affrontare nella mia vita. Mi sbagliavo, nuovamente.

“Ti ascolto, Oscar.”

Vidi imbarazzo sul suo volto. Come se anche lei avesse paura. Paura, come ne avevo anche io. Rimasi sorpreso. Poi, con un’andatura sottilmente incerta, si avvicinò a me. Fino quasi a sfiorarmi.

No, Oscar, non avvicinarti così, non adesso, non quando stai per dirmi addio. Non ora, ti prego.

“Hai il sacchetto di velluto con te?”, mi disse.

Confuso infilai la mano nella tasca e trovato il sacchetto lo tirai fuori.

“Aprilo”, mi disse, dolcemente.

Lo aprii e tirai fuori il piccolo fiore d’oro. Non osavo più guardarla in volto.

“Puoi mettermelo tu?”

La guardai, mi porgeva delicatamente il volto in modo che potessi metterle l’orecchino. Esitai.

La sua voce mi spinse delicatamente ad avvicinarmi a lei.

“Te ne prego, André.”

La mia mano tremava, ma la avvicinai al suo volto per poterle mettere l’orecchino. Nell’istante in cui lo allacciai, sentii la sua voce mormorare al mio orecchio:

“Io ti amo.”

Come folgorato, lasciai la presa del sacchetto che tenevo nell’altra mano, mi chinai a raccoglierlo, confuso, sconvolto. Lei si abbassò con me. E prese la mia mano che cercava il sacchetto. La guardai. Gli occhi lucidi, si mordeva leggermente le labbra, come se trattenesse un’enorme pena nel cuore.

“Dimmi che è vero, Oscar, dimmi solo che è vero” mormorai.

Si avvicinò di più a me, accostando la sua fronte alla mia.

“Sì, io ti amo, André, te lo giuro.”

Chiusi gli occhi, rimanendo con lei così vicina a me.

Sentivo che le lacrime mi scendevano sulle guance, e per un istante non avevo parole da dire. Solo un’immensa gioia nel cuore. Che non riuscivo ad esprimere a parole. Lei avvicinò le sue labbra alle mie lacrime, come ad asciugarle, con il suo tocco lieve. Allora le mie labbra cercarono le sue, e le mie mani cercarono il suo volto e i suoi capelli subito dopo. Trovai le sue labbra e ci baciammo, mentre i suoi capelli lentamente si scioglievano sotto le mie mani, ricadendo sulle mie braccia. Continuavo a baciarla, mentre le sue braccia circondavano il mio corpo, scendevano sulle mie spalle, accostando il suo corpo al mio. L’abbracciai a mia volta, facendo scorrere il più delicatamente che potevo le mie mani sul corpo di lei, mentre lei mi accarezzava i capelli, con un gesto che avevo sognato migliaia di volte, ma che ora che era lì, che era reale, mi sembrò mille volte più bello. E cercò di nuovo le mie labbra e la strinsi di più a me. Le sfiorai il seno. Uno sguardo di lei, quasi di timore. Per me inspiegabile. Il mio sguardo incerto la fece separare per un istante da me.

“Scusami, è che io… è che per me è… una cosa… così… nuova…”

Il mio castello di supposizioni assurde, di tormenti, di feroci accuse, di sofferenze, crollava di fronte allo sguardo d’imbarazzo di lei, ad un intimità palesemente nuova. Mi sentii come svuotato da un peso enorme. E schiacciato, allo stesso tempo, dalla mia assurda stupidità. Caddi in ginocchio.

“Perdonami, Oscar, ti prego perdonami” le dissi, con la voce quasi soffocata, stringendo tra le braccia la gonna del suo vestito.

“André… che dici? Perché dovrei perdonarti? Perché?” disse, preoccupata. Alzai lo sguardo verso di lei, pieno di lacrime.

“Perdonami, perdonami, Oscar, io, io pensavo, credevo…”

“Cosa, André? Cosa?”, lo sguardo di lei, allarmato. Le sue mani a cercare le mie. Mi rialzai.

“Oscar… io credevo che tu… che tu fossi… diventata… l’amante di Fersen”

Si separò da me, mi voltò quasi le spalle, la vidi, ora le lacrime solcavano anche il suo volto. Poi si avvicinò, alzò il braccio come a darmi uno schiaffo. Chiusi gli occhi, aspettando di sentire il dolore sul mio viso, di ricevere lo schiaffo che meritavo, fino in fondo all’anima, se fosse stato possibile. Sentii la mia mano avvicinarsi al mio viso, ma al momento di colpirlo, quel suo atto si trasformò in una carezza. La più bella carezza che avessi mai ricevuto. Nella mia intera vita. Aprii gli occhi, nuovamente. Oscar mi guardava, piangendo:

“Era per questo che mi avevi seguito? Era per questo che volevi farmi del male quella notte?”, mi chiese, come aspettando, sperando quasi in una conferma.

“Sì”, dissi io, sconfitto, con il capo chino.

“Maledizione, André…”, si fermò. Vidi rabbia sul suo volto, poi una strana luce, come se la mia confessione in qualche modo avesse cambiato i suoi piani, si calmò, e riprese a parlare:

“Ascoltami: è vero, io ho amato Fersen, l’ho amato per molti anni, pur sapendo che questo mio sentimento per te sarebbe stato fonte di dolore. Perdonami, io non ho saputo evitarlo. Non mi sono accorta prima di quanto tu fossi importante per me. E ho cercato in un altro uomo quello che già avevo in te. Ho sognato da lui baci che dovevano essere i tuoi, e carezze, che avrei dovuto fare a te. Ho sbagliato, André. Questa è la mia colpa, non aver capito prima quanto tu fossi già nel mio cuore. Non aver accettato da subito il mio amore per te. Sei diverso da me, ma nell’anima io e te siamo una cosa sola, siamo uguali, e lo siamo da sempre. Questa è la verità che non accettavo. Come non accettavo l’idea di non poter stare senza di te, di non poter vivere senza di te. Eccomi, sono qui. Ora, in questa casa, in questa stanza.

Ora io sono come te, non perché entrambi indossiamo vestiti eleganti e i candelabri che ci illuminano sono d’argento, ma perché ti parlo con il cuore, con l’anima. E parlo al tuo cuore, e alla tua anima. E tu sai, André, quanto è difficile per me, parlare in questo modo. Voglio che tu mi ascolti, e che tu creda, con tutte le tue forze, a questo, solo a questo: io ti amo, André. E ti amerò sempre”.

L’abbracciai, forte, chiedendole perdono mille volte, sussurrandoglielo nelle orecchie, ma lei mi fece tacere, a forza di baci. La baciai, a mia volta, continuai a farlo, dicendole continuamente che l’amavo.

Poi cercammo una stanza dove poter fare l’amore. Per la prima volta. Seguivo i passi di lei, che avanzava nel buio, con un candelabro in una mano, guardandola, desiderandola come non mai, gustando ogni movimento del suo corpo. Finché non la trovammo. Chiudemmo la porta. Il nostro mondo, per tre giorni, sarebbe stato lì. La nostra felicità sarebbe stata lì. La felicità che trovai, in quei lunghi, brevi, meravigliosi tre giorni. Tra le braccia di lei. Nel suo corpo. Nel suo cuore. Nella sua anima.

 

 

Continua...

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