Il sospetto

parte quinta

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Nella mia vita di bettole ne avevo girate tante e quella dove mi portò Alain quella sera non era diversa da tante altre. Molte le avevo girate da quando l’avevo conosciuto, altre da solo, nei miei momenti di tristezza, di voglia di dimenticare. A volte invece con lei, con la mia Oscar.

Non avevo alcuna voglia di rifiutare l’invito di Alain. E non lo feci. Sedevo al bancone, avevo già bevuto quasi una bottiglia intera di vino. Non mi bastava più. E non era la prima volta che quella dose risultava insufficiente. Non bastava a stordirmi, quella volta più di tante altre, ora che sapevo per certo che Oscar era l’amante di quell’uomo.

E lo sguardo di Alain, così basso, così scuro, come preoccupato, e triste, non mi aiutava certo a non pensare alla mia situazione. Bel compagno di bevuta avevo trovato quella sera!

Quasi più triste di me. E non parlava. Il grosso, spavaldo Alain sembrava non avere il coraggio di rivolgermi la parola.

Lui che di parole me n’aveva dette tante… che mi aveva detto mille volte di lasciarla perdere, di smettere di farmi illusioni su di lei, era lì, accanto a me, senza dirmi niente, ma mi guardava, mi fissava, preoccupato.

Ruppi io il silenzio, quel silenzio tra di noi, che, nella confusione della bettola, mi sembrava molto più assordante di qualsiasi rumore. Ormai ero ubriaco.

 

“E bravo Alain, alla fine avevi ragione tu. Avevi proprio ragione tu, lo ammetto.”

“Cosa? André, cosa dici?”

La preoccupazione nei suoi occhi crebbe a dismisura.

“Lo sai benissimo, credi che io non mi sia accorto di niente?”

Sorpresa, stupore nei suoi occhi, poi, come rassegnazione nel tono della sua voce

«André… tu… allora tu sai?»

Persino lui lo sapeva. Dovevano proprio saperlo tutti, tranne me. Che stupido…

“Grandioso! Allora è diventata voce di popolo! Quanta altra gente lo sa? Già, credo di essere stato l’ultimo ad accorgersene, allora! Già, proprio un imbecille!”, dissi, alzando il tono della voce.

Alain da parte sua l’abbassò, come se non volesse farsi sentire, come se volesse che anche io abbassassi la mia. Come un segreto da mantenere. Ma per chi, se ormai anche io ne ero a conoscenza?.

“André… mi dispiace… davvero… io… so che è un brutto colpo per te… un colpo terribile…”

Ottimista. Mi sottovalutò.

“Tu non puoi immaginare quanto… no… non lo puoi immaginare…” gli risposi, stringendo i pugni.

“Ma ne hai parlato con lei?”

E a quale scopo?, pensavo.

“E a che servirebbe… no… lei non me l’ha detto…”

“Ma allora… come? Come hai saputo?”

Ora era sconcertato. Mi guardava come se non capisse. Provvidi a ragguagliarlo.

“L’ho scoperta, l’ho ascoltata mentre ne parlava.”

“Mi dispiace, mi dispiace davvero. Lei non voleva dirtelo, voleva risparmiarti un calvario simile.”

Già, il mio calvario, che lei, bontà sua, desiderava risparmiarmi. Lo aveva detto a Fersen. Evidentemente lo aveva detto anche a lui. Ma il mio vero calvario, quello di tutti gli anni passati accanto a lei senza che lei mi considerasse, quello non me l’aveva risparmiato. No, quella almeno non era colpa sua. Era mia. L’avevo scelto io quel calvario. E avevo continuato a sceglierlo, giorno dopo giorno, ferita dopo ferita, in attesa che lei si accorgesse di me. Inutile. Masochista.

Alain continuava a fissarmi.

“Che delicatezza… e a te, invece, l’ha detto spontaneamente?”

Sembrò ancora più spaventato, come se nascondesse qualcosa. La sua voce, quasi impercettibilmente, cominciò a tremare.

“André… mi dispiace… io… ti avevo visto uscire rapidamente dalla sua stanza… poi l’ho sentita piangere… André… tu sai che opinione terribile avessi di lei all’inizio… per me, lei non era capace di provare un qualsiasi sentimento, tanto meno di piangere, ma quando l’ho sentita così disperata… io… mi dispiace André, sono corso in quella stanza, l’ho trovata a terra, l’ho sollevata, piangeva, disperatamente… io…l’ho abbracciata…”

 

Mi alzai di scatto, non ricordo più cos’altro disse Alain. Forse stava tentando di giustificare il proprio comportamento, forse quello di lei. Non aveva importanza. Ero furioso. Oscar… tra le braccia di Alain. Tra le braccia di Fersen. Nelle braccia di chiunque. 

L’apice della mia follia. Afferrai Alain per il bavero, e mi resi conto dal suo sguardo che pensava di avere di fronte a sé un folle. Lasciai la presa, disgustato da lui. Disgustato dal mio stesso comportamento. Dalla mia inutile gelosia. Nauseato dal comportamento di lei. Non valeva la pena nemmeno di prenderlo a pugni.

E per che cosa poi?

Presi delle monete, le gettai con rabbia sul tavolo e me ne andai. Alain non mi seguì. E barcollando ripresi il mio cavallo. Dovevo rientrare in caserma. L’ultimo atto sano da compiere. E rientrai. Crollai addormentato sulla branda. Il vino aveva fatto il suo effetto.

Il giorno successivo, Alain non si avvicinò a me. Mi guardava, a distanza, come si studia un animale per capire come catturarlo. Ma ero una preda difficile. Ostentavo una finta tranquillità, che lo sconcertava. Nondimeno, lo spaventava. Perciò non si avvicinava a me. Per colpa di lei, avevo perso anche il mio unico vero amico. Che tristezza.

Divenni più taciturno che mai, scambiavo solo le poche parole che mi servivano alla sopravvivenza in caserma. Oscar era un miraggio lontano, anche se camminava a pochi metri da me.

Sembrava non guardarmi più nemmeno in volto. E una volta tanto, questo fatto mi rese felice.

O, almeno, apparentemente più tranquillo.

Finché Lassalle non venne da me, un pomeriggio.

“André, il comandante vuole vederti”.

Perché?, perché mai? Aveva forse saputo che io sapevo? E che senso avrebbe avuto parlarne?

Cosa voleva mai da me? Tutte domande che non potevo fare al povero Lassalle, che stava di fronte a me, semplice messaggero di una notizia quanto mai inaspettata, e, incredibilmente, sgradita. Così  gli dissi semplicemente che avevo capito, e mi diressi verso la sua stanza.

Davanti alla sua porta, fui tentato di tornare sui miei passi. Poi, immaginai la mia vendetta, io che la sorprendevo dicendole che sapevo tutto, anzi, che l’avevo sempre saputo. Avrei visto il suo volto sorpreso, chissà, forse le sue lacrime. Ma tante lacrime, in tutti quegli anni, avevo versato per lei… e dunque, in quel momento, le sue non mi avrebbero fatto alcun effetto. O almeno, lo speravo.

La rabbia lavorava a mio favore, in quel momento. A proteggermi dal male che lei poteva ancora farmi.

Bussai alla porta. Silenzio. Nessun rumore. Bussai di nuovo. Ancora un ostinato silenzio. Entrai. Lei non c’era. Faticai a mettere a fuoco l’immagine della stanza, vuota, senza di lei. Stavo per andarmene, quando vidi qualcosa sul tavolo che attirò la mia attenzione. Un pacco. Mi avvicinai. Forse un regalo di Fersen? Come era diventata sprovveduta, lasciare lì una cosa del genere…

Mi avvicinai. Sul pacco, molto grande, chiuso da un grosso fiocco azzurro, c’era una busta.

Con su scritto il mio nome.

La sua calligrafia, e il mio nome. Aprii la busta.

Doveva essere impazzita… a quale gioco voleva giocare? La odiai, ma lessi ugualmente il contenuto della lettera.

 

André, ho estrema necessità di vederti, e di parlarti, ed ho bisogno di farlo lontano da tutto e da tutti.

Se davvero mi hai voluto bene, ti prego, vieni questa sera a questo indirizzo. Lo conosci, in realtà. Ma ho bisogno che tu venga lì. E non deve saperlo nessuno. Nessuno.

Il permesso per questa notte è nella scatola, insieme con il resto.

Ti aspetterò, dopo le otto.

Oscar

 

Accartocciai con rabbia il foglio. L’indirizzo lo conoscevo, certo, la casa di una delle sue sorelle. Aveva bisogno di un posto simile per dirmi che amava un altro?

Considerai quanto fosse stupido e infantile, il suo segreto.

Aprii il grande pacco, e, con sorpresa, sotto il foglio di permesso, c’era un vestito.

Un vestito da sera, adatto per un nobile, elegante ma non sfarzoso. Lo tirai fuori. Sembrava fatto per me. Lo era, come scoprii dal foglio che lei aveva nascosto tra i pantaloni e la giacca. Mi chiedeva di indossarlo per quella sera. Nel foglio si parlava di un altro oggetto, che trovai.

In fondo alla scatola c’era un sacchettino di velluto rosso. Lo aprii. Un orecchino d’oro. Qualcosa che avevo già visto. Ma in quel momento non lo ricordavo.

Aprii il foglio di permesso a mio nome. Era un permesso di tre giorni. Un tempo assurdo per quello che lei doveva dirmi. Fuori luogo. Assurdo come il vestito, il luogo dell’appuntamento, come l’orecchino, che lei mi chiedeva di portare con me quella sera. Mi sedetti, confuso.

Non sapevo più cosa pensare. Quale assurda messinscena aveva ideato?.

Terribile scoprire dopo tanti anni quanto fosse diversa dalla realtà, la donna che avevo amato con tutto me stesso, per la quale avevo sacrificato tutto. Eppure, per qualche recondito motivo, la trappola che lei aveva ordito era già scattata.

Se davvero mi hai voluto bene…

Come osava anche solo dirla una cosa del genere, a me, che l’avevo amata così tanto?. Non osare sfidarmi, Oscar. Non lo fare, pensavo.

Eppure, quelle parole si ripetevano nella mia mente, mentre ripiegavo quei vestiti nella scatola. Ossessive.

Se davvero… se davvero…

Maledizione, sì che ti ho voluto bene, sì, tu lo sai, tu lo sai quanto ti ho amato, quanto ho sofferto per te!. Vuoi giocare? Giochiamo. Ma questo gioco finirà per non piacerti, te lo giuro.

 

Mi sbagliavo. Non avrei mai più dimenticato quel gioco, e quella sera. E lei.

 

 

Continua...

mail to: f.camelio@libero.it

 

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