Nelle mani

parte XVII

 

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La notizia era del giorno prima, ma Alain l’aveva saputa solo al suo arrivo in caserma con la domanda di arruolamento di André: il vecchio comandante andava in congedo e ne avrebbero mandato uno nuovo prestissimo. I soldati erano nervosi. “Mai una volta che ci dicano le cose”, aveva commentato nella camerata con una smorfia di disgusto, pulendosi la bocca col dorso della mano, mentre restituiva a un compagno la bottiglia che gli aveva passato.

Non che fossero affezionati al vecchio colonnello Du Bourg, tutt’altro: ma per lo meno ormai ne conoscevano le abitudini, e avevano imparato ad assecondarlo senza farsi massacrare la vita. Invece un comandante nuovo era un altro paio di maniche: c’era da scommettere che ci sarebbero stati mesi di servizi supplementari, regole diverse, nuovi ordini cui obbedire. Da spezzarsi la schiena, insomma: gli ufficiali erano tutti nobili, ed erano tutti dei bastardi. Tra quelli che aveva conosciuto non ce n’era uno che si salvasse. Una bella rogna, accidenti.

Questo qui, poi, stando alle voci, veniva dalla Guardia Reale. E se dalla Guardia Reale veniva a comandare loro era di sicuro uno caduto in disgrazia, un damerino arrogante che avrebbe fatto pagare alla truppa il fatto di essere finito nel corpo più malmesso dell’esercito, con soldati presi dal popolo che stavano lì per mangiare. Non era certo un posto ambito, quello.

Ma ne avevano viste tante, disse, e sarebbero sopravvissuti anche a quello.

 

André avrebbe preso servizio entro un paio di giorni: come aveva previsto, la sua domanda era stata accettata. Aveva già messo insieme la sua roba, preparandosi a lasciare la casa. E Diane. “Giusto in tempo”, pensò Alain. Quando lo aveva detto a sua sorella, lei era rimasta malissimo. Le erano anche salite le lacrime, ed era andata in camera sua senza dire niente. Aveva provato a parlarle, a farle capire che era la cosa migliore… ma non era servito, anche perché la spiegazione più importante per convincerla non gliela poteva dare: era una faccenda privata di André.

Gli dispiaceva, tra l’altro, che le cose fossero andate così, perché invece con uno come André sua sorella l’avrebbe vista bene… ne sarebbe stato contento.

Ma lui era innamorato come un pazzo di un’altra donna, e dargli Diane sarebbe stato il modo migliore per distruggerle la vita.

No, aveva fatto bene. Aveva fatto l’unica cosa sensata da fare, anche se ne era rattristato.

Certo avrebbe proprio voluto conoscerla, questa donna che aveva stregato il suo amico al punto di fargli passare ciò che aveva passato, e che sopportava ancora. Era successo qualcosa di grave, e André non parlava più di rivederla, di andare da lei. In compenso non faceva altro che tormentarsi col pensiero, non pensava ad altro dalla mattina alla sera. Alain era quasi affascinato dalla forza di quel sentimento: lui una cosa così non l’aveva mai provata, e dubitava che l’avrebbe provata mai. André non apparteneva più a se stesso, ma a lei. Non gli importava affatto di morire, di vivere, non gli importava più di niente senza lei, anche se andava avanti ogni giorno per senso del dovere, mantenendosi calmo, senza fare pazzie.

Che storia incredibile doveva essere stata… E poi una donna nobile che s’innamora di uno che le fa da domestico… già questo era da pazzi. Eppure stando ad André era stato proprio così, era stato amore. La famiglia che li separa e cerca di ucciderlo, e lei chissà che fine aveva fatto…

Ma sembrava che ora ad André non importasse più  saperlo. Anzi, sembrava che lo sapesse, e che non volesse più vederla. Però l’amava, disperatamente.

 

Chissà, forse gli avrebbe fatto bene quella nuova vita. Di pensieri che lo avrebbero distratto ne avrebbe trovati a volontà.

Strano che in così poco tempo fossero diventati amici… strano anche questo.

Eppure era proprio ciò che provava: non gli era mai capitato di sentirsi tanto amico di qualcuno. E non era che André facesse chissà cosa per andargli a genio. Ma a lui piaceva quella discrezione, quella sobrietà, quel modo di essere educato e insieme sincero che aveva. Era una persona di valore, e a lui quel tipo di persona ispirava fiducia: sentimento che tra l’altro non nutriva quasi mai verso il prossimo, nella miseria del panorama umano con cui aveva a che fare.

Pensò che era un vero peccato che con quella donna nobile fosse finita male, e che André non meritava di soffrire così.

Poi, sdraiandosi sulla branda, con le mani dietro la nuca, si disse che era un sacco di tempo che non gli capitava di trovare una donna che gli facesse sentire qualcosa oltre alla voglia di portarsela a letto. Un sacco di tempo, davvero…

Era un pensiero triste.

 

 

***

 

Ripiegò con cura il messaggio col sigillo della casa Reale, lo ripose in un cassetto dello scrittoio. Poi prese un foglio di carta bianca, la penna, e la intinse nell’inchiostro per vergare la risposta. Era l’ordine di assegnazione alla Guardia cittadina e le era stato consegnato appena tornata a Parigi.

Mentre scriveva quelle parole di ringraziamento per la regina ascoltava il fruscio della carta percorsa dalla punta dello stilo, rimirava quasi assorta i ricami neri della sua grafia agile e leggermente inclinata, che si stendeva senza indecisioni sulla lettera. Non aveva mai avuto una scrittura morbida e rotonda: i suoi caratteri si legavano slanciati e asciutti l’uno all’altro in un tratto chiaro e ben decifrabile. Le dame di Versailles non l’avrebbero definita una grafia alla moda, perché mancava dei ghirigori e dei riccioli inanellati con i quali con tanto studio ci si sforzava di impreziosire le missive segrete agli amanti: eppure nessuno avrebbe potuto negare che era estremamente raffinata ed elegante nella sua sobrietà, nel suo senso innato delle proporzioni, nella sua limpidezza non banale e priva di affettazione. Un giorno un maturo accademico in vena di galanterie le aveva detto che ci si sarebbe potuti innamorare di lei senza conoscerla, solo osservando una delle sue lettere. Ricordava di esserne un po’ arrossita, perché aveva percepito la sincerità del complimento, e perché nella spontaneità quasi ingenua di quella frase c’era un omaggio indiretto e semplice alla sua natura femminile.

Ultimò quelle righe in silenzio e appose in calce la sua firma, lasciando andare la mano – unico vezzo che si concedeva da sempre – a un sottile svolazzo sulla “s” del cognome Jarjayes. Attese qualche istante che l’inchiostro asciugasse lasciando vagare lo sguardo sulle decorazioni del soffitto: la casa era confortevole e luminosa. Stava arrivando la primavera.

Poi piegò il foglio con cura e lo sigillò per consegnarlo al corriere che attendeva fuori. Chiamò una cameriera che entrò in silenzio e silenziosamente lo ritirò su un vassoio. Fersen le aveva mandato alcuni domestici scelti personalmente per la loro discrezione e serietà, lei ne aveva congedati la metà e aveva accettato gli altri. Sorrise alla giovane che era entrata e ne ricevette un inchino gentile e grato: si era creata subito una buona armonia e la nuova servitù la rispettava perché avvertiva il suo rispetto. Era stata una sorpresa, tra l’altro, per la maggior parte di loro, perché Oscar aveva fama di persona inflessibile e fredda, solitaria e severa.

Rimasta sola si stirò sulla poltrona, lasciandosi avvolgere dal tepore del primo pomeriggio. Comandante della Guardia cittadina: era un compito impegnativo ma stimolante. La regina aveva accolto la sua supplica come meglio non si poteva: non le aveva dato un ruolo di rappresentanza, ma un incarico in cui veramente c’era molto da fare e che avrebbe messo alla prova tutte le sue doti. Però era molto diverso dalla corte, una realtà lontanissima – anche se a poca distanza - da quell’ambiente con cui Oscar non voleva più aver nulla a che vedere. Pensò che Maria Antonietta la conosceva molto meglio di quanto lei stessa credesse: aveva imparato a conoscerla osservandola in silenzio senza dirle niente, in tutti quegli anni.

Viveva sola. Quasi sempre sola. Le piaceva così, era ciò di cui aveva bisogno in quel momento. Anche Fersen, l’unico amico che le fosse rimasto, non lo vedeva mai. Quasi mai. Era passata a ringraziarlo al ritorno, aveva cenato a casa sua raccontandogli le ultime cose, poi si era ritirata presto. Hans aveva capito quell’esigenza e – pur offrendole il suo completo sostegno – non era stato in nessun modo invadente. Le faceva visita molto di rado, e mai senza prima annunciarsi con un messaggio.

Si capivano al volo, e davvero Oscar comprendeva, adesso, cosa volesse dire avere un amico come lui. Dopo aver inseguito fantasmi per anni ora poteva gioire nell’intimo, sinceramente, per il dono di quest’amicizia cui un tempo non aveva saputo dar peso. Sorrise, e pensò che davvero lei e Hans erano in armonia, perché avevano due anime simili e la stessa educazione, erano vissuti nello stesso ambiente. Per questo aveva potuto crederlo amore, una volta.

Eppure l’amore era André, era lui e lui soltanto. Con tutte le differenze, le lacerazioni, le paure del rapporto con lui. Con tutta la lontananza dei ruoli, la difficoltà di capirsi, la strada da fare per incontrarsi, l’agitazione e i timori che la prendevano anche quando stavano insieme, perché con André si sentiva tanto più fragile, vulnerabile, e quella felicità infinita che solo André sapeva donarle si reggeva su equilibri misteriosi e precari di cui solo con lui aveva fatto la prova. Equilibri nascosti, eppure così veri, il cui segreto si svelava solo quando stavano insieme. Ma si svelava sempre, ed era un segreto tenace, profondo: l’unica cosa che poteva renderla felice, ora lo sapeva bene.

Chinò il capo con un po’ di tristezza a quel pensiero, e non era solo perché l’aveva perduto. Anche per averlo, per amarlo, era inevitabile assaporare il dolore. L’amore è anche dolore, pensò con gli occhi chiusi, è amare anche il dolore di amare.

 

 

***

 

 

“Cosa? Come hai detto che si chiama?”

“De Jarjayes, perché?”

“Oscar? Oscar de Jarjayes? ”

“Proprio così: come fai a saperlo? ”

Il soldato che aveva davanti lo guardava con un’aria interrogativa, perplesso di fronte a quella reazione. “Lo conosci, Alain?”

“Sì… no… veramente no. Io no ma…”

“È vera la voce che circolava: viene dalla Guardia Reale. Ma non è un ufficiale qualsiasi, è il comandante. Il comandante in persona”.

Si grattò la testa: da non credere. Tra tutte le coincidenze possibili questa era la più grossa.

“Pare che sia un personaggio molto in vista, addirittura intimo dei Reali… Ehi, Alain…”

Si riscosse, a quel richiamo.

“E non ti hanno detto che ci viene a fare qui?”

“No. Ma so che ci viene per sua scelta, non come punizione. Ci sarà da ridere, eh? Il comandante della Guardia Reale a dare ordini a noi…”

“E’ molto strano…”, commentò quasi tra sé. Gli venne in mente André, che in quel momento era di guardia. Decise di aspettarlo fino alla fine del turno, per dirglielo.

 

 

 

***

 

Si strinse nel mantello: arrivava la bella stagione ma la notte era ancora molto fredda. Mancava poco al termine del suo turno, e non vedeva l’ora di sdraiarsi sulla branda.

Era molto stanco, eppure era calmo. Molto più calmo di quanto fosse stato negli ultimi tempi. Si mise a guardare la limpidezza del cielo in cui erano apparse le stelle in silenzio. Una stella in particolare, la più luminosa di tutte, lo attrasse. La fissò a lungo.

Sì, si sentiva meglio, e nonostante tutto aveva più fiducia, più voglia di muoversi, di fare. Fare cosa non lo sapeva, in realtà, ma era stato un bene uscire da quella situazione: non poteva portare nulla di buono ubriacarsi e passare la notte nelle taverne di Parigi recriminando su Oscar. Fare quella vita era una cosa che lo aveva umiliato.

E nemmeno poteva rimanere a casa di Alain.

No, non poteva proprio.

Diane c’era rimasta male, malissimo. Non si era reso conto davvero di cosa stava succedendo finché non l’aveva salutata.

“Dunque vai via…”, aveva mormorato poco prima che uscisse, bussando alla porta della stanza che lui divideva con Alain da quando era arrivato lì.

“Sì – rispose smettendo di sistemare la sua roba e girandosi verso di lei, con un sorriso affettuoso -. Sì, Diane, devo”.

Lei però non sembrava aver capito davvero, ed era rimasta a guardarlo esitando, prima di parlare di nuovo. Le mani che teneva in grembo si muovevano nervosamente una nell’altra.

“Devi? Perché devi?”, aveva detto tirando fuori un coraggio che lei stessa non si aspettava, e che l’aveva fatta arrossire subito, abbassare gli occhi. Poi però aveva proseguito: “E’ mio fratello che vuole che tu vada via?”

“No, no Diane - aveva risposto sollecito, avvicinandosi e guardandola -. Sono io che devo farlo. Non posso restare qui, vivere in questo modo”.

“André… quando sarai partito non ti rivedrò più…”

“Sì che mi rivedrai, verrò a trovarvi spesso. Non andrò lontano”.

“Ma non sarà come ora – aveva detto con voce flebile, senza poter impedire che una lacrima le rigasse il viso -. Non potremo più passare il pomeriggio a parlare, non ti vedrò a cena, non…”

“Diane, ti prego…”. Le aveva carezzato i capelli con un gesto istintivo e delicato, e forse era questo che aveva sbagliato, perché se l’era ritrovata tra le braccia singhiozzante, e non era stato capace di consolarla. Aveva un buon profumo, ed era così esile, dolce.

“Ti prego, piccola…”

“Non chiamarmi così! – si era ribellata -. C’è già Alain che lo fa… Io non sono una bambina, non lo sono da tanto! Ma perché non ve ne accorgete, perché…”

Allora aveva sentito nel cuore un’emozione dolorosa, e aveva taciuto. Non se n’era reso conto davvero fino a quel momento. La lasciò piangere, poi le sollevò il viso tra le mani, e la fissò con un’intensità con cui non era stata mai fissata, gli occhi nei suoi. E le parlò senza abbassare le ciglia, guardandola come si guarda una donna.

“Non è vero che non me ne accorgo, Diane. Me ne sono accorto dalla prima volta che ti ho visto. Lo so che non sei una bambina, e credo che tu sia bellissima”.

Lei aveva alzato gli occhi colpita, quasi stupita che le parlasse così, e aveva smesso di piangere.

“André… ma perché, allora…”

“No, non dire niente, ti prego… Sono io, Diane: sono io ad essere sbagliato, non tu. Non potrei mai darti quello che meriti, non sarei capace di dartelo. E non è giusto che approfitti della tua dolcezza per curare le mie ferite. Non è giusto, e non  voglio farlo. Non solo perché Alain è mio amico e mi ha salvato la vita. Non è giusto per te, Diane, per tutto quello che sei. Tu meriti molto di più, non me”.

“Le tue ferite, André…”. Aveva chinato il capo di nuovo, nel dirlo. “Io lo so… l’ho capito che ferite sono. L’ho capito da tanto… no, non devi parlarmene, ma… ma forse non è vero che non si possono curare, André, non è vero… forse possono guarire, se lasci passare il tempo, se rimani qui…”

Lui aveva sospirato con gli occhi chiusi, continuando a tenerle il viso tra le mani. Poi l’aveva guardata ancora: “No, non questa. Non questa ferita, Diane. Non così. Significherebbe solo farsi altro male, ne sono certo. E soprattutto fare del male a te. Non voglio che succeda: preferirei morire, piuttosto. Dico davvero”.

Allora lei gli aveva rivolto uno sguardo triste, carico di una dolorosa consapevolezza: “Preferiresti morire… perché non ti importa di vivere, André”.

Si era staccato, e aveva chinato il viso: era una verità che faceva male, anche se la conosceva già. “Sì, è così… forse è proprio così, Diane. E’ per questo che devo andarmene”.

Lei si era gettata sul suo petto di nuovo, allora, e lo aveva abbracciato. Questa volta l’aveva tenuta stretta, a lungo. Poi si era sciolto, e, mentre sentiva gli occhi di lei osservarlo in silenzio, aveva finito di riempire la borsa con le sue cose. L’aveva chiusa e si era diretto alla porta, rivolgendole un ultimo sguardo senza parole, prima di uscire.

 

Smise di fissare la stella, e si guardò le mani con un sospiro. Era triste, ma sereno, pensando a quei momenti. Aveva fatto la cosa giusta, e saperlo faceva bene.

Non provava amore per Diane.

 

Gli vennero in mente gli occhi di Oscar, e quanto si emozionava ogni volta a scoprirli così azzurri. Sentì il cuore iniziare a battere più forte, e provò un fremito involontario di gioia.

 

 

 

***

 

 

 

La faccia che fece André a quelle parole non se la sarebbe più scordata in tutta la vita. Era seduto sulla branda, stanco per la fine del turno di guardia, e stava per sdraiarsi, per mettersi a riposare.

“André, devo darti una notizia che credo t’interesserà”, gli disse.

“E cioè?”, rispose l’altro senza scomporsi troppo, mentre si sbottonava la giubba dell’uniforme. Bevve un sorso d’acqua, e cominciò a slacciarsi anche la camicia.

“Sai che avremo un nuovo comandante…”, iniziò.

“Sì, me l’avevi detto. Allora?”

“So chi è”.

“Ah… e la cosa dovrebbe riguardarmi in modo particolare?”

“Ho l’impressione di sì”.

L’amico si era disposto ad ascoltare, tranquillo, poggiando le mani indietro sul materasso. Gli era uscito un sospiro di stanchezza: “Bene, allora dimmelo”.

“È qualcuno che conosci: Oscar de Jarjayes”.

Quella frase era stata come uno schiaffo: André aveva sbarrato gli occhi e lo aveva fissato attonito, il suo corpo si era irrigidito. Poi si era alzato e aveva continuato a fissarlo senza parlare, tanto che per un attimo aveva pensato che volesse prenderlo per il bavero e sbatterlo contro il muro. Aveva fatto pochi passi verso la finestra, poi si era voltato di scatto verso di lui, aspettando altre spiegazioni.

“L’ho saputo oggi - l’aveva informato fissandolo di rimando, studiando l’espressione del suo viso -, ma non sono in grado di dirti altro, se non che viene qui per sua richiesta”.

André l’aveva guardato ancora, senza vederlo. C’era un foglio di carta, sul tavolo dietro di lui, con i servizi della settimana: le dita della mano destra, che vi aveva posato sopra, si erano contratte accartocciandolo. “Oscar…”, aveva detto.

“Sì, proprio Oscar, André: quello che chiamavi delirando. La persona che sono andato a cercare per dirgli che eri vivo, che doveva aiutarti. Adesso lo incontrerai, finalmente”.

Non aveva proseguito ed era rimasto in attesa. Lo sguardo di André passava oltre il suo corpo senza vederlo. Stette così a lungo, senza parlare. Incredibilmente a lungo.

 

“Bene – disse infine come riscossosi, con voce inaspettatamente fredda, determinata -. Va bene. Ci incontreremo, finalmente. Sì”.

Alain non seppe dirsi perché, ma quell’espressione e il tono di quella frase non promettevano nulla di buono.

 

 

***

 

 

“Va bene, Oscar. Io sono qui”.

Guardava da dietro una finestra della camerata, solo, e pensava a quello che era accaduto. Fuori pioveva. Quella notizia l’aveva sconvolto, ma ora aveva recuperato il dominio di sé, almeno esteriormente. Dunque Oscar era stata trasferita, e veniva a comandarli. La coincidenza era tale che si era anche chiesto se Alain non lo sapesse da prima, invece, prima di proporgli di arruolarsi. Ma no, Alain non era certo il tipo da fare una cosa simile. E perché mai avrebbe dovuto, poi…

Due giorni.

Un giorno e mezzo, ormai. Poi si sarebbero rivisti. Cercava di mantenersi freddo, ma il suo cuore era in subbuglio. Non avrebbe voluto, però era così. L’avrebbe vista di nuovo, le avrebbe parlato. Lei il comandante e lui un soldato. Una davanti all’altro, di nuovo, vestiti con gli abiti delle loro funzioni. Un comandante in uniforme, che dava ordini. Come sempre, in uniforme.

La donna che aveva amato. L’immaginò nella divisa da ufficiale e la rivide nuda davanti a sé. Rivide anche se stesso, che la sfiorava. Dio, com’era possibile… com’era possibile che avesse dimenticato… Era stata sua, era sua dentro: nessun altro conosceva la sua anima, i suoi sorrisi. Le sue paure. Nessun altro l’aveva tenuta tra le braccia come lui… nessun altro, no…

“NO! NO!”

Sferrò un pugno sulla parete. No, nessuno sapeva quello che sapeva lui, quel maledetto Fersen non poteva sapere niente di lei. Perché ne era così certo? Perché? Perché quello che aveva visto non gli bastava a credere che lo avesse dimenticato?

Oscar era sua, era soltanto sua. La sua vita gli apparteneva, gliel’aveva data tanto tempo fa. E anche lui apparteneva a lei. A nessun’altra, a lei soltanto, per sempre…

Si passò una mano tra i capelli, si accorse del proprio respiro divenuto veloce. Non riusciva a immaginare cosa avrebbe provato avendola davanti, cosa le avrebbe detto. C’era tanto rancore nel suo cuore, tanto dolore per quello che gli aveva fatto. Cosa le avrebbe detto? E a lei sarebbe importato qualcosa, poi?

E cosa avrebbe detto lei… che lo aveva lasciato in fin di vita chissà dove senza preoccuparsi nemmeno di cercarlo, quando fino al giorno prima stavano per fuggire insieme, e gli diceva che lo amava, che sarebbero stati felici…

E invece si era ripresa subito, aveva un altro uomo, quell’uomo… e non le importava neanche di sapere se fosse vivo. Come si sarebbe giustificata? Cosa gli avrebbe detto? Sì, perché gliela doveva, una spiegazione, gliela doveva, comunque...

Si chiese come avrebbe reagito nel vederselo di fronte: lei non sapeva che lo avrebbe trovato in quella caserma. Non sapeva niente di quel che gli era accaduto, neanche che era vivo, ammesso che le importasse.

E si sarebbero trovati di nuovo, dopo tutto quel tempo. Cosa avrebbero fatto? Quali parole avrebbero usato? Quali?

Era pieno d’impazienza e insieme di paura. Perché di una sola cosa era certo: sarebbe stato dolorosissimo, in qualunque caso. Non ci sarebbe stata gioia nel loro incontro.

Dio, era una situazione assurda.

Com’era potuto accadere questo… come? Dormivano insieme, si amavano… e adesso… erano finiti così.

 

Chinò il capo, sentendo le lacrime scendere sul viso. Da quanto tempo non gli succedeva più di piangere.

L’ultima volta era insieme a lei. Era stata lei a consolarlo. Avevano pianto insieme.

 

 

***

 

 

Finì di allacciare i bottoni della nuova uniforme, poi passò le mani dietro la nuca e gettò indietro la massa dei capelli: lo specchio le restituì l’immagine di un ufficiale alto e affascinante. Gli stivali bianchi contrastavano col blu dei pantaloni aderenti slanciando ancora di più la sua figura, e la spada legata al fianco, che era la sua spada da sempre, risplendeva con l’elsa lucidata, da cui pendeva il cordoncino di gala. Era tanto che non indossava un’uniforme. Un ufficiale affascinante, già…

Si guardò a lungo, prima di muoversi, ma non per vanità: in passato le era capitato, a volte. No… non era compiacimento per il suo aspetto, per l’eleganza che quell’abbigliamento le conferiva. Si guardava, e pensava a tanti anni prima, quando per la prima volta si era vista così: non era più la stessa sensazione. Non c’era un solo particolare, nella sua immagine riflessa, che non le rimandasse indietro la figura di una donna.

Allora non era uguale: allora poteva credersi un uomo, sforzarsi di esserlo, convincere se stessa di quell’assurdo.

Adesso invece si guardava e pensava che non lo era, non lo era mai stata. E non avrebbe mai voluto esserlo. Mai, nemmeno potendo scegliere. Nemmeno se il destino l’avesse condannata a passare il resto dei suoi giorni in solitudine.

Pensò ad André, e a come averlo amato l’avesse trasformata in modo irreversibile.

Scosse la testa piano, gli occhi chiusi: non faceva che pensare a lui, continuamente. Anche nei momenti meno appropriati per fantasie come quelle. Non faceva che pensare a lui, non riusciva a smettere.

Era il comandante della Guardia cittadina, e amava lui.

Le cose stavano così.

 

Volse le spalle allo specchio, serrò le labbra concentrata. Prese dal tavolo la tazza col tè e ne bevve un ultimo sorso. Prendeva servizio quel giorno. Il primo giorno nel nuovo ruolo.

Ne aveva anche voglia, tutto considerato.

 

 

 

***

 

 

“Allora, ragazzi, che ne pensate?”

Alain si grattò un orecchio col mignolo, e non rispose. Si era appena tenuta la parata di benvenuto per il nuovo comandante, e i soldati avevano voglia di commentare.

“Be’, se non altro questo qui non è un vecchio spaventapasseri – aveva azzardato uno -. È giovane, e sembra un tipo piuttosto sveglio”.

“Ah, se è per questo, non è detto che sia un bene…”

“Sì sì… ma quando c’è da rischiare la pelle è molto meglio avere come comandante uno che sa il fatto suo, lascia perdere”.

“Ehi, ma chi dice che sia sveglio davvero? Ti basta un’occhiata da lontano?”

“Be’, comunque il colpo d’occhio fa decisamente un’impressione migliore…”

“Se ti fidi delle apparenze… A me questo tizio tutto riccioli, che pare tirato a lucido per un ballo, non mi dà proprio fiducia, invece. Ne preferivo uno con le gambe storte, ma con due palle così”.

“Già, viene dalla Guardia Reale…”

“Starà tutto il giorno ad annusare profumo”.

“Ah, con la puzza che c’è qui, di sicuro…”

Risero tutti.

“Io non lo darei troppo per scontato, invece: avete visto come cavalca? Quello è uno che non lo disarcioni neanche a fucilate, te lo dico io”.

“Già… e che sguardo attento… ci sono passato a poca distanza, marciando, e mi ha squadrato da cima a fondo”.

“Pessima notizia, allora: fra poco farà girare l’ordine di lucidare a specchio i bottoni dell’uniforme”.

“No, non guardava quello, inquadrava la situazione. E poi non può certo averci studiati tutti da lontano, durante una parata”.

“Io non ci conterei…”.

“Bah… secondo me c’è poco da fidarsi. In ogni caso sono sempre grane. Che ne dici, Alain?”.

“Non ne ho idea”, rispose quello. Poi, giratosi, disse: “E tu, André? Cosa ne pensi tu?”

Si voltarono tutti verso il nuovo venuto, che non si mosse dalla finestra, rimanendo di spalle, e non rispose.

 

Poi, quando i commenti cessarono e gli altri si dispersero, Alain gli andò vicino. André rimase fermo, assorto.

“Ehi, voi due!”

Si voltarono: li aveva chiamati un compagno. “Il comandante è nel suo ufficio, e vuole parlare con un rappresentante dei soldati”

“Ah, e cosa vuole?”, chiese Alain.

“Spiegare le sue regole”, gli rispose con voce neutra André, alle sue spalle. Alain lo guardò.

“Forse dovresti andarci tu, Alain - disse l’altro soldato -. Ti consideriamo il nostro capo, e potrai parlare per tutti”.

“Io? No, non credo proprio”

“Perché no, Alain?”, intervenne André con una strana determinazione nel tono. “Credo sia ora di andare a incontrarlo, il nuovo comandante. Verrò io con te”.

L’altro non disse niente, e lo fissò studiando la sua espressione.

“Allora va bene – rispose infine -. Andiamo”.

Questa non me la perdo per niente al mondo, pensò tra sé.

 

 

***

 

 

Quando sentì bussare alla porta era seduta alla scrivania. “Avanti”, disse subito, alzando gli occhi dalle carte che stava leggendo.

Sulla soglia si fecero due soldati, uno dei quali, seguendo l’altro, era coperto dalla penombra del corridoio. Aveva sollevato il viso nella sua direzione.

“Entrate…” disse guardando verso di loro, senza finire la frase: qualcosa, in quel movimento, le era sembrato familiare.

Ma tutto fu improvviso, e non si rese bene conto di ciò che stava accadendo.

“Soldato Soissons, colonnello – disse Alain facendo il saluto, sull’attenti – siamo a vostra disposizione”.

“Bene. Vi ho chiamati… ANDRÉ!”

 

Il comandante si era alzato dalla sedia di scatto, impallidendo violentemente. Li fissava, gli occhi sbarrati: “André…”

Il suo compagno allora aveva fatto un passo all’interno della stanza, entrando nel cono di luce della lampada: “Ciao, Oscar”, aveva detto calmo, una voce irreale. Ma Oscar de Jarjayes non aveva risposto.

Era rimasto immobile, davanti a loro. Pallidissimo. Il suo corpo pareva di ghiaccio, non respirava. Era rimasto così per lunghi istanti, le mani aperte sul ripiano di legno. “André, sei tu…”

Poi aveva cercato di muoversi, ma le gambe non gli avevano retto. Era caduto a terra senza un gemito, svenuto accanto alla scrivania.

“Oscar…”

Allora era stato André ad andargli subito accanto, chiamandolo con un tono completamente diverso, quasi commosso. Si era chinato sul suo corpo disteso e gli aveva sollevato la testa con delicatezza. Poi l’aveva preso in braccio, come se non avesse peso, e guardandolo con le lacrime agli occhi lo aveva portato fino al divano che era nella stanza. Ve lo aveva adagiato, slacciandogli senza incertezze i primi bottoni dell’uniforme.

“Oscar…”, mormorava, sfiorando il suo viso con una mano.

 

“André, ma…”

Alain era confuso da quella scena: “È… svenuto…”, disse.

Li fissava, dietro di loro, e così da vicino il colonnello Jarjayes aveva lineamenti perfetti, una pelle chiara, ciglia lunghe distese sugli occhi chiusi.

André gli carezzava i capelli, seduto accanto, quasi piangendo.

“Il comandante è svenuto, André…”

L’amico chinò il viso, allora, e scosse il capo in silenzio, tornando a Oscar, poi, con un dolore profondo nello sguardo. “Non le succede mai – disse dandogli le spalle, mentre l’accarezzava -. Non l’avevo mai vista svenire”.

“Non le succede? Ma cosa…”. Li osservava stupefatto, non riuscendo a crederci. Le mani bianchissime e affusolate, dentro quelle di André. E quei capelli morbidi, vaporosi. E la voce che aveva…

“Cristo… ma è… ANDRÉ… è una donna!”

Il suo amico annuì, senza voltarsi.

“Una donna…”

Lo fissò con la bocca aperta, quando si volse, infine, verso di lui.

“Sì, è una donna, Alain. È Oscar”.

“Oscar… il nome che chiamavi…”

Era pazzesco.

“André, ma allora…”

L’altro lo fissava, senza dire niente.

“Allora è… è lei, André? Oscar è quella donna?”

“Sì”.

“Dio…”

Si portò una mano alla bocca, osservando i gesti esperti delle mani di André sul corpo di lei: le sbottonava il resto della giacca, liberava il collo dalla camicia. Le dita infilate piano tra i suoi capelli, accanto alla fronte bianca. Con l’altra mano le carezzava un braccio, abbandonato lungo il corpo.

“È una donna… è lei… la tua donna… è lei…”

Lo vide annuire, lo sentì dire: “Sì, era lei”.

 

Quanti minuti erano passati? Non si rendeva conto. La scena che gli stava davanti era incredibile.

Poi trovò finalmente il coraggio per fare quella domanda. Ma non servì farla tutta: André rispose prima.

“Ma come è possibile…”

“Oscar è la sesta figlia del generale Jarjayes, che non ha avuto eredi maschi – disse con un tono di voce incolore, guardando lei -. Suo padre le ha dato un nome maschile e l’ha educata come un uomo. Comanda soldati da sempre, ed è eccezionale”.

“E tu…”

“Io ero il suo attendente. Siamo cresciuti insieme”.

“Attendente… ecco perché la spada, le armi…”

“Sì”.

“E vi conoscete da sempre”.

“Da bambini. Mi portarono nella sua casa alla morte dei miei genitori. Il padre voleva che crescesse come un uomo, che avesse compagnia maschile”.

“E ha avuto te”.

“Sì, me. Per una vita intera. Siamo sempre stati insieme”.

“E tu non hai mai pensato che fosse un uomo…”

“No”.

 

“Dio, André… è incredibile… Ma come hanno potuto farlo…”

“È incredibile, sì… e lo hanno fatto”.

“Ora capisco tutto…”

“Non potevo spiegartelo”.

“No. Non ci avrei creduto”.

 

Cominciava a respirare normalmente, riprendeva conoscenza. Lui le carezzava il viso.

“E ti ama…”

“Mi amava. E anch’io l’amavo”.

“No, tu l’ami ancora, André”.

Non ebbe risposta.

 

“Adesso lasciaci, ti prego”.

“Sì, certo…”

Lo disse senza voltarsi, mentre lo sentiva uscire.

“Non parlarne con nessuno, Alain. Nessuno”.

 

 

Continua...

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