Nebbia

 

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“Presuntuosa solitudine che stringe

il petto, mentre l’universo intero

collassa nel mio baricentro”

 

 

La pietra sgretolata dell’argine si distingueva appena nella densa foschia mattutina.

Poche ore separavano dal sorgere del sole in quell’ ottobre già umido e senza sole.

La nebbia come una coperta candida avvolgeva gli alberi intirizziti fino alle cime, volteggiava piatta sulla Senna placida.

Nulla separava il fiume nel suo scorrere sonnolento dalla coltre materna che l’accarezzava languida.

Il viaggiatore inesperto ed il bevitore incallito, sebbene percorrendo sentieri differenti, avrebbero potuto giungere in quel luogo alla medesima fine.

L’uomo accoccolato sull’argine non era né l’uno né l’altro.

Ovunque, sottili pellicole d’umidità ricoprivano il grigiore agonico della natura, rassegnata come ogni anno a spegnersi nel lungo letargo invernale.

Gioiva dell’odore intenso della fanghiglia rigurgitata dal fiume e del pizzicore che la sospensione di gocce procurava sulle guance non rasate. Come un bacio timoroso, appena accennato, nell’attesa di un assenso.

Le dita gelide della brezza mattutina s’infilavano di tanto in tanto con grazia nella spessa giacca di lana stinta solleticandogli le costole sotto la camicia.

L’anima distaccata dal corpo volava dalla sponda su, verso l’allargarsi generoso del letto della Senna, sorvolando le prime avvisaglie di case di Parigi. Presto si sarebbe dovuto muovere.

Mischiato alle foglie fradice e alla terra nera, dal ventre stesso di quella natura violentata e tuttavia consenziente sorgeva un gusto acuminato, amaro, cristallino come il la del diapason: l’odore della nebbia.

Fin dall’infanzia quell’ odore pungente l’aveva sfidato ad immergersi, a dispetto d' ogni ragionevolezza, nell’abbraccio candido della foschia autunnale; l’aveva chiamato con tutta la confusione dei suoi pochi anni e delle sue prime dolorose esperienze.

Doveva essere quello, aveva pensato da bambino, l’odore della purezza, l’odore segreto del ghiaccio.

La compattezza del muro di finissime gocce di rugiada, il timore della perdita del senso primario di orientamento e insieme la facilità con cui  attraversava tutto quell’immacolato nitore…

Il paradiso poteva essere simile a quella grande nuvola di gocce, poteva esserci una porta, da qualche parte, che lo lasciasse proseguire verso il luogo dove viveva sua madre, angelo tra gli angeli.

Ma la porta non si era mai aperta ed il tempo l’aveva dimenticata nei meandri della memoria.

Strano che gli venisse in mente proprio in quel momento.

La trasparenza angelica di sua madre nei ricordi sfuocati di fanciullo.

La purezza granitica della sua Oscar nei suoi occhi di adulto.

La donna della sua vita… la sua vita per quella donna.

Doveva essere la stessa cosa.

Un dolcissimo male gli accarezzò il petto e l’istinto di correre lontano da quella sventura.

L’impressione che solo respirando accanto a lei, la sua stessa aria, l’avrebbe invaso completamente in ogni fibra, lungo ogni vena fino a raggiungere il cuore ed inchiodarsi lì.

Respirò a fondo, con lentezza studiata: l’aria ghiacciata gli punse la gola e riempì i polmoni.

-Come tarda questa mattina…-

Le dita attraverso i guanti di pelle erano già intorpidite.

Scosse dal mantello la brina luminescente ed i capelli gli ricaddero zuppi sulla fronte.

Il guaio del freddo è che non lo puoi fermare, quando ti penetra fin nelle ossa te lo porti dietro tutta la vita.

Cosa spinge un uomo a cavalcare nella quasi più completa invisibilità per fermarsi lungo un canale ad aspettare l’alba se non un’ irrimediabile forma di pazzia?

Far pratica, allenarsi, abituarsi, rassegnarsi.

-Se ci fosse sempre la nebbia  gli uomini sarebbero tutti ciechi…-

Infilò una mano in tasca e con mano sicura srotolò un involto, se lo rigirò nelle mani: il primo melograno della stagione.

-Non è vero che aspetto.-

Stavolta non l’aveva conservato gelosamente per lei.

Non aveva sgranato uno per uno i semi succosi nel suo piatto, non aveva atteso dissimulando un sorriso il suo “Sono aspri André”  -Come te, Oscar, come te- pensato immancabilmente  “Fra qualche settimana saranno maturi…”

Spaccò il frutto in due rotonde metà, ne addentò una mentre lanciò l’altra oltre la radura, come regalo ai merli infreddoliti.

Lasciò che il succo vermiglio gli scorresse ai lati della bocca e sorrise tristemente.

“Bel lancio, peccato tu mi abbia mancato…”

L’ombra di un alto cavaliere fendette la quiete autunnale.

“Non sono l’unico sciagurato dunque” pensò l’uomo sull’argine.

 “Cosa ci fa qui Oscar?”

L’alta figura scivolò in direzione opposta cercando con circospezione di raggiungere l’albero ove legato, uno stallone bruno scalpitava irrequieto. Legò a sua volta la cavalcatura accarezzandone il muso candido.

“I cavalli sono nervosi.”

“A nessuno piace questo clima”  rispose la voce dall’argine.

“A te sì.”  

Si accosciò accanto lui, attenta a non sedersi, raccogliendo attorno al capo e ai lunghi capelli biondi il cappuccio del mantello

“Tra poco sei di ronda, che ci fai qui?”

-Aspettavo te, cuore di ghiaccio, aspettavo te.-

Che senso aveva ammetterlo ora, dopo averla aspettata verosimilmente tutta la vita?

Che senso poteva aver avuto confessarle il suo amore dopo anni di silenzio ostinato?

Che significato poteva avere per una donna che voleva essere un uomo, per una creatura ostinata che non voleva più amare?

“Vado.”

L’uomo sull’argine si alzò in piedi stiracchiando le braccia al cielo in un ampio gesto.

Prese a risalire lentamente, un po’ curvo, senza voltarsi indietro.

-Non posso che seguire una via, questa via, che ha nome Oscar.-

Un’asperità del terreno lo colse alla sprovvista.

Mise un piede in fallo e, sorpreso, scivolò sul fango senza fare rumore.

Un braccio gli avvolse le spalle ed una risata prese a cantare nell’aria immobile.

Anch’egli rise forte quando fece per rialzarsi ed entrambi allacciati ricaddero a terra con un tonfo sordo.

“Fortuna che non sei ubriaco.”

-E invece lo sono, Oscar… è da tutta una vita che lo sono di te.

 Bevo dalla bottiglia che lasci a metà addormentandoti.

 Bevo dai tuoi occhi, quando me li punti addosso e guardi attraverso me come se non esistessi.

 Persino dalla tua bocca, nelle mie fantasie d’infelice.

 Dai tuoi pugni, quando sfoghi su di me la felicità che ti han dato e tolto.

 Dalla tua spada, perché solo con lei mi cerchi.

 Bevo, bevo e lasciami bere ancora.-

L’uomo le cinse il collo con un braccio, appoggiò la guancia ghiacciata sulla fronte.

Sentendola irrigidirsi sotto la sua mole fece forza con tutto il peso per tirarsi in piedi. La trascinò a sé.

La luce soffusa dell’alba pallida inondò di colpo i loro corpi dissolti nella nebbia.

Vacillarono.

“Sei fradicio.”

“Anche tu.”

La bocca scivolò sulla guancia.

“Cadremo.”

Senza più necessità di pudore, le due bocche si accostarono in un gesto simmetrico.

Come l’acqua tra le sponde in perpetuo moto verso la stessa direzione.

Come le nubi senza sosta si ammassano per un temporale incipiente.

Come il ramo d’abete si accartoccia nel fuoco liberando un profumo acre.

 

Durante l’adunata un soldato esclamò a mezza voce “E’ sporca di fango, la divisa del comandante.”

 

pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2005

Fine

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