Il sospetto

parte quarta

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Un nuovo giorno di prigionia. Un nuovo capitolo della mia follia. Nuovi giorni di prigionia. Nemmeno un’ora d’aria avevo avuto. Perché non era durato che pochi minuti. Pochi minuti in cui avevo stretto Oscar tra le mie braccia. Pochi minuti in cui le sue labbra avevano cercato e trovato le mie. Pochi minuti di follia negli occhi, nei gesti, nel comportamento di lei, e, contemporaneamente, pochi minuti di sanità mentale, di grazia, per me.

Un momentaneo sollievo alla mia pena, che aveva lasciato il posto allo stupore prima e all’eccitazione subito dopo. Era mia, era stata mia, per un istante. Nel corpo, e lo sentivo d’istinto, anche nell’anima.

Poi, però, il mio carceriere si era accorto di lei, di me, di noi. 

Peccato.

Aveva visto la passione negli occhi di lei, aveva sentito il suo respiro farsi corto. Aveva visto quello che io non riuscivo a vedere in lei. Aveva percepito la mia passione, il tentativo estremo di credere in quell’amore che lei sembrava offrirmi, sotto la pioggia.

Ci punì, allora, per tutto questo. Punì me, perché lei era innocente. Io ero sporco. E me la portò via, nel buio, nella pioggia, nelle gocce di sangue che mi erano uscite dalla bocca dopo avere subito, con sollievo quasi, un pugno di Oscar.

Lei se n’era andata. Io ero solo, come mai ero stato. A farmi compagnia, solo il mio desiderio di lei[i]. Consolatorio, forse. Inutile, sicuramente. Poi anche quello svanì. Ora ero davvero solo.

La mia compagna, nella notte, mentre rientravo a casa, fu invece la mia gelosia, come ogni notte, fedele ad ogni appuntamento. Anche a quelli che non le davo affatto.

Mi instillò, uno dopo l’altro, ogni possibile dubbio sul comportamento di Oscar.

E il ricordo del bacio di Oscar, del calore del suo corpo, si confuse fino a diventare un tutt’uno con i miei sospetti e le mie atroci supposizioni su di lei.

E al mattino fu come se Oscar non si fosse mai avvicinata a me. Sicuramente, fu la mia brillante conclusione, si era avvicinata a me per altri scopi.  Sicuramente, non  per amore.

Per coprire la sua relazione con Fersen, probabilmente, ma questa ipotesi mi sembrò, a tratti, persino banale. Un’altra ipotesi si faceva strada, nella mia mente: quella che, forse, quel bacio rappresentava per Oscar solo una vendetta. Verso di me, che quasi l’avevo violentata.

In fondo, qual è il modo migliore per uccidere un uomo che digiuna da tempo?

Non certo sottrargli il nutrimento. Perché al digiuno, come alla sofferenza, ci si abitua, dopo un po’. Il corpo si abitua, alleato nella rinuncia.

E io mi ero abituato da anni a non averla.

Ma quando, improvvisamente, una ricca tavola imbandita appare a chi, da troppo, rinuncia al cibo, allora egli può anche morirne, perché non è più abituato a quell’abbondanza.

Così lei era stata per me. Il bacio di Oscar, le sue braccia che mi stringevano a sé, la sensazione dei suoi seni, finalmente, contro il mio petto, del suo corpo intero sul mio, erano stati il colpo di grazia al mio corpo, al mio spirito.

Stavo morendo, dell’improvviso amore di lei.

Ero già morto, in realtà, a causa della mia gelosia verso di lei.

E così andai a cercarla per parlarle.

Mi evitò per tutto il giorno, in caserma, e non soltanto adducendo scuse per non parlarmi.

Mi evitavano soprattutto i suoi occhi. Ma, all’improvviso, durante le esercitazioni, scoprii i suoi occhi, che mi fissavano. Guardava me, in mezzo a tanti. Non seppi decifrare il significato di quello sguardo, all’inizio. Poi capii. Percepii il suo senso di vergogna, la sua sensazione di sentirsi colpevole, sporca. Sbagliai, nuovamente. Mi cadde la baionetta dalle mani. Mi chinai, confuso, a raccoglierla. Solo una cosa sporca ero stato per lei, mi ripetevo, e quella stupida baionetta mi sembrò così pesante da raccogliere. Desiderai di morire.

Ma, quando si sta per morire, l’istinto di sopravvivenza spinge a respirare più forte, a tentare di allontanare, inutilmente, disperatamente, la morte. Così, mezz’ora dopo, bussai alla porta del suo ufficio.

Un attimo di defaillance nella sua difesa. Non chiese chi fosse. Entrai. Alzò lo sguardo su di me un solo istante. Poi lo vidi fuggire sui suoi fogli. Vidi che, con un leggero tremito, aveva ripreso la sua penna in mano.

“Oscar, noi dovremmo parlare.”

Silenzio. Sentivo di aver pronunciato esattamente le parole peggiori che avrei potuto dirle. Attesi la risposta. Non tardò.

“No, non credo.”

“Io penso invece che dovremmo.”

Si voltò. Rabbiosa.

“Cosa dovremmo dirci, ora? Non voglio le tue scuse, André. Non voglio perdonarti, stavolta.”

Aveva sottolineato quell’ultima parola, a ragione. Era stata la mia incapacità di controllarmi, di controllare la mia passione verso di lei la mia colpa. Ed era successo ancora.

Ero colpevole, in effetti. E, per difendermi, la attaccai.

“Io, invece, ho mille cose da dirti, e almeno una da chiederti!”

Fintamente spavalda era stata quest’ultima mia frase. Dentro, invece, morivo di paura che lei mi dicesse che l’aveva fatto solo per vendetta.

Morivo dalla voglia di abbracciarla di nuovo. Di sentirla tra le mie braccia. Mi sconvolse, in quel momento, l’improvvisa consapevolezza che avrei accettato di essere ingannato da lei, anche di sapere di essere tradito da lei, pur di averla tra le mie braccia, di nuovo. Avevo perso ogni rispetto per me stesso. Avevo perso ogni rispetto per lei. Questo era il vero problema.

“Non mi interessano le tue spiegazioni, quali esse siano. Non le voglio sentire. Io voglio solo che tu mi lasci in pace. Te ne prego, André…”

Ti prego. Non l’aveva mai detto. Nemmeno quando stavo per farle del male. Non l’aveva detto mai di fronte a nessuno. Era sempre stata forte, coraggiosa, non sembrava avere paura di niente. Di nessuno. Ma io, solamente io, realmente, potevo farle del male. E gliene avevo già  fatto.

E lei aveva lasciato che glielo facessi. Povero amore mio. Aveva lasciato che io la ferissi, pur di non perdermi. E mi bastava così poco per farle del male.

Sentii che se mi fossi avvicinato a lei, in quel momento, si sarebbe lasciata toccare da me, ferire, da me. Nuovamente. Non capivo il perché, allora. Un perfetto idiota.

Se io l’avessi capita, in quel momento tutto sarebbe stato diverso. L’avrei resa felice. Sarei stato felice. Invece, uscii dalla sua stanza. Mi allontanai. E non la sentii correre all’improvviso verso la porta. Non vidi le sue mani appoggiarsi alla porta chiusa, come si sarebbero appoggiate al mio petto. Non sentii né le sue lacrime, né la sua voce ripetere nel pianto il mio nome. Non la vidi cercare, nell’abbraccio in cui si stringeva, le mie braccia. Se fossi rimasto lì, solo qualche minuto, avrei saputo la verità. Avrei saputo la reale causa della mia sofferenza, della sua sofferenza. Ma ero andato via.

Fu un altro a sentire quel pianto. Ad aprire quella porta chiusa. A prenderla tra le braccia. A stringerla. E a conoscere la verità. Prima di me. Al posto mio.

 

La sera successiva la vidi congedarsi in fretta dai soldati. Andava a casa. Io avevo qualche ora di libera uscita. Alain mi propose di andare con lui e altri a bere. Io avevo un solo pensiero: sapere perché tornava a casa. Avevo un solo nome per la testa: Fersen. Ero sicuro che avesse a che fare con lui.

Ma la cosa che più mi sconcertò, fu scoprire che avevo ragione.

Una carrozza dallo stemma fin troppo conosciuto venne a prenderla, e lo vidi scendere dalla carrozza per aiutarla a salirvi.

Non si era curata di nasconderlo. Andava via con lui. E andava a casa, lo sentivo.

La loro relazione doveva essere andata molto avanti, se rientravano a palazzo Jarjayes insieme.

Il loro legame doveva essere diventato molto forte, se non lo nascondeva più nemmeno a me.

O, forse, non valeva nemmeno la pena che io fossi la vittima di una sua finzione.

Che io fossi ingannato. Erano lì, insieme, nel cortile della caserma, di fronte al mondo.

Soprattutto di fronte a me, in realtà. E lei sapeva bene quanto l’amassi. Non potevo più, davvero, augurarmi la sua felicità. Parole facili, le mie, quelle che avevo pensato per anni, finché non avevo visto la sua mano prendere quella di lei. Finii per insultarla, nel mio cuore. E l’amai disperatamente, allo stesso tempo. La seguii a casa, non appena mi fu possibile.

 

Quando arrivai, mi accorsi che la maggior parte dei domestici si era ritirata per la notte. Scoprii che i due amanti non avevano cenato. Con il cuore pesante, andai alla stanza di lei. Dopo mille esitazioni, bussai. Non erano lì, scoprii con malcelato sollievo. Andai allora nel salottino. Tante volte avevamo passato lì le nostre serate. Le serate con Fersen. La porta era chiusa. Sentii le loro voci. Erano lì. Soli. La mano mi tremava mentre l’appoggiavo sulla maniglia per aprire la porta. La voce di Fersen mi bloccò.[ii]

“Oscar, credo che questa finzione, che questa commedia, debba finire. Ora, adesso. Non posso più sopportarlo.”

Trattenni il respiro. Le mie paure acquistavano una forma reale. Ma, come chi ha subito un brutto colpo, mi sembrò quasi che non mi avesse fatto nulla.[iii] E, invece, vacillavo.

“No, Axel, ti prego, no.”

“Oscar, io credo che lui debba sapere. Non possiamo più andare avanti così. Almeno, io non posso.”

Il secondo colpo mi fece sperare, follemente, che non parlassero di me. Pensavo, speravo.

Si riferivano al generale, forse? Ultima speranza. Frantumata da una voce che non chiedeva altro che di poter piangere. La voce di lei.

“No, André non lo deve sapere, per nessuna ragione al mondo.”

Eccolo, il terzo colpo. Quello che mi fece sanguinare. Violentemente. Il mio sospetto ora era certezza.

Matematica certezza.

Dolorosa certezza.

Pensavo: non darti pena, Oscar, io so tutto, l’ho sempre saputo, stupido che sono. E ora vuoi che il tuo amante sia anche il tuo complice. Precauzione inutile. Non darti pena per me.

“Oscar, se non glielo dici tu, glielo dirò io, io non sopporterei di guardarlo negli occhi sapendo di nascondergli una cosa simile.”

“Non lo farai, Axel, tu non lo farai. Io non te lo permetto. Sarebbe un dolore per lui. E gliene ho già dati tanti, di dolori, di dispiaceri. Troppi, per poter sopportare anche questo. André non lo saprà mai.”

No, pensavo, no, Oscar, il dolore più grande me l’hai dato ieri sera, quando per un istante ti avevo creduto innamorata di me. No, non c’è peggior dolore possibile per me. Questo è tutto. Basta.

Mi allontanai dalla porta. Non aveva più senso stare lì. Era finita. E, forse, pensai quasi con sollievo, era finita anche la mia prigionia, ora che sapevo, che credevo di sapere la verità. Non avevo più né dubbi, né sospetti. Forse, con il tempo, non avrei più provato nemmeno gelosia per lei. Me ne andai, unico mio scopo raggiungere Parigi. Non piangevo. Non mi riusciva nemmeno quello. Volevo solo stordirmi con l’alcool. Nient’altro. Fuori da palazzo Jarjayes, sorprendentemente, qualcuno mi aveva seguito. E mi aspettava. Era Alain. Mi disse, semplicemente: “Vieni con me.”

 

Continua...

mail to: f.camelio@libero.it

 

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[i] Devo ringraziare Laura per avermi aiutato a riflettere su questa scena e ad avermi spinto a modificare una prima stesura decisamente non riuscita, con un André troppo sopra le righe.  ^_^.

[ii] Tutta la scena che segue rappresenta un escamotage classico, il cui esempio più riuscito rimane sempre il bellissimo “Cime Tempestose” di Emily Brontë.

[iii]  La sequenza è liberamente ispirata dal refrain di una vecchia canzone dei Propaganda, “Duel”. “The first cut, won’t hurt at all, the second only makes you wonder, the third will leave you on your knees, you start bleeding , I start screaming”.