Davanti alla porta del destino

parte prima

 

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Sono seduto su questa poltrona, che da bambini facevamo a gara a colpire con le nostre spade immaginando che si trattasse di un drago a guardia di un immaginario castello, nel salone dove ci siamo rincorsi a perdifiato, mentre il mio sguardo si dirige verso le cucine dove mia nonna prepara la cena, come sempre.

 

Ti penso anche se mi sei di fronte.

 

Non ricordo nulla di me.

 

Il mio diario è una sequenza ininterrotta di parole uguali, comuni, che di notte scrivo nel mio cuore sperando che il giorno seguente prendano vita nei nostri corpi.

 

E come Penelope disfo ogni giorno ciò che faccio di notte.

 

“Sono felice di essere stato ferito io all’ occhio e non tu, credimi Oscar”: te l’ho ho detto l’ altro giorno mentre distinguevo a fatica i tratti del tuo viso e mi rispondevi con lo sguardo lucente di chi è emozionato per qualcosa di indefinito, come se volessi sorridermi senza trovarne il coraggio perché le mie parole devono averti turbato, dal momento che rischio la cecità completa per essermi travestito da cavaliere nero. Non riesco a seguire un filo nei miei pensieri, la mia anima è intrappolata in un buio avvolgente e strisciante come spirali di nebbia che si condensano sulla terra.

 

So che ti senti in colpa.

 

Lo avverto dal tuo respiro accelerato, dai silenzi improvvisi che seguono i lunghi discorsi che fai per tenere impegnata la mia mente, perché credi davvero che mi importi di Versailles, dei sovrani, dei pettegolezzi delle dame.

O perché vuoi credere che sia così ingannando te stessa e ubriacando la mia coscienza di frasi vuote. So che quando parli troppo cerchi di distogliere la mia attenzione da te ma non sei brava, amore mio, ad ingannare gli altri, perché lo fai quotidianamente con te stessa.

Quando ti accorgi che il tuo cuore disconosce per primo ciò che le tue labbra pronunciano ti chiudi in un mutismo che però mi sottrae la più dolce delle consolazioni, quella di essere accarezzato dalla tua voce. Riempi ancora la tazza di porcellana, lasciando che i pensieri si dissolvano nelle volute di fumo che si sollevano dalla pregiata miscela di cioccolato, ordinata apposta per te, che la nonna rifiuta di far preparare dalle cameriere dedicandovisi ella stessa da anni. E’ un rito antico che consacra il vostro legame di amore infinito, lo sai che mia nonna farebbe qualsiasi cosa per te.

 

Si vede che è un vizio di famiglia.

 

Mi racconti di come il Delfino si sia ammalato perché ha giocato per ore con gli specchi d’ acqua di Versailles, le fontane di Apollo e Diana, di come tuo padre abbia sventato un attentato al duca di Brissac ai confini, delle “avances” persistenti che ti rivolge la giovane marchesa di Lauzun.Vuoi colmare il silenzio che è calato da un po’ di tempo tra di noi perché ormai sono giorni che l’ imbarazzo tinge di nero la nostra amicizia.

 

Il mio animo urla, Oscar, ma tu non vuoi sentirlo, ignori i moti dei nostri cuori.

Forse hai ragione tu, amore mio, forse è meglio continuare a parlare distogliendo l’ attenzione da noi.

 

Versami ancora un po’ di cioccolato.

 

Parla pure e raccontami tutto ciò che ti viene in mente. Ecco, ora l’ occhio ricomincia a farmi male non appena hai pronunciato il suo nome.

 

Casualmente e distrattamente, secondo te.

 

Intenzionalmente, secondo me. Per dare inconsciamente un po’ di ristoro alla tua anima e consentire al tuo fedele amico di consolarti, seppure rifiutandoti di ammetterlo, come sempre. Distogli in fretta il tuo sguardo dalla finestra, da dove osservi il vento del nord affievolirsi in mulinelli di terriccio che turbano la perfezione del parco, conferendogli l’aspetto caratteristico dei giardini in inverno, quando gli alberi stagliano i loro scheletrici rami verso il cielo in una muta invocazione della primavera. Come sempre, quando guardi oltre i vetri, mi dai le spalle, stavolta perché non vuoi che veda il rossore soffuso sulle tue guance pallide, non sei abbastanza svelta da impedire al mio sguardo offuscato ma attento a leggere in te, di cogliere la tua reazione.

In genere guardi fuori dal tuo palazzo quando sei pensierosa, e io ti guardo perché sei così bella quando cerchi di cogliere frammenti di quell’umanità che vive, gioisce, soffre mentre le tue ali, amore, sono state tarpate.

 

Apparentemente.

 

E’ inutile.

 

Oscar, hai la tempra, l’ essenza, degli antichi eroi omerici, belli e buoni.

 

Ma dimentichi che gli eroi erano anche uomini mortali, dopotutto Achille non era invulnerabile ed è stata la sua unica debolezza a tradirlo ma, proprio per questo, appare struggente nella sua grandezza. E’ proprio la sua debolezza di uomo a contaminare l’aura dell’eroe rendendolo vero, umano.

 

Forse il vero coraggio è la consapevolezza di non dimenticarsi di se stessi, è la capacità di non immaginarsi diversi. Percepisco l’ inquietudine che ti invade.

 

Hai inseguito chimere per tutta la vita forgiando dentro la tua anima idoli ghignanti che pretendono tributi ogni giorno sempre più pesanti, tributi che il tuo cuore ed il tuo corpo pagano quotidianamente in cambio di un po’ della tua anima.

Continua a parlarmi della regina, delle dame sciocche, di pettegolezzi di corte ma, ti prego, non parlare di Fersen.

Le tenebre incalzano, le ombre succedono al crepuscolo, cala l’ennesima cortina di silenzio tra di noi. Una notte nera e cupa si stende sulla terra ingoiando i suoni vitali del giorno ed il luminescente azzurro del cielo è un ricordo dei miei sensi ormai spossati da ore di insonnia e malessere. Il giorno e la notte sono realtà incompatibili, eppure l’uno senza l’altra non può esistere, vivono parallelamente.

 

Parlami.

 

Non lasciare che il buio mi avvolga. Senza la melodia della tua voce il mondo è freddo e buio.

 

Ti amo.

 

Amo la donna che sei per i tuoi rari sorrisi, i tuoi occhi, le tue labbra, il tuo passo morbido e sensuale.

Amo l’uomo che sei per le tue ire, il tuo modo di duellare, il tuo modo brusco di parlarmi.

 

Fammi sentire la tua voce.

 

                    ***

 

Non guardarmi così, André.

 

Sento che scivoli nella parte dei miei pensieri più profondi e la cosa mi irrita.    

 

 

Me li strappi dall’ anima. Perché conosci tutto di me, tutto.

 

Sai anche che provo un profondo malessere che trasuda colpa per l’incidente che ti è capitato e sai che la colpa rappresenta una compagna per me dal giorno della mia nascita.

Ho sentito un giorno che una delle cameriere, Mirelle, commentava la nascita dell’ennesima femmina di una famiglia di non so quali baroni aggiungendo che è facile sbarazzarsi di bambine indesiderate con un certo intruglio, anzi tra il popolo è frequente il ricorso a tale aberrante pratica, “ma i signori le figlie se le tengono“, ha aggiunto ridendo. *1

 

Da adolescente credevo che nascere uomini fosse onorevole perché gli uomini per antonomasia sono valorosi e forti, eppure ora so che le donne che ho conosciuto nella mia vita non sono state da meno.

Rosalie non ha esitato ad abbandonare la propria famiglia nobile, nonostante i privilegi che avrebbe potuto trarne economicamente e socialmente, per tornare a vivere tra il popolo, quella gente povera ma dignitosa di cui faceva parte la donna che l’ha allevata con amore. Jeanne Valois ha preteso dalla vita ciò che il destino le aveva sottratto, *2 difendendosi durante il processo della collana da una situazione disperata, e quando sono giunta a Saverne per catturarla insieme a Nicolas, dopo la sua fuga dal carcere, ha scelto di morire. Doveva essere molto stanca, la bellicosa Jeanne, e l’ho ammirata molto nonostante i suoi intrighi malvagi, non sono riuscita a disprezzarla. Charlotte si è uccisa per non sposare un uomo indesiderato, per rivendicare il diritto di amare e di non essere cieco strumento delle ambizioni di una madre avida e senza scrupoli che non ha esitato a gettarla tra le braccia di quel duca di dubbia moralità. Doveva saperlo, la piccola, che palazzo Guisa è noto per le orge ed i festini di ogni genere che si organizzano. Scommetto che Charlotte non ha voluto che quelle mani la sfiorassero. Persino la Du Barry, cortigiana amante di lussi sfrenati, una volta imboccato il viale del tramonto ha agito con grande dignità.

Donne forti e coraggiose molto più di tanti uomini che ho conosciuto.

 

Ed io?

 

Io quante volte ho impugnato le armi spinta dalle pulsioni di giustizia che agitano in profondità il mio cuore?

 

Quante volte ho potuto farlo?

 

Nella maggioranza dei casi ho sguainato la spada per difendere valori, beni, persone dei quali francamente non sapevo nulla, di cui ho ignorato l’essenza, il valore.

E’ triste ammetterlo ma anche io sono strumento di un sistema di cui ignoro gli ingranaggi, difendo una giustizia che è sterile principio formale e non sostanziale dal momento che, per lo stesso reato, i nobili sono esentati dall’applicazione della pena mentre i non nobili sono puniti con la vita.

 

E questo sistema io lo difendo a costo della mia vita.

 

Una giustizia che tutela la vita del nobile ed affossa chi non lo è, proprio chi avrebbe più necessità di credere in una giustizia che non si identifica affatto con la legge degli uomini e forse neanche con quella di Dio.

Mi sembra di cogliere il guizzo sardonico che si dipinge sulla bocca di Voltaire: “tutto va bene nel migliore dei mondi possibili“, irridendo ferocemente il sistema sociale vigente.*3

Ora comprendo il valore delle idee, il vigore di pensieri che danno alla gente la speranza di un futuro migliore.

 

Altro che la forza delle armi. *4

 

E tu questo lo sai André, da quando frequenti le riunioni clandestine nella chiesetta dove si parla di una nuova era.

Ti ho sospettato di essere un ladro e ti ho tormentato fino a carpirti il tuo segreto : forse temevi che io, il tuo “padrone”, avrei potuto adirarmi per le tue frequentazioni politiche? Mi viene da ridere, che parola ridicola “padrone”, evoca sciocche mascherate goliardiche.

Da quando in qua si è padroni del cuore, dei pensieri, dell’anima di un uomo?

 

Non sopportavo semplicemente che tu uscissi senza di me.

 

Sono arrivata ad accusarti per non ammettere che non reggo la solitudine in queste sere brumose, caliginose, come il mio umore devastato da un malessere che evapora dai relitti di sogni malsani di una vita.

La mia recente, delirante sfida, indirizzata alla cattura di un ladro che non era mio compito assicurare alla giustizia, era solo un paravento per sapere per quale ragione ti stavi ritagliando serate senza di me.

Mi hai aiutato, come sempre hai fatto, a catturare il cavaliere nero per farmi vincere la sfida lanciata a me stessa, per farmi credere che fossi l’eroe senza macchia degli antichi poemi.

 

Per non farmi pesare ancora una volta l’assurdità della mia vita.

Ma non riesco a respingere le carovane di pensieri che affastellano la mia mente come bande di briganti all’assalto di tesori. Come sempre lo sai che cerco di seminarli. E ti racconto idioti aneddoti di corte.

La tua compagnia è refrigerio per i pensieri sanguigni che dalla testa si propalano lungo il mio corpo. Ma la corrente non si arresta, stasera, travolge i costoni di roccia che iniziano a vacillare franando dalle fondamenta della mia coscienza, imperterriti.

Mi hanno insegnato che la società si divide in nobili e popolo. Ma “popolo” è termine vago, inidoneo a delineare la moltitudine che si agita nella massa indistinta che prende il nome di Terzo Stato… Popolo è anche la ricca borghesia industriale, la pletora di intellettuali che animano col fervore del loro anelito culturale caffè, teatri e ritrovi.

 

Te l’immagini l’ira di mio padre alla notizia della sesta femmina?

 

Mi sembra di ricordarla quasi, la sua voce adirata, i suoi toni furiosi da far tremare mia madre e tua nonna, anche se mi hanno detto che i neonati non possiedono memoria. Ma io non sono stata una neonata come gli altri, non sono mai stata una bambina normale cresciuta tra trine e bambole come le mie sorelle o le figlie delle famiglie aristocratiche.

 

Mi chiedo se io sia mai stata bambina.

 

Ma ripensando alla nostra infanzia fatta di complicità, di innocenti segreti, di cacce al tesoro, di litigi annegati in fragranti ciambelle sottratte dalle cucine ed infilate in bocca tra un sorriso e linguacce nascoste, posso dire di essere stata bambina solo accanto a te. Due bambini che si inseguivano nel buio dei corridoi di palazzo Jarjayes, le cui risa argentine portavano un soffio di vita negli austeri saloni che, nella nostra fervida fantasia infantile, eravamo inclini ad immaginare antro di orride creature dagli artigli protesi verso noi piccoli esseri che le avevamo riportate in vita solo per il piacere di annientarle.

 

Io non sono mai riuscita a distruggerle, André.

 

Tu invece eri bravo e fiero quando, con la tua vocina squillante, venivi vicino a me e mi dicevi che i mostri erano scappati impauriti dalla nostra presenza. Ma io non ti credevo e rivolgevo il mio sguardo verso gli oscuri recessi del mio palazzo credendo di scorgere ancora occhi di brace che mi osservavano, beffardi ed ostili nel loro rosso baluginare.

 

Mi hanno preso, André.

 

Non riesco a mandarli via perché dimorano in me da tempo infinito.

Sono io che li ho nutriti giorno per giorno questi spettri, sono io che li invoco per dimenticare pezzi di me stessa.

Ogni volta che una parte della mia corazza si crepa pensieri rigidi infieriscono sui miei desideri simili ad acqua gelida che spegne le fiamme di incendio.

Il tempo scorre veloce mulinando nei suoi vortici feroci cocci di quegli idoli che i tuoi occhi hanno sempre rivelato essere fasulli, immaginari, e che io, nel mio vacuo sogno di eroismo, ho continuato a venerare. Al trascorrere degli anni  si sono scrostati lasciando emergere dalla patina dorata un grigiore polveroso e stantio, disvelatore della loro inconsistenza.

 

Ho proiettato su di me realtà effimere per non dover operare riflessioni sull’esistenza, ma le parole dure di Bernard Chatelet hanno sferzato la mia anima: ”sei una bambola ornamentale tra le mura della corte “, sei “la cagna della regina”, mi ha detto con tono cinico ed orgoglioso insieme perché agli occhi del popolo e della borghesia essere nobili è disdicevole allo stesso modo di come, agli occhi dei nobili, lo è non avere neppure un quarto di sangue blu.

 

Ma, allora, Robespierre, lo stesso Bernard, i giovani intellettuali di cui si circonda il duca di Orléans con il loro fiero cipiglio, il loro desiderio di cambiare il mondo con le idee, sarebbero niente?

 

Padre, mi avete inculcato fin da piccola le regole che dovrebbero governare questo mondo attraverso parole come “giustizia“, “verità“, ”onore” ma ora mi domando se voi stesso ci abbiate mai creduto, abbiate mai riflettuto sul loro significato.

Forse vostro padre e vostro nonno, intrepidi e valorosi militari, vi narravano da bambino leggende di eroici cavalieri dediti alla protezione dei deboli, dei poveri e degli oppressi, storie che voi avete ascoltato con infantili occhi sgranati per lo stupore senza chiedervi chi e dove fossero tali sventurati..

Da bambina credevo che la Francia fosse il paese della gioia e della serenità che si accompagna al benessere, però lo specchio delle mie illusioni ha iniziato a incrinarsi il giorno in cui mi recai ad Arras, approfittando della punizione che la regina mi aveva assegnato per aver duellato col duca di Germain, per visitare i possedimenti della mia famiglia. Stentai a riconoscere in quei corpi macilenti la famiglia Sugane, mentre i miei occhi si soffermavano increduli sulle mucche smunte, quasi una caricatura delle floride bestie dal caldo manto rosso-bruno.

 

Al rientro da Arras, padre, vi raccontai di ciò che avevo visto, nonché delle misere condizioni dei nostri contadini, ma voi mi ordinaste di pensare innanzitutto ai miei doveri di militare schiaffeggiandomi il volto.

Fu allora che capii che quelle parole, “giustizia”, ”verità“, ”onore”, per voi erano favole destinate dai vostri antenati a rendere più piacevoli le lunghe serate invernali, mentre il vostro piccolo cuore si induriva sempre più a contatto di voci militari atte ad impartire ordini.

L’altro giorno a Parigi, vagando per la zona delle Tuilieries, ho incrociato barboni e mendicanti dallo sguardo allucinato, vittime sacrificali di ingiustizie prive di nome perché immemori, cercando di acquietare la mia coscienza elargendo loro un’elemosina che ha un retrogusto acre. Nell’aria un odore di sfacelo.

 

E’ questo il ventre di Parigi.*4

 

Si dice che l’elemosina arricchisca chi la compie. Io provo solo vergogna del mio desco imbandito di tutto punto dove manca l’ orgoglio di conquista di ogni boccone, dove non si avverte il calore di voci familiari che nella miseria si consolano, dove ogni cucchiaio di minestra racconta una storia di dolore, forse di peccato, dove ci si racconta di giornate di duro lavoro.

Il mio palazzo di marmo e specchi non mi ha mai trasmesso tepore, ho stordito la mia solitudine con spadini di legno, orsi di pezza, trottole, ma soprattutto con un bambino dagli occhi verdi che in quelle sale gelide sembrava a proprio agio più di me che avrei dovuto conoscerne a memoria ogni angolo.

Ho scorto nei vicoli di Parigi bambine che vendono i loro corpi smunti offrendosi in strada come bestie al mercato per pochi soldi bramando con occhi affamati compratori più disperati di loro dediti ad obliare squallide esistenze, affinché possano garantire un pezzo di pane duro per i fratelli che le attendono come uccellini nel nido.

Se anche dessi una moneta ad ognuna di loro poi, domani, che farebbero? E dopodomani? E tra un mese?

Sono un essere umano che è capace solo di dare ordini per proteggere chi è incapace di combattere la miseria che corrode questi corpi e menti, inesorabilmente.

 

 

 

 

 

1- è una frase che mi colpì durante la lettura di “La lunga vita di Marianna Ucrìa“ di Dacia Maraini e l’ho riportata integralmente.

 

2- Jeanne de la Motte, la contessa che diede impulso allo scandalo della collana contribuendo a scardinare l’istituto della monarchia, era discendente dei Valois, la casa regnante che aveva preceduto i Borboni sul trono di Francia. Donna ambiziosa ed intrigante, secondo l’interpretazione di Alexandre Dumas ne “La collana della regina“ mirava a riacquistare il proprio patrimonio sottoposto a confisca dai Borboni. Tale caratteristica smorza in parte la negatività del personaggio e mi è piaciuto riproporla nel testo.

 

3- La frase è pronunciata da uno dei personaggi del “Candide”, noto romanzo satirico.

 

4- credo che Oscar abbia tratto dall’incontro col cavaliere nero e dalla conoscenza delle frequentazioni liberali di André una serie di personali considerazioni che cominciano ad incidere profondamente sulla percezione dei temi fondamentali della società e della giustizia. Il germoglio della ribellione comincia ad abbozzarsi.

 

5- credo che questo titolo del romanzo di Emile Zola si attagli perfettamente alla descrizione dei luoghi che Oscar visita.

 

 

Continua

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