Il sospetto

parte terza

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Non avrei mai pensato che sarei stato capace di una cosa del genere. No, davvero. Non  avrei mai pensato che lei potesse arrivare a tanto. No. Non lei. Non avrei mai pensato che noi due potessimo arrivare a tanto. Eppure, quella notte, tutto sembrava maledettamente possibile. Di più, sembrava probabile, dolorosamente probabile. Possibile il mio sospetto, naturale la mia follia, giustificate le mie azioni, assurda la sua reazione. Sì, tutto era possibile, quella notte. Anche l’impensabile.

A mente fredda, ora, ragiono sul significato di quella notte.

 

Potevi parlarle, potevi chiederle spiegazioni.

Logico, razionale. Sicuramente la cosa più naturale da fare in quella circostanza. Ma chi, quando ama, è razionale? Chi può comportarsi in modo logico quando il cuore ti brucia, dentro? Io non ci riuscii, quella sera. Ero pieno, come saturo delle emozioni che mi portavo dentro, delle frustrazioni che da tempo non sopportavo più. Quell’insieme di gelosia, rabbia, di invidia, di tristezza, di passione, di desiderio. Così, quella notte non riuscivo a pensare a parole da dirle, a domande da farle. Perché le risposte le conoscevo già. Me le ero già date da solo, molto prima di raggiungerla, molto prima di trovarmi di fronte a lei.

 

Avresti potuto ascoltarla

E perché mai? Perché avrei dovuto ascoltarla, se ero assolutamente convinto che solo bugie, solo menzogne mi avrebbe detto? Avevo già calcolato ogni sua possibile risposta. E per ognuna di queste, come un cacciatore, avevo disseminato tagliole. Per ferirla. Per catturarla. Per ucciderla.

La mia preda.

Ero sicuro che mi avrebbe nascosto la verità. Per pietà di me, perché sa quanto io la amo. Per paura di me, per lo stesso motivo. Ti sbagliavi, Oscar. Quella notte, invero, non ti amavo così tanto. Forse, per nulla.

Per ogni tua menzogna era stato previsto un mio attacco, una mia violenza nei tuoi confronti.

Perché ero io in realtà e non tu, l’animale braccato, nel bosco, di notte, che al buio non avrebbe potuto mai vedere le tagliole che erano state preparate lì. Da me stesso. Per ferirmi. E scattarono, puntualmente, al mio passaggio.

 

Avresti dovuto controllarti! 

Davvero? Era tanto tempo che non riuscivo più a farlo. Cattiva volontà, o disperazione, per me era equivalente. Io non potevo più controllarmi di fronte a lei. Non potevo controllarmi all’idea che lui fosse potuto veramente diventare il suo amante. Sono un meschino, io.

Ho passato tutta una vita ad essere suo amico, il suo migliore amico, il suo unico amico. Presuntuoso. Egoista. Vigliacco. Ma ora che la mia “migliore amica”, la mia unica amica trovava forse un po’ di felicità, non soltanto io non gioivo per lei, non ero affatto contento per lei. Volevo che lei continuasse ad essere infelice. Come me. Un vero amico, davvero… Avrei voluto io schiaffeggiarla, ferirla. E buttarmi ai suoi piedi, e pregarla in ginocchio di amare me, solo me, per sempre… me.

Egoista. Continuavo a ripetermi che avrebbe dovuto amare me perché solo io avrei potuto renderla felice. Perché solo io la conoscevo così bene e così a fondo da poterla rendere felice. Mi sbagliavo. Ero io che volevo che lei mi rendesse felice. Per me stesso. Mentivo. Lei doveva amare me perché io non potevo vivere senza di lei, perché nessun’altra donna avrebbe potuto rendermi felice. Doveva amarmi, per saziare il mio egoismo.

E non mi resi conto di quanto lei, in realtà, mi amasse.

 

Povero André…

Basta! Ero stufo di sentire questo ritornello, di sentirlo dalle labbra di mia nonna, nel sorriso triste di Alain, nel fondo della bottiglia, sempre più vuota. Di vederlo dipinto negli occhi di Oscar. Anche quando pensavo di sentirmi meno triste, meno infelice, meno innamorato, erano gli altri a ricordarmi il mio amore, il mio dolore. Il mio eternamente immutabile ruolo di innamorato non corrisposto. Rabbia. Tanta rabbia.

Non sopportavo più quegli sguardi, quelle parole, quei sospiri intorno a me.  Quella notte la misura era colma.

Sapevo che sarebbe uscita. Ero sicuro che l’avrebbe incontrato. Ero sicuro che sarebbe rimasta con lui. Nella sua casa a Parigi. Per quanto tempo? Quanto tempo dura un incontro tra due amanti? Avrei aspettato tutto il tempo necessario, per vederla uscire da quella casa. Eppure, avrei potuto fermarla. Non l’ho fatto. Avrei potuto impedire che lo incontrasse, quella sera. Una scusa, un’invenzione qualsiasi e lei avrebbe rinunciato ad uscire. Non l’ho fatto. Perché io volevo soffrire, perché io volevo sapere, fino in fondo, cosa significa tradimento. Così mi preparai a seguirla. A seguirla dal suo amante.

 

Nel salone, dall’unico punto in cui sapevo sarebbe dovuta per forza passare. Nel buio, aspettai di vederla uscire. La immaginavo, fantasticavo di lei, avvolta in un mantello scuro, la seta del suo vestito, più chiara, che ad ogni suo passo sarebbe spuntata da quel mantello, per tornare a celarsi al mio sguardo un istante dopo. Immaginai i suoi movimenti, il suo profumo, i suoi capelli pettinati come quella sera del ballo. Per lui, sempre per lui. Ma stavolta non sarei rimasto a casa. Stavolta andavo con lei. Non per ballare con lei, non per stringerla tra le mie braccia. Non per baciarla. Non per fare l’amore con lei.

Per costringerla a rivelarmi la verità. Quella che già conoscevo, quella che immaginavo, quella che ero già sicuro di sapere.

Avrei potuto bere del vino. Il mio vizio ormai, la mia consolazione apparente, già da un po’ di tempo. Mi avrebbe stordito. Mi avrebbe consentito di apparire ai suoi occhi solo come un ubriaco. Di nuovo, la sua pietà. No, mai più la sua pietà. Piuttosto il suo odio. Sì, sarebbe stato meglio. Della pietà, della pena si può fare a meno, è leggera, evanescente. Dell’odio, quando arriva, non si può fare più a meno. Come dell’amore. Ti riempie la mente, come l’amore. Sì, meglio il suo odio che la sua pietà, della sua finta sofferenza, della sua reale indifferenza verso di me. Desiderai che lei mi odiasse.

Volevo apparire per quello che ero. Stupido, violento, tremendamente disperato. Non volevo la sua pietà. Non avrei avuto io pietà per lei.

E non mi accorsi che lei non aveva mai avuto pietà di me.

 

La porta della sua camera si chiuse.

 

Prima sorpresa.

Nessun vestito di seta quella notte. Nessun merletto, nessun pizzo, niente trucco né riccioli a incorniciare il suo volto. Solo la sua uniforme, addosso. E il mantello a coprirla dalla pioggia che cadeva dietro ai vetri delle finestre. La vidi muoversi velocemente nel salone, non si accorse di me.

Un lampo. La stanza si illuminò per un momento. Si voltò. Mi vide. Non riuscii a mettere a fuoco il suo sguardo. Mi parve confusa. Non dissi niente. Non disse niente. Si allontanò. La sentii discendere gli scalini all’esterno della casa. La guardai salire a cavallo e andarsene.

Sapevo dove lui abitava. Poi la seguii.

Il rumore della pioggia, forte, e il vantaggio che le avevo dato non le consentì di accorgersi che la stavo seguendo. Un piano perfetto, il mio.

D'altronde, per definizione, gli amanti sono troppo distratti a pensare a cercarsi, a trovarsi, a toccarsi. Sono troppo distratti a pensare ad essere felici, a vivere la loro passione, a bruciare insieme nell’atto d’amore, dimentichi in quegli istanti del mondo intero intorno alle pareti della stanza, per accorgersi che qualcuno, nell’ombra, vuole, desidera la loro infelicità.  

 

Seconda Sorpresa  

Non ci mise molto per uscire, in effetti, forse solo una mezz’ora. Ma non la vidi uscire dal cancello della casa di lui. La vidi spuntare da una via laterale. Una precauzione inutile mi dissi. In fondo a chi mai avrebbero dovuto nascondere una relazione che sarebbe stata lecita per gli occhi del mondo?

A me. Fu la risposta che mi attraversò la mente. Furba, ma non geniale, la mia amata Oscar. Forse, se io non fossi stato visto da lei nel salone nemmeno quel tipo di accortezza avrebbe avuto. Come sei pietosa, mi dissi, vuoi risparmiarmi l’umiliazione completa? Fatica inutile. Non ti ringrazierò, per questo. Io non sarò così buono e pietoso con te, amore mio. E non lo fui, in effetti.

 

Terza Sorpresa

Quando me la trovai di fronte, un istante prima che sollevasse gli occhi, che mi riconoscesse, mi resi conto che aveva pianto.

Per chi? A causa di chi? Lui?  Il nobile Fersen ti fa soffrire?, pensai, cosa ti aspettavi, che ti amasse davvero? Che la regina fosse scomparsa totalmente dalla sua vita? Povera illusa…

Ma nemmeno le sue lacrime mi fermarono, così alzò gli occhi, e mi vide.

 

“André… cosa… cosa ci fai qui?”

Il suo sguardo, misto di stupore, di sorpresa, di tristezza, di sottile timore.

 

“Dovrei essere io a chiederti la stessa cosa, in effetti. Non ti affannare a rispondermi. Lo so già”.

La guardavo, sprezzante. Evidente sarcasmo, nelle mie parole.

Sorpresa, quasi spavento nel suo sguardo. Lo spavento di chi si rende conto che il suo segreto è stato rivelato. Silenzio. Poi, come un lieve sospiro. Come se fosse subentrato il sollievo di non doverlo più mantenere, quel segreto. Come una via di fuga, che io stesso, ingenuamente, le avevo offerto. Io che divenivo ora suo complice. E smettevo di nuovo di essere un uomo, un uomo innamorato, per tornare ad essere il suo amico. Il suo confidente. La trappola era scattata. Il mio piede era stretto dalle lame aguzze della tagliola. Sanguinavo. 

 

“André… mi dispiace… che tu sia venuto a saperlo così… allora… sai anche che non puoi più restarmi accanto… perdonami…”

Fece un passo per allontanarsi, per scansarmi, per raggiungere il suo cavallo e perdersi sotto la pioggia battente, per andare via da me. Per sempre. E non ci sarebbero stati appelli, stavolta. Lo sentivo. Le lame della tagliola straziavano la mia carne, mentre tentavo di divincolarmi dalla presa.  Impazzii. Il dolore era insopportabile.

 

La afferrai, con violenza. La trascinai, strattonandola, in un angolo buio.

La pioggia cadeva forte, e finì per coprire le sue grida, mentre mi chiedeva di lasciarla andare.

Avevo il suo viso a pochi centimetri dal mio ora, bagnato con violenza come il mio dalla pioggia, mentre il suo corpo era schiacciato alla parete di una casa, i polsi bloccati dalla stretta delle mie mani. Avevo giurato che non le avrei mai fatto una cosa del genere. Avevo spergiurato che non le avrei più fatto male. E invece ero di nuovo lì, su di lei. A usarle violenza. Di nuovo il suo sguardo terrorizzato. Di più, c’era nei suoi occhi la consapevolezza di quello che sarebbe avvenuto. Una storia che già conosceva. Un finale scontato, terribile, inevitabile.

Nei suoi occhi c’era la consapevolezza che niente mi avrebbe fermato, stavolta.

Tranne quello che fece. 

 

La baciai, mentre lei tentava disperatamente di ribellarsi a quel bacio, mentre lei tentava di spostare le mie labbra dalle sue. La baciai ancora, con più rabbia, mentre lei tentava ancora di respingerlo, quel bacio. Spostò la testa di lato, come in segno di dolorosissima resa, aspettando la mia inevitabile violenza. Era lì, si arrendeva. Di nuovo, come quella sera. Non era più lei. Non ero più io. Le urlai in faccia.

 

Perché mi hai ingannato? Perché?

 

Mi guardò allora, con uno sguardo che ancora non conoscevo di lei, qualcosa che non riuscii a definire, qualcosa che non feci in tempo a definire, perché vidi i suoi occhi chiudersi, le sue labbra avvicinarsi alle mie, cercare e trovare le mie labbra, sfiorarle dolcemente, quasi timidamente. Mi stava baciando. Oscar, lei, sì, lei ora mi stava baciando. Non capii più nulla, solo l’improvviso calore che mi prendeva il corpo, il petto, l’anima. Oscar teneva ancora le sue labbra sulle mie. Ricambiai il suo bacio allora, nello stesso modo dolce in cui lei me lo stava dando. Ero completamente perso nelle sue labbra. Completamente perso. Per un tempo che mi sembrò meravigliosamente infinito.

La spinsi a rendere più profondo il suo bacio, lei ricambiò. Il mio petto sul suo, confondevo l’aumentare dei battiti del suo cuore con quelli del mio che ormai era impazzito. Lasciai la presa dei suoi polsi per abbracciarla, per stringerla a me, ma senza forza, senza più alcuna violenza. Lei mi seguì in quell’abbraccio. Le accarezzai i capelli bagnati. Poi lei, lentamente, si separò da me. La lasciai anch’io, come se seguissi il suo comando, la sua volontà, non più la mia.

Di nuovo appoggiata sul muro, mi guardava. Lacrime nei suoi occhi. E all’improvviso vidi dolore e rabbia nel suo sguardo. Vidi la ferita aperta nel suo animo da quella notte in cui era successa la stessa cosa, aveva subito da me la stessa violenza. Ora la sua rabbia era incontenibile, mentre la mia era stata stordita, soffocata, almeno momentaneamente, dal suo bacio, dal suo abbraccio. Col senno di poi, potrei dire che quasi desideravo di essere punito da lei. Masochista. L’espiazione del mio peccato. Ero pronto per questo. Era pronta per questo. Ma non ad assolvermi, dopo. Vidi le sue mani chiudersi rapidamente a pugno. Il primo che sentii mi arrivò dritto allo stomaco, inaspettato, dolorosissimo. Mi piegai per il dolore. Poi me ne arrivò una serie in pieno volto. Non riuscii a reagire, non volli reagire. Lei doveva punirmi, volevo che lo facesse. Speravo in una sua assoluzione, in un suo bacio, in un suo abbraccio, dopo che lei avesse esaurito il suo compito. Dopo che lei avesse esaurito il suo dolore, il suo spavento, la sua umiliazione, quella che le avevo inflitto  già due volte.

Un suo pugno mi fece vacillare e cadere per terra. Mi voltai a guardarla. Ansimava, per la fatica, gli occhi di nuovo bagnati dalle lacrime.

“Perdonami”, le dissi con tutta la mia anima, sperando ancora nella sua assoluzione.

Ma non ci fu assoluzione per me, quella notte. Si allontanò velocemente, senza voltarsi a guardarmi, recuperò il suo cavallo e sparì tra le vie di Parigi.

Rimasi lì, più confuso che mai, tra il dolore del mio corpo e il ricordo del suo bacio.

 

 

Continua...

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