Perditum ducas

 

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Non ci sei.

È passato un anno da quando è successo, eppure continuo a non saper afferrare il senso di questa frase. Me la ripeto ogni istante, da un anno, senza capirla.

Siamo sempre stati insieme.

E ora tu non ci sei.

No, proprio non ci riesco.

 

Che potesse accadere questo era un’idea che non mi aveva mai sfiorato. Chissà perché, poi: in fondo, con la vita che facevamo, non era affatto remota come eventualità. Potevano ucciderti mille volte, coi rischi che correvi, e ti avrei perduto.

Ma eravamo sempre insieme, e il pensiero che questo potesse cambiare era inconcepibile, semplicemente.

Soprattutto non avrei mai pensato di sopravviverti.

 

*

 

È un luogo appartato, vicino alla casa. Si affaccia sul pendio sottostante a scoprire campi carezzati dal vento. C’è un piccolo recinto intorno, erba tenera per poterti sedere accanto nei giorni di primavera. Una pietra di marmo bianco. Ci ho fatto scrivere che ti amerò per sempre.

Non so per quale motivo continuo a vivere. Me lo chiedo ogni volta che vengo qui.

Forse per proteggerti, ancora.

 

*

 

“Rimani…”

Hai detto questo, aggrappandoti alle mie braccia, come se fossi fermamente convinta che sarei stato capace di non farti morire.

Tenendoti stretta, solo tenendoti a me.

Anch’io ho creduto di esserne capace, in quel momento. Con tutte le forze ho voluto crederlo.

E ti ho stretto, tutta la notte, ingoiando un minuto dopo l’altro lo strazio infinito della tua agonia.

“Mi dispiace, André…”, hai detto a un certo punto, quando hai incontrato il mio viso disfatto dal terrore di perderti, lo sguardo stravolto che per un attimo non sono riuscito a nascondere.

“Mi dispiace…”

Una delle ultime frasi comprensibili che sei riuscita a pronunciare.

 

Quegli accessi spietati che non ti facevano respirare. Tutto quel sangue, che ti saliva alle labbra e che non riuscivi a fermare. La paura nei tuoi occhi, ogni volta che succedeva. E la vergogna.

Ti vergognavi, che dovessi vederti così. Voltavi il capo chino per nascondere il viso, mentre ti abbracciavo, e cercavi di resistere alla tosse, di fermarla perché non distruggesse con l’orrore del ricordo i nostri ultimi istanti insieme.

Una lotta disperata perché non vedessi quel sangue. L’ho capito quando ti sei coperta col lenzuolo, piangendo. Ho scostato quel lenzuolo trattenendo il mio pianto, allora, e ti ho abbracciato con tutto l’amore e la dolcezza che conoscevo. Ho baciato mille volte le tue mani, il tuo viso, mentre ti ritraevi. E i tuoi capelli, insanguinati anche loro.

 

Ti ricadevano sulle spalle, sul petto, e quando hai visto le ciocche macchiate hai avuto un moto di rabbia esasperata e impotente. È stata l’unica volta che hai ceduto, perché perfino in quell’agonia combattevi. Anche per proteggere me dal dolore. Hai singhiozzato: “No, non voglio”, che non volevi morire.

 

*

 

Vengo qui ogni giorno, a parlare con te. Mi prendo cura dei fiori che ho piantato. Senza fretta, e con la mente vuota. Ti piacevano le rose, anche se non l’hai mai detto. E io adoravo il candore di quelle bianche, luminose come il tuo viso al mattino.

Non ricordo da quanto tempo lo so.

Così ora ci sono soltanto rose bianche vicino alla tua tomba.

Mi siedo vicino, e ascolto lo stormire del vento. Di solito resto in silenzio, seguendo il filo dei pensieri che mi riconducono a te. Questo è l’unico posto in cui riesco a ricordarti com’eri.

A volte mi sale una frase alle labbra, che continua la trama di quei pensieri, e la dico. Qui posso illudermi che mi ascolti.

Mi hai sempre ascoltato, fin da bambini.

 

*

 

La testa tra le mani, e sento calare il sole. Sollevo il viso e lo abbandono indietro, con gli occhi chiusi.

“Anch’io ti voglio bene, André…”

Piangevi, nel dirlo, il viso nascosto contro di me. E la tua mano chiusa sul mio petto tremava, quando l’ho presa nella mia.

Ti voglio bene.

Sì, lo sapevo. Ricordo che ho sorriso di tenerezza nell’udire la tua voce dirlo. Eppure ero quasi incredulo, e pieno d’emozione. Più che se fosse stato ti amo.

Perché in quella frase c’era tutto di te. Di noi.

 

Poi, però, ti amo te l’ho detto io, mentre ti baciavo trattenendo quasi il respiro. E dopo la prima volta non ho potuto fare a meno di ripeterlo, all’infinito.

È stato bellissimo dirti che ti amavo.

 

Tu queste parole le hai pronunciate dopo, invece, quando abbiamo riaperto gli occhi e abbiamo visto il cielo su di noi, straziato da una marea dolcissima di stelle. Hai posato il viso sulla mia spalla e mi hai chiesto di stringerti. Poi, mentre con le mani sfioravo la seta della tua pelle, e ti coprivo col mio corpo per difenderti dal fresco della notte, mi hai passato le dita tra i capelli. Allora ho fissato i tuoi occhi che brillavano.

È stato in quel momento che me l’hai detto.

 

*

 

Si è levato il vento della sera. Porta con sé una pioggia di petali. È bella questa stagione per amarti. Per stare qui, con te.

La mia Oscar.

La mia compagna, la mia amica.

Mia moglie, se avessimo avuto qualche giorno di più.

Avrei voluto fare in tempo a sposarti. Ma non c’è stato, quel tempo. Tu me lo avevi chiesto e io avevo promesso con la gioia nel respiro. Ti avrei sposato appena arrivati ad Arras.

Ma non sapevo che stavi male, non lo sapevo.

 

Così, quando tutto è finito e non ho potuto far altro che prenderti in braccio impietrito, perché volevo che nessun altro ti toccasse, oltre a me, quando ho capito che non sarebbero uscite le lacrime che cercavo disperatamente e che il mio cuore non si sarebbe fermato, nonostante non vivesse più, allora ti ho posato di nuovo, delicatamente, sul nostro letto, e ho preso dall’armadio la tua camicia più bella.

Ti ho seppellito così, con una camicia di seta e pantaloni da uomo. Quello che hai sempre portato, quando stavi con me. Ho pulito e pettinato i tuoi capelli. Ed erano bellissimi, sai? Erano di nuovo lucenti e morbidi, amore.

Ho preso la tua mano e ti ho accarezzato le dita sottili, e all’anulare ho infilato piano l’unico anello che possedevo. Quello di mia madre, che non ho mai conosciuto.

 

Mia moglie.

È come se lo fossi stata, amore. Perché ho tanto sofferto al pensiero di non aver potuto esaudire il tuo desiderio, e il mio?

In fondo eravamo sposati da tanti anni.

Perché ho sofferto così, per non averlo fatto?

Forse perché dopo averti perso credevo di impazzire, e avevo bisogno come di una prova che c’eri stata davvero. Forse perché in quel dolore immenso avrei voluto gridare al mondo che ci appartenevamo. O per scrivere il mio nome sulla tua tomba, come se fossi morto anch’io.

 

 

*

 

Il sole che si uccide, una volta ancora. Ho imparato a seguirne il percorso fino all’orizzonte, ogni sera.

Ogni sera rimando il momento di partire da te, per tornare in quella casa vuota, dove resto da solo. Poche stanze come immense voragini sotto i passi che faccio, uno dopo l’altro.

Forse è per questo che ci torno ogni sera, perché spero di sprofondare.

Ma non sprofondo mai.

 

*

 

La pelle delicata del polso, le linee azzurrine delle vene.

Mi torna sempre in mente questo particolare.

Lo scoprii da ragazzo, prendendoti le mani che tenevi chiuse, per scherzo, per cercare dove nascondevi non ricordo che cosa.

Ti girai i polsi verso l’alto, ridendo, per farti aprire le dita. Tu ridevi, e dicevi no, ma non riuscivi ad opporti. Io sentii che ero più forte di te ed ebbi paura di farti male.

Ma, prima di lasciarti, lo sguardo si posò sul tenero trasparente della tua pelle.

Non ho più scordato quel giorno.

 

*

 

Amore, amore. Chiedimi di rimanere, amore. Chiedilo ancora e io resterò qui con te, ad aspettare la notte.

Chiedimelo come mi chiedesti di stare con te quel giorno, alla fine di un pomeriggio di spari, mentre abbandonavamo la strada e camminavamo in silenzio contro la corrente di folla che entrava urlando nella Bastiglia.

Noi siamo tornati indietro, e ti ho passato un braccio intorno alla vita. Avevi il viso concentrato ancora, la fronte appena imperlata da un leggero sudore. Ti ho preso la mano destra e tremava per la tensione. Anch’io ero stanco, e tu hai sospirato appoggiandoti a me.

Ce ne siamo andati così, quel giorno, subito dopo la vittoria.

 

Ricordo che ci cercarono, a un certo punto. Molto più tardi. Li udimmo nel silenzio della sera, mentre ci baciavamo seduti su un muretto, in un angolo nascosto dal buio. Sotto scorreva il fiume, e ti tenevo le mani. Le stringevo, baciandoti, come se solo in quel gesto volessi racchiudere tutto il mio amore. Tu sentisti le voci e dicesti: “No, non rispondere…”, con un tono sommesso e agitato che mi fece dimenticare ogni cosa. I tuoi sospiri avevano il sapore dell’estate, carezze lievi di vento sulle labbra. E tu eri bella e dolcissima, ed eri solo per me.

Ci rifugiammo in segreto, la notte, nella stanza che ti avevano dato.

 

*

 

Non lo sapevo, non lo sapevo, allora. Me lo hai tenuto nascosto fino all’ultimo, finché non hai potuto più. È stato il tuo dono per me, perché volevi farmi felice. Ti sei tenuta tutto dentro, perfino quando hai capito che non avevi sei mesi. Che erano i tuoi ultimi giorni, quelli.

 

E mi hai reso felice, infatti. Non ho saputo capirlo. Ero troppo felice per capire che ti stavo perdendo: troppo preso a viverti, a gioire per il tuo amore. Mentre tu affrontavi da sola la paura.

 

Eppure non volevi che io mi odiassi per questo.

“Non farlo, ti supplico”, hai implorato con gli occhi lucidi quel giorno che ti ho scoperto sul letto, stremata, col fazzoletto macchiato tra le dita serrate, il volto abbandonato di lato che cercava la luce.

Non farlo, hai detto, mentre maledicevo me stesso per non avere compreso, mentre disperato ti stringevo al mio petto, e ti chiedevo da quanto, da quanto è cominciato, Oscar…

Ti preoccupavi che non mi rimproverassi di nulla, anche in quel momento.

E dicesti che lo avevi fatto per noi, perché avevamo diritto a essere felici, almeno quel poco che ci restava.

Dicesti che non era vero che tu avevi sofferto, per il tuo segreto. Che quelli erano stati i giorni più meravigliosi del mondo, e lo dovevi a me.

 

Sei sempre stata convinta di dovermi qualcosa.

 

 

*

 

È buio, oramai, ma stanotte non me ne andrò. Mi stringo nella giacca, e il brivido del vento che s’insinua tra i vestiti è una dolce pena, standoti accanto.

L’oscurità in cui credevo di dover vivere per sempre. E nella quale forse potrei ricordarti meglio, adesso, con tutte le sfumature e i toni del tuo sorriso.

Invece vedo ancora, e quella poca luce che non mi ha abbandonato mi costringe ogni giorno a svegliarmi in un mondo dove tu non ci sei.

Per questo la notte scende sempre cara sopra i miei occhi.

 

 

*

 

Cinque giorni.

Passarono cinque giorni dal giorno in cui ti scoprii.

Moristi la mattina dell’ultimo, mentre fuori splendeva un sole d’agosto, e la natura si apriva in tutto il suo rigoglio. Canti odiosi di uccelli mi risuonarono dentro fino a sera.

 

Ti avevo portato qui, ad Arras, perché a Parigi non volevi più stare. Era qui che volevamo venire, fin dall’inizio.

Ti avevo portato via subito, perché volevo curarti. E disperato avevo cercato dottori ovunque, rivolgendomi a tutti quelli che conoscevo. Mi ero fatto spiegare con esattezza cosa ci voleva per guarire.

Un posto tranquillo, vita serena. Dicevano questo.

 

Evitare forti emozioni, dicevano.

Forse solo in quel momento sentii che ti avrei perduto.

 

Ma non volli crederci, e fino all’ultimo ti tormentai con la mia speranza.

Tu mi lasciavi fare, e fingevi di sperare anche tu, per rassicurarmi.

 

*

 

Arras. Ma non nel tuo palazzo. C’era una piccola casa, nelle campagne vicino. Da bambini ci andavamo a giocare. E anche più grandi, poi, amavamo tornarci e chiacchierare coi contadini. Vi abitava brava gente, ci volevano bene.

Era vuota, ma accogliente, quando tornammo qui. Tu dicesti che ti sarebbe piaciuto.

Non era tua, ma il proprietario ci riconobbe, e, quando ti vide, con la tristezza negli occhi ce la offrì.

 

È qui che vivo, adesso. Non saprei stare in nessun altro posto. Anche se furono solo tre giorni, quelli che vi passammo insieme.

 

*

 

La prima stella, nel buio.

Come vorrei credere ancora alle storie a cui credevo bambino. Guardavo quella stella e pensavo che lassù ci fossero i miei genitori. Che mi vedessero e potessi parlarci. Mi avevano detto così, e io aspettavo la sera per ritrovarli nel cielo.

 

La scoprii in cielo, dalla finestra, anche la sera che mi chiamasti.

Eri bellissima, e il pallore del tuo viso sembrava una carezza della luna. Venisti al mio fianco e mi sfiorasti la mano. Rimanesti minuti a giocare con le tue dita tra le mie. Io chiusi gli occhi, a sentire il tocco leggero, finché non potei fare a meno di prenderti tra le braccia. Con dolcezza accostai la fronte alla tua.

“Fai l’amore con me”, dicesti pianissimo, aspettando il mio bacio.

 

Quella è stata l’ultima volta.

 

Io credo che tu lo sapessi, che era l’ultima volta, perché ti sciogliesti al mio abbraccio in un abbandono totale. Ricordo ancora il tuo profilo sfiorato dal chiarore del cielo, e sul cuscino la tua voce arresa, ardente di passione e d’amore. Fu una notte di desiderio e carezze, ti desti a me con un trasporto struggente, che non ti conoscevo ancora. Dicesti che eri mia, che lo saresti stata per sempre. E che dovevo solo amarti, amarti per sempre così, e saresti stata felice.

Fu il tuo dono d’addio.

Ubriaco di te, annegando nel piacere dei tuoi baci e delle tue parole, quella notte dimenticai l’angoscia che mi serrava la gola da quando sapevo del tuo male. Mi rendesti così felice che fui sicuro che saresti guarita, e che ti avrei amato per sempre, in una vita nuova e giorni lontani da ogni dolore.

Ne fui sicuro con tale intensità che ti tenni stretta tutta la notte, dopo averti amato, e senza addormentarmi passai le ore a pensare al nostro futuro insieme, guardando le ombre che passavano sul soffitto mentre vegliavo sul tuo sonno irrequieto.

Ne fui sicuro per una notte, per una notte intera.

 

 

*

 

È freddo, adesso, ma non importa. Soffrire il freddo, qui vicino a te, mi aiuta a sopportare il dolore. Non riesco a capire come abbia potuto resistere tanto tempo al pensiero della tua morte, e come il mio corpo viva ancora, così, mentre mi auguro con tutte le forze di morire anch’io.

 

Un giorno mi sono quasi ucciso, in quella casa vuota.

Avevo caricato la pistola. La tua, quella che sempre ti preparavo quando ti allenavi al tiro. E mi sentivo felice, ripetendo per una volta ancora quel gesto che ci aveva legato. Come se tu fossi ancora lì accanto, ad aspettare.

Ero felice, perché stavolta ti avrei seguito.

L’ho puntata alla tempia e ho messo il dito sicuro sul grilletto, e prima di sparare ho guardato dalla finestra, verso la tua tomba.

 

La mente serena, dopo tanto tempo. Sarei morto con te. Non avrei più dovuto sopportare quel dolore.

 

Rimasi a lungo con quell’arma in mano, così. Continuavo a guardare la pietra bianca, e il cielo al tramonto.

 

Non ho sparato.

Ancora adesso non so il perché.

 

So solo che deposi la pistola a terra. E venni a sedermi qui, dove sono ora.

Pensai che dovevo vegliare sulla tua tomba, per difenderla da ogni cosa. Che tu eri lì, e io ti avrei protetto finché avevo respiro.

 

Forse per questo non mi sono ucciso, quel giorno. E forse proprio quel giorno ho deciso di non farlo più.

Per donarti tutta la vita che mi restava. Per proteggere fino allo stremo ciò che eri stata. E che esisteva ancora, con un’intensità lancinante, nel mio soffrire.

Vivere e sopportare, giorno per giorno, lo strazio incolmabile della mancanza di te. Perché dentro quello strazio tu vivevi.

E io sapevo che non sarebbe finito mai.

 

Morire sarebbe stato facile, sarebbe stato veloce. Ma avrei fatto morire anche te, un’altra volta.

 

*

O forse ho sparato, quel giorno. Non ricordo bene.

*

 

 

Ho freddo, amore, ed ho bisogno di te. Vieni ancora, ti prego, a dirmi che mi ami. Vorrei tanto sentire di nuovo sul viso la tua carezza silenziosa e commossa, come la sera che ti chinasti su me, e seppi che non ti avevo perduto. Anche se avvertivo il corpo arrendersi, e cedere al dolore.

“Credo che vi ami, comandante”.

Era la voce di Alain. La udii chiaramente, mentre si avvicinava a te. “Bene, allora vi lascio soli”, ti disse.

Io ero steso a terra, e avrei voluto alzarmi, e non costringerti a curare le mie ferite. Quelle che avevo dentro, soprattutto, perché erano quelle a fare più male.

Ma non riuscii. I pugni bruciavano nella carne, più di quando li avevo sentiti arrivare, mentre mi tenevano fermo.

Non riuscii, e pensai, mentre sentivo il tuo passo, che costringerti a quei gesti pietosi fosse l’umiliazione peggiore.

 

Invece fu una sorpresa, una sorpresa da piangere.

 

“Fermo…”, dicesti, e la tua voce non era quella che usavi in quei giorni, nello scontro inflessibile della volontà e del valore. Quella che usavi con i soldati.

No, era quella che conoscevo io. La tua voce di ragazza, di quando vivevamo insieme. Di quando ancora non ti avevo ferito con il mio amore.

“Fermo…”. E posasti la mano delicata sulla mia fronte, col dorso delle dita mi carezzasti il viso.  Ti inginocchiasti, accanto al mio corpo, e mi aiutasti a voltarmi, facendomi appoggiare il capo su di te. Io distolsi lo sguardo dai tuoi occhi, ma non avevo la forza di alzarmi, di parlare.

“Non farò mai niente che possa ferirti, André…”

Lo mormorasti, abbassando il viso subito dopo. “Non devi stare in pena, davvero”.

Io volevo dirti no, allora, volevo dirti che non dovevi ascoltare la mia preghiera, che non volevo saperti rinchiusa in un ricatto d’amore. Volevo dirti che sopra ogni cosa al mondo desideravo saperti felice. E che io non contavo, non dovevo contare, se per essere felice avevi bisogno di liberarti da me.

Riuscii solo a dirti perdono. “Perdonami, Oscar”.

Ma tu eri tenera e sincera, quando ritornasti a fissarmi, e c’era un sorriso commosso e quieto sul tuo volto. Sembrava che avessi letto nella mia mente. “Non potrei mai essere felice se anche tu non lo fossi, André…”

Io chiusi gli occhi, sopraffatto dall’abbraccio innocente della tua tristezza, e non ebbi più parole per dire. Non mi opposi alle lacrime che scivolarono su di te, sperando che la penombra le nascondesse.

 

 

*

 

Eppure tu hai sempre pensato di avermi fatto del male. Che avessi mille cose da perdonarti. Sei morta con in cuore il rimpianto di non avermi dato abbastanza. E non riuscivi a credere ai miei baci, alle carezze che dicevano no, non è vero, amore.

Di cosa avrei mai dovuto perdonarti, amore… Perché rimproveravi a te stessa di non essere stata capace di amarmi? Tu hai dato un significato alla mia esistenza, sei stata il motivo per cui ho benedetto ogni giorno che nasceva. La mia vita è stata una vita piena di gioia, perché ogni istante ho potuto scoprirla con accanto te.

 

Di cosa ti accusavi, amore, se io sapevo tutto di noi, se conoscevo il tuo respiro e il tuo cuore, se sentivo le tue paure, le gioie… Se bastava un sorriso accennato, che nessun altro notava, a stabilire tra noi un’intesa che escludeva ogni cosa intorno?

Come quel giorno, nel salone di palazzo Jarjayes, che rubasti dal tavolo fragole e zucchero con un gesto sorprendente e fulmineo, cogliendo al volo il mio sguardo che t’istigava al delitto. Le mangiammo dietro la casa.

Non eravamo bambini, è stato pochi anni fa, e tu indossavi un’uniforme blu.

 

*

 

Mi fa male ricordare queste cose. Non devo. Adesso ho le mani sul viso e piango, e penso a quelle fragole con vicino te.

Non piango per i ricordi più atroci, ma per questi frammenti che riemergono all’improvviso, schegge di memoria dimenticate che si conficcano nella mente indifesa.

Mi succede continuamente, perché abbiamo avuto infiniti attimi come questi, amore.

 

È la mia pena. E il mio conforto, perché in ognuno di quei frammenti sei racchiusa tu, coi tuoi occhi e il tuo sorriso e le mille espressioni che passavano sul tuo volto per me, e ripensandoli mi sovvengono tutti così nitidi che a volte allungo le mani per toccarli, come se fossi qui.
E ti ricordo ancora.

 

 

Non c’è mai stato nulla che dovessi perdonarti amore. Quante volte l’ho ripetuto mentre ti stringevo, e nei tuoi sospiri, negli occhi chiusi, c’era la risposta alle mie parole.

 

Per questo, quando mi assale il dolore di non aver saputo convincerti, e di pensare che ti sei spenta dandoti colpe che non ci sono mai state, mi concentro sull’immagine del tuo viso nel mio, mentre ci donavamo l’uno all’altro, e tu osservavi intenta, quasi incredula, il mio abbandono, come se fosse la prova della nostra felicità. Penso ai gemiti che mormoravi allora, annegando tra le mie braccia, e mi dico che no, che non è vero, forse, che non ci hai creduto.

 

 

***

 

 

Dovrei convincermi che ti ho perduto. Ma non posso, non è così.

Non è per questo che sono vivo, a vegliare la memoria di te.

 

Ho perduto la tua voce, i tuoi occhi, i tuoi giorni intrecciati ai miei, il profumo delle tue mani e gli sguardi seri, e sorridenti, e dolci che mi facevi. Ho perduto il tuo respiro, il tuo volto, le tue parole assennate e gentili, i tuoi passi silenziosi e fragili, il rumore dei tuoi pensieri nel buio. Ho perduto tutto quello che al mondo avesse un significato per me, perché tutto quanto significasse qualcosa era racchiuso nella mia vita con te.

 

Ma l’insieme di queste cose io non l’ho mai perduto, amore. Perché l’insieme di queste cose sei tu.

 

*

 

 

Sto qui, dal fondo della notte, a vegliare su ciò che sei. Non andrò via, non temere, amore. Ti difenderò qui da tutto, ogni giorno, ogni istante, finché avrò vita. Sarà il dolore sconfinato di cui mi nutro a custodirti con cura.

 

Non avere paura.

Io sono l’unica persona in grado di proteggerti, Oscar.

 

 

FINE

 

 

 

Nota

Il “furto” di generi alimentari (fragole e zucchero, nella fattispecie) è una filiazione senza pretese della stupenda scena della torta rubata in “Rumore d’ali (De insania)” parte IX di Sydreana, cui va la mia imperitura gratitudine in particolare per avermi dispensato siffatta prelibatezza gastro-letteraria, e in generale per tutte le altre meraviglie che tira fuori dalla sua penna.

Nel titolo “Perditum ducas” c’è un verso di Catullo.

 

 

Fine

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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