Nelle mani

parte XV

 

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Era notte inoltrata, quando tornò nella sua elegante dimora di Parigi, e aveva in cuore un miscuglio inestricabile di sgomento e sollievo. Oscar lo aveva salutato con le lacrime agli occhi, abbracciandolo con un’intensità e un affetto che lo avevano scosso. Era agitata e riconoscente, era sconvolta e animata da mille intenzioni di agire, subito, che non sapeva mettere in ordine. Era confusa e disperata e spaventata per ciò che aveva scoperto, al punto da avergli fatto temere, per un istante, che non avrebbe retto all’emozione. Era adirata e stravolta, e a un certo momento aveva anche impugnato la spada e l’aveva persino sguainata, aprendo la porta mentre tra i denti mormorava il nome di suo padre. A fatica era riuscito a farla rientrare, a farla ragionare, a convincerla che non era quello il modo di agire per ottenere davvero un risultato. L’aveva fatta sedere e insieme a lei aveva delineato, parlando per più di un’ora, le linee di una strategia da seguire per affrontare quella questione, per appurare prima di tutto come stavano le cose, in modo da potersi muovere senza commettere errori. Non sapeva se poi lei l’avrebbe seguita veramente, quella strategia: era completamente fuori di sé la Oscar che aveva lasciato a palazzo Jarjayes. Le aveva offerto il suo completo sostegno, e se n’era andato, infine, dopo averle fatto promettere che si sarebbe messa a letto, per riposare almeno poche ore prima di quello che l’aspettava. Salutarla gli aveva scaldato il cuore, in quell’abbraccio fraterno, colmo di vero affetto, con cui l’aveva stretto. Era stato un momento toccante, lontanissimo dal vuoto formalismo dei convenevoli in uso tra persone di rango… e anche tra loro fino a quella sera, in fondo.

Era di nuovo, improvvisamente, viva. Fersen era andato via felice e preoccupato per lei, e profondamente turbato per ciò che stava provando nel proprio cuore.

 

Di dormire non aveva alcuna voglia. Davanti al camino che il cameriere aveva tenuto acceso si versò da solo un bicchiere di liquore. E, stavolta, bevve. Pensò al sapore delle labbra di Oscar, al calore del suo corpo tra le braccia.

Provò una tremenda fitta di dolore, perché non avrebbe mai più provato quella sensazione, lo sapeva bene. Fu un attimo, poi riuscì a dominarsi.

Gli balenò nella mente l’immagine di Maria Antonietta abbandonata a lui, di quante volte le aveva detto ti amo mentre la possedeva con passione come una donna e basta, non come una regina. E di come lei gli aveva risposto, gemendo. Di come a letto, soltanto a letto, solo in quei momenti, riuscivano a darsi del tu. Di tutti gli anni che aveva passato ad amarla. Disperatamente, come un folle, mentre tutta Versailles malignava sul loro amore. Il favorito di sua maestà, l’amante della regina. Questo era lui, era sempre stato soltanto questo, anche quando lei aveva diciott’anni ed erano due ragazzi capaci ancora di fare dei sogni. Il suo amante, ancora adesso che quasi non poteva tenerla tra le braccia, ormai, e che comunque tenerla tra le braccia in qualche notte disperata e rara non gli bastava più da molto tempo, gli faceva soltanto rabbia. La sovrana del regno di Francia, moglie di Luigi Capeto e madre del delfino. Lo sarebbe stata sempre. Il povero pazzo che aveva amato una regina come se fosse una donna, che aveva desiderato per tutta la vita che fosse solo una donna. 

Pensò a Oscar e al suo attendente, e quasi li invidiò. Fuggire insieme. Lontano dal mondo. Perché si amavano. Loro avevano potuto pensarlo, avevano potuto crederci. Forse potevano ancora, chissà… se lui era ancora vivo… ammesso che lo fosse.

Ma una regina? Si può rapire una regina, fuggire con lei? Si può stare tra le gambe di una regina con la presunzione di amarla? Di amare soltanto lei, rinunciando a tutto? A tutto?

 

Strinse il calice talmente forte nella mano che lo spezzò. Provò una gioia feroce a vedere il sangue che usciva dal taglio sul palmo, a sentire il dolore dell’alcol sulla ferita. Si medicò rapidamente, da solo, con una fasciatura stretta. Poi indossò di nuovo il mantello, e ordinò la carrozza. A Parigi c’era un ballo che sarebbe durato fino all’alba, e madame d’Argincourt ci sarebbe stata di sicuro. L’avrebbe portata di nascosto in qualche salottino privato del Palazzo Reale, e avrebbero finito di ubriacarsi insieme a lume di candela. Poi l’avrebbe sbattuta dietro una tenda, come facevano sempre, nei posti più impensati, e l’avrebbe presa contro il muro.

 

 

***

 

Si era messa a letto, come aveva promesso a Fersen, ma sembrava che tra le lenzuola ci fossero chiodi. Si girava senza trovare requie, pensando a tutto quello che era accaduto, a ciò che avrebbe fatto l’indomani, al colloquio col conte di quella sera. E a quel bacio che gli aveva dato, lei, per prima, con dentro solo l’impulso di annullarsi. Come aveva potuto farlo?

Come aveva potuto? E fin dove sarebbe arrivata, se non fosse stato lui a fermarsi?

Da nessuna parte, no: il ricordo dei baci di André l’aveva assalita con tale violenza, al contatto con le labbra di Fersen, che aveva desiderato morire.

Aveva toccato il fondo, quella sera. Davvero aveva toccato il fondo.

 

André… André…

André non l’aveva lasciata, André l’amava. Non era sua quella lettera odiosa che l’aveva distrutta: altri l’avevano scritta, non lui. Lui l’amava, l’amava… l’aveva sempre amata… non era fuggito per paura abbandonandola, non l’avrebbe mai fatto, no…

André… e il suo sorriso che le tornava alla mente, adesso, e il caldo del suo abbraccio, e il sollievo e la gioia di aver ritrovato, all’improvviso, tutto il suo amore, le sue parole, i suoi baci. Come la prima volta… la prima volta, sì… che l’aveva stretta, dentro il suo letto, che era entrato in lei pieno di passione, di desiderio, di tenerezza, mentre i loro respiri si confondevano, al buio. Solo loro, solo loro due… era sempre stata l’unica cosa che contava… e quanta gioia poteva dare solo pensarlo, solo sapere che non c’era niente di vero in quell’incubo, che non era vero che l’aveva lasciata, no… non era vero… non era vero…

“André!”

Lo gridò piangendo, mordendo il lenzuolo, incapace di resistere a quella gioia, a quel dolore lancinante. E più ci pensava più l’angoscia, invece che andarsene, s’impadroniva di lei. Dov’era? Cosa gli avevano fatto? Maledetti… cosa avevano fatto ad André? Non riusciva a porre un argine alla paura, al dolore. Da quanto tempo non lo vedeva, da quanto tempo non era più tornato, non lo aveva più visto? André non le sarebbe mai stato così lontano volontariamente… no… no… come aveva potuto crederlo? Cosa… che cosa gli avevano fatto, cosa? Fersen aveva detto che poteva essere qualcosa di terribile… e aveva ragione… aveva ragione… Dio… aveva ragione…

Si alzò in piedi, incapace di restare là, tra quelle coperte inutili. Camminava per la stanza come una furia.  Spalancò la finestra e si fece investire da una raffica di vento gelido, gridando. Un grido roco e disperato.

André.

Lo chiamò, invocò il suo nome nella notte, incurante di tutto, fuori di sé. Dove si trovava? Cosa gli era accaduto? E se fosse morto… morto? Morto da tanto tempo, senza che lei nemmeno lo sapesse, mentre lei pensava quelle cose atroci di lui, mentre lei lo odiava perché era stata ingannata? Sentì che il dolore stava colmando la misura, che stava per svenire. Potevano averlo ucciso… sì… era possibile… era possibile tutto, dopo quello che era successo: se avevano potuto fare a lei una cosa simile, quali scrupoli si sarebbero mai fatti per André? Voltò le spalle alla finestra, le mani posate sul davanzale. Il vento freddo le entrava nelle ossa, ma non poteva respirare, le mancava l’aria. Portò una mano alla fronte, era posseduta da una febbre lucida. Stava delirando, eppure era vero, era tutto vero…

Poteva essere morto. Poteva averlo ritrovato, quella notte, solo per scoprire che era morto. Morto, in quel modo atroce, senza che lei nemmeno lo sapesse, gli potesse essere accanto per morire con lui. Morto chiamandola, invocandola… Dio… era morto senz’altro, se non era più venuto a cercarla… era morto…

La chiarezza con cui ne fu certa, all’improvviso, la portò via a se stessa. Ebbe voglia di uccidersi, di uccidere, gettò a terra tutto quello che aveva intorno, nella sua stanza, urlando. Guardò il cielo fuori dalla finestra mentre il vento le soffiava feroce tra i capelli, col pianto gelato negli occhi. Cadde a terra con un grido, sul pavimento freddo.

 

Che succedeva? Cosa era stato di lei? Cosa era stato della sua vita, del suo amore? Che gli avevano fatto?

No… non poteva essere vero… non poteva essere. Doveva trovare la forza di sperare, doveva farlo, doveva credere che André fosse vivo, che lo avrebbe ritrovato. Non poteva cedere a quel dolore, doveva essere più forte… Doveva trovare il coraggio di essere più forte… il coraggio di crederci.

Si alzò, chiuse la finestra, in un solo gesto, lottando con furia rabbiosa contro il vento. Calma, doveva stare calma. Calmarsi. Doveva credere. Credere. Credere che André fosse vivo, credere al loro amore, a se stessa. Doveva credere a tutte le cose cui da troppo tempo non aveva più creduto, perché smettere di credere l’aveva annientata, l’aveva distrutta.

 

Era sempre stata la fede la sua forza.

Ma non era più se stessa, da troppo tempo.

Da un tempo infinito, da quando aveva perso André.

Fino a quella sera, a quella sera con Fersen.

 

Per fortuna Hans aveva capito, ed era riuscito ad aiutarla invece che approfittare della sua debolezza. Era una persona sincera, Hans. E un gentiluomo. L’aveva tirata fuori da quell’inferno. Se ripensava alle cose che avevano scoperto, a ciò che aveva compreso, sentiva il sangue ribollire d’ira, d’incredulità, di sgomento. Di odio feroce contro tutto il mondo, contro suo padre, contro quell’azione infame di cui era stata vittima: che sì, a guardarla ora, da lì, era così evidente. E così spaventosamente abominevole. Eppure ce l’aveva con se stessa, prima di tutto.

Come aveva potuto farsi ingannare da quella lettera? Come aveva potuto per tanto tempo pensare che davvero André potesse lasciarla così? Dopo tutte le loro notti, tutti i loro discorsi, dopo le sue mani che l’avevano accarezzata, dopo il suo sonno abbandonato a lei?

Dopo tutto quello che André aveva fatto per averla, quando lei ancora esitava, impaurita da quel sentimento? Dopo quel bacio al fiume, quel primo giorno… sarebbe bastato quello… dopo che le aveva detto di amarla, in ginocchio, tenendole la mano?

“Perché non vi siete fidata del vostro amore per lui?”. Questo aveva detto Fersen, e aveva ragione. Perché non si era fidata? Così debole, così malfermo era il sentimento che provava per André? Così fragile che non erano bastati mesi di una relazione intensissima, l’unica della sua vita, mesi di baci e di notti appassionate nel suo letto, di rischi corsi per stare con lui, e una vita, Dio, una vita intera passata insieme, a farla credere nel suo amore?

Era bastato l’intrigo di una vecchia puttana a farla cadere così? Lei, proprio lei, che svolgeva il ruolo di comandante della Guardia Reale, che proteggeva Sua Maestà, che tutti i giorni aveva a che fare con cose simili? Come aveva potuto caderci in quel modo, senza farsi venire nemmeno un dubbio?

 

Troppo amore. Era stato troppo amore per lui. Era a tal punto coinvolta dalla storia con André da aver perduto qualsiasi lucidità.

Troppo amore.

O troppo poco?

Questa domanda le si affacciò alla mente senza che potesse darvi una risposta. Si detestò con tutte le forze.

 

Una vecchia puttana. E suo padre. Suo padre. Come aveva potuto, suo padre, arrivare a tanto? Che razza di mostro era, per farle una cosa simile? Un inganno vergognoso, escogitato con la sua amante, ai danni di sua figlia? Maledetto, e parlava d’onore, di principi… maledetto…

Lasciarla soffrire così, per tutto quel tempo, senza dire niente… L’odio che provò a quel pensiero la rese certa che, se quella notte il generale fosse stato in casa, lei l’avrebbe ucciso con le sue mani.

Ma lo avrebbe fatto domani. Domani.

 

Quando l’alba nebbiosa s’insinuò tra le ombre dei tetti di palazzo Jarjayes, Oscar era già avvolta nel mantello, e uscì.

 

 

***

 

 

Invece che tornare a Parigi aveva lasciato che il cavallo lo conducesse dove voleva, in mezzo alla campagna gelata. A un certo punto l’animale, stanco, aveva rallentato il passo, e lui l’aveva lasciato fare, quasi abbandonandosi sulle redini. Era stremato. Aveva freddo. E la testa gli scoppiava.

Il cuore era assalito da emozioni incontenibili.

Eppure non riusciva a formulare un solo pensiero.

Oscar.

Oscar che baciava il conte di Fersen. Oscar che baciava il conte di Fersen.

Oscar che baciava il conte di Fersen.

 

Riusciva a vedere soltanto quello. Senza sapere in alcun modo reagire.

 

Oscar baciava un altro uomo. Un uomo che non era lui.

Quell’uomo.

 

Quell’uomo che aveva amato prima di lui, che aveva desiderato per anni, prima di lui. Mentre lui già la desiderava, l’amava. Per anni.

 

E non pensava a ciò che gli era successo. Non le importava che l’avessero quasi ucciso, che fosse morto, che fosse vivo per chissà quale miracolo, per quale beffa del destino, solo per poterla vedere tra le braccia del conte di Fersen, dimentica di lui. Dopo tutto quello che si erano detti, si erano dati, promessi…

 

Con quell’uomo, Oscar…

Perché…

 

Continuava a desiderare, a volere solo quell’uomo? Dopo tutto l’amore che le aveva donato? Che lei aveva ricambiato… ricambiato, sì…

Non aveva mai smesso di amare, di desiderare quell’uomo?

 

PERCHÉ, OSCAR?

 

Era un dolore atroce, insensato, quello che sentiva nel petto. Sordo a qualsiasi tipo di spiegazione. Non poteva esserci una ragione al mondo perché quello che aveva visto fosse spiegato in qualche modo. Fosse comprensibile, accettabile, perdonabile in qualche modo.

 

No.

Non dopo tutto quello che c’era stato tra loro.

 

Poteva accadere prima, prima che diventasse sua, e non avrebbe smesso di amarla con tutto il cuore, di desiderarla, di tormentarsi per lei.

 

Ma dopo no.

No.

Non dopo che le aveva dato tutto se stesso, tutto il suo amore, tutto ciò che sarebbe mai stato capace di dare a qualcuno. Tutta la sua vita.

 

Non è bastato, Oscar? Maledizione? Non è bastato?

Ti ho dato tutto. Tutto quello che potevo darti. Tutto.

E non è bastato?

 

Oscar non lo amava.

Era incredibile, atroce. Ma non lo amava.

Non lo amava, non lo aveva mai amato.

 

Non lo amava mentre gemeva, gridava di piacere tra le sue braccia? Mentre gli si offriva completamente, tutta la notte? Mentre baciava la sua pelle, il suo corpo, mentre ascoltava le sue parole d’amore e i suoi sospiri abbandonati, pieni di fiducia, di dedizione assoluta? Non lo amava la prima volta che aveva fatto l’amore con lui, che era stata la prima volta per tutti e due, la notte più dolce, più meravigliosa del mondo?

Non lo amava quella sera sulla paglia, chiusi e soli nelle scuderie, mentre lo tratteneva dentro di sé, mentre lo chiamava, lo spingeva a donarsi, a rimanere in lei? Non lo amava mentre lo sentiva godere dentro di lei, mentre a lui pareva di morire per il troppo piacere, per la troppa felicità, e gli sembrava che l’universo stesse finendo in quel momento, dentro di loro, con loro al centro, su quella paglia morbida, tiepida? Lei non lo amava? Non lo amava?

 

PERCHÉ?

 

“OSCAR, PERCHÉ?”

 

Lo gridò completamente fuori di sé, sentendo la voce perdersi come un’eco tra i campi, riportandogli senza risposta la sua stessa domanda.

 

Perché?

 

Non c’era un perché. Non esisteva, non poteva esistere una spiegazione al mondo per questo.

Niente al mondo poteva giustificarlo.

Niente.

 

Sentì il cuore gelato, e rimase atterrito per ciò che stava provando.

 

La odiava.

Non aveva mai odiato Oscar.

 

Adesso la odiava.

 

***

 

 

C’era nebbia quel mattino, a Parigi, ma non era una novità: quello era un inverno come da molti anni non ce n’erano più stati. Il segretario di madame de Surgis si strinse nella cappa di lana, uscendo di casa, per proteggersi dal freddo. Era ancora quasi buio.

Ogni mattina si svegliava all’alba, anche se poi la padrona non richiedeva mai la sua opera prima del mezzogiorno: a palazzo Surgis, infatti, egli godeva di una posizione di prestigio e, recandosi per tempo al lavoro, poteva dedicare le ore che precedevano il risveglio di Madame a fare i suoi interessi e il suo piacere in vari modi. Di norma controllava la contabilità della casa, che gli era affidata in qualità di amministratore, e ritoccava spesso le cifre a suo vantaggio. Ma, soprattutto, le ore del mattino le passava comodamente a leggere, gustando una ricca colazione che si faceva servire nel suo studio dalle cameriere più giovani e più graziose. Spesso le tratteneva con sé, e loro non si rifiutavano, perché avevano tutto da guadagnare dalla sua amicizia e moltissimo da perdere dalla sua ostilità. Aveva un paio di amanti fisse, tra il personale femminile, e svariate altre compagne occasionali. L’ultimo acquisto, di qualche settimana prima, stimolava incredibilmente la sua lussuria, perché si era rivelata fin dall’inizio un’amante esperta e disinibita, a dispetto della giovane età. L’ultima volta si era fatta possedere da dietro, lasciandosi spingere contro lo scrittoio, e gli aveva mormorato cose indicibili mentre lui giungeva al piacere.

Sorrise di soddisfazione al pensiero: era una bella vita, la sua, e aveva messo da parte parecchio denaro, grazie ai servigi particolari che offriva alla contessa. Non era facile contraffare con abilità la grafia di chiunque, né imitarne lo stile di scrittura. La maggior parte dei nobili presso cui aveva prestato opera era semianalfabeta, e non sarebbe mai arrivata a certe finezze. Pochi sapevano fare quel mestiere come lui, e con la sua stessa discrezione.

 

Percorrendo i vicoli che conducevano alla via principale dalla sua abitazione si incamminò verso la piazza. Lì avrebbe fermato una carrozza per dirigersi a palazzo Surgis. La città era silenziosa e avvolta dalla nebbia. Rari rumori si udivano come eco lontane per le strade vuote.

Quella quiete quasi surreale gli dava sempre un po’ d’ansia, ma col tempo aveva imparato a non farci caso. A capo chino, per proteggersi dal freddo, imboccò l’ultimo vicolo, più stretto e deserto, che, tagliando la via, sbucava diritto nella piazza.

Quando fu a metà, qualcosa, non seppe dire bene che cosa, lo indusse ad alzare gli occhi, facendogli sollevare lo sguardo di sotto il cappello. Trasalì.

Al centro della strada, in mezzo alla nebbia, una figura immobile gli sbarrava il passo. Era un cavaliere biondo, avvolto in un mantello scuro.

 

***

 

 

 

Furono in molti, quel giorno, a vederla arrivare a Versailles. Ma pochi assistettero veramente alla scena che si svolse sotto le volte affrescate della reggia, e che fece il giro della corte in mezz’ora, raccontata e amplificata con mille particolari diversi.

Il comandante della Guardia Reale entrò da solo, con ancora addosso il mantello e i guanti, nel salotto dove madame de Surgis conversava amabilmente con altri cortigiani, e si avvicinò a lei con passo deciso, con in mano il frustino. La contessa sbiancò al solo vedere il suo volto, e non fece in tempo ad improvvisare una reazione qualsiasi, atteggiando i lineamenti all’abituale contegno, che si ritrovò scaraventata a terra insieme al divano su cui era seduta, che Oscar de Jarjayes aveva rovesciato con un solo calcio preciso.

Senza nemmeno riuscire a urlare, tanto era il suo stupore, sollevò un viso sbalordito e impaurito verso di lei, le mani per terra, la parrucca spostata di traverso sulla fronte, che faceva piovere cipria sul tappeto lasciando scoperta metà del capo giallastro, i capelli dispersi in ciuffi radi e crespi sulla nuca.

“Alzatevi”, le intimò Oscar: e poi, dal momento che restava a terra, la prese con una mano per l’abito, afferrando dietro la schiena la stoffa tirata del corsetto. La trascinò così fino alla porta della sala attigua, e ve la gettò dentro con una spinta, davanti a tutti i presenti.

“Alzatevi”, ripeté.

Umiliata e furente, la contessa perse la testa, ed estrasse dalla veste uno stiletto dalla punta acuminata, che alzò verso Oscar. Il comandante della Guardia la prevenne con una reazione fulminea, schiacciandole sotto lo stivale la mano, che si ferì con la lama, e nel respingerla la colpì col frustino in pieno viso, facendola urlare di dolore e provocando lo svenimento di alcune dame.

Poi la spinse nella stanza, vi entrò chiudendo la porta, e rimase sola con lei, lasciando i presenti allibiti.

 

*

 

“Adesso voglio che mi diciate tutto”, le ordinò con un tono minaccioso e freddo, che la spaventò a morte.

“Cosa…”, esitò, tuttavia.

Non fece in tempo a finire la frase, e si trovò con la spada puntata alla gola, mentre Oscar pronunciava poche parole terribili:

“Io non ho mai ucciso nessuno a sangue freddo, signora, ma con voi lo farò. Nascondetemi la verità solo un altro istante e non esiterò a passarvi da parte a parte”.

“Vi prego, non fatemi del male!”, implorò tremante madame de Surgis.

“Preghiera notevole, visto che proviene da voi - commentò Oscar indignata –, che passate la vita a fare del male agli altri!”

“Vi prego… vi prego… comandante…”

“Mi pregate, certo… ma non avete esitato un attimo a compiere quest’azione turpe contro di me, voi che ora mi pregate”. Spinse appena la spada verso la gola della donna, che sbarrò gli occhi atterrita. “Avete ragione a pregare, contessa. Mi pregherete ancora di più tra poco, vi assicuro”.

Madame de Surgis, allora, crollò completamente, e iniziò a lacrimare senza ritegno: “Vi supplico, vi scongiuro, farò tutto quello che mi chiederete, vi dirò tutto, ma non fatemi del male… vi prego…”

Oscar le scostò la spada dalla gola e gliela puntò a petto, inducendola ad alzarsi col solo movimento del braccio.

“Voglio sapere solo una cosa da voi, e pensate bene a ciò che risponderete, se non volete che siano le vostre ultime parole”. La fissò con uno sguardo terribile e risoluto, nel dirlo, e articolò la domanda con tono lento e grave: “Voglio sapere cosa avete fatto ad André”.

La donna, bianca come un lenzuolo, guardò davanti a sé con un’espressione perduta. Vide Oscar furente che aspettava la sua risposta, sentì la spada premere sul suo petto, e capì che poteva dire soltanto la verità. Lo fece tremando, preparandosi alla fine:

“Ho pagato due uomini perché lo aggredissero…”

Il pallore che si stese sul volto di Oscar le incuté un terrore ancora più violento.

“E cosa gli hanno fatto…”, la sentì dire con una voce irreale, che sembrava venire da un altro mondo.

“Lo hanno ferito… con la pistola… vi prego… non so cosa gli sia accaduto… non lo so… non lo so davvero…”

“Non lo sapete? E come pensate che vi creda? Voi l’avete ucciso? L’avete ucciso? E’ morto? Ditemelo subito, o vi ammazzo qui”.

“No… non lo so… ve lo giuro… io non lo so… non lo so. Sono fuggiti lasciandolo a terra ferito… hanno detto questo… ve lo giuro… poi è scomparso…”

“Scomparso? Che vuol dire scomparso? Che cosa?”

“Lo abbiamo cercato, non c’era più… non era più lì…”

“Lo avete cercato? Chi lo ha cercato? E come?”

Le si avvicinò di un passo, tenendole la spada puntata contro, e per un istante provò l’impulso irrefrenabile di ucciderla.

“Vostro padre… vostro padre lo ha fatto cercare dappertutto… ma non lo ha trovato…”

“Mio padre!”, ripeté Oscar piena d’ira e disprezzo, come guardando dentro di sé. “Certo, mio padre! E perché lo ha fatto cercare? Voleva accertarsi che fosse morto? Perché? Parlate, maledetta!”

“No! No… cercava voi, Oscar… cercava voi… voi eravate scomparsa, come lui… non sapevamo se quegli uomini dicevano il vero… vostro padre temeva foste morta… lo ha fatto cercare perché cercava voi… voi eravate sparita… Vi prego, è la verità… la situazione ci è sfuggita di mano… non sapevamo cosa fosse successo… vi prego, credetemi… è così…”

Oscar allentò la pressione della spada. Era così, certo, ora stava dicendo la verità. Era tutto terribilmente atroce e credibile. Davvero non sapevano cosa fosse accaduto ad André.

“Ora voi mi porterete da quei due assassini, così glielo chiederò io cosa è successo”, disse terrea alla contessa.

Madame de Surgis crollò a terra di nuovo, annientata dalla paura. “Non posso - pianse -, non posso…”

“Oh sì che potete, ve lo assicuro… sarà l’ultima cosa che farete prima di morire…”

Ma la donna singhiozzava ancora, abbandonata su se stessa, nonostante fosse in preda al terrore, e Oscar capì.

“Non potete. Non potete perché sono morti, vero? Li avete uccisi… È vero, maledetta, è vero? Volevate eliminare ogni prova, ogni testimone… vero?”

“Sì… sì… è vero, è vero… lo confesso… l’ho fatto… l’ho fatto… l’ho fatto… Non uccidetemi… vi prego…”

Non riuscì a dire altro, e rimase a terra, accasciata, incapace di muoversi. Un tremito violento si era impadronito del suo corpo. Un lamento stridulo e continuo le usciva dalla gola senza che potesse arrestarlo. Sentì la biancheria, la veste bagnata addosso, vide una chiazza d’urina allargarsi sul tappeto, sotto di lei.

 

 

 

***

 

 

“Voglio sposarti, amore”. Aveva gli occhi accesi e commossi, mentre lo diceva, e la teneva stretta, dopo averla baciata con tutto se stesso, tra le coperte. I loro corpi nudi si sfioravano, in un fremito dolce.

Oscar tremò a quel ricordo, e non riuscì a trattenere le lacrime. Si portò una mano alla fronte: la testa le scoppiava. Seduta davanti al camino del salone, nella sua casa, fissava il fuoco senza vederlo.

Era morto. Forse era morto. Lo avevano aggredito, gli avevano sparato, lo avevano lasciato morente in mezzo a una strada. E non sapevano dove fosse, non erano in grado di dirlo.

Aveva fatto confessare ogni cosa a madame de Surgis, trattandola come l’ultima delle donnacce, e, alla fine di quel colloquio, quando l’aveva costretta a raccontare tutto – di come avevano ordito quell’intrigo, del ruolo che aveva avuto lei, e suo padre – l’aveva lasciata a terra tremebonda e disfatta, ed era uscita dalla stanza andandosene, davanti agli sguardi attoniti dei cortigiani che erano rimasti fuori.

Certo, non era questo il piano di Fersen.

Il conte le aveva consigliato prudenza: ma quando dal segretario di quella donna aveva saputo tutta la verità, quando spingendolo in un angolo lo aveva disarmato in un attimo e ridotto all’impotenza, quando lo aveva costretto a dire tutto di quella lettera che le avevano rubato, di come avevano falsificato la grafia di André, di quante menzogne avevano inventato per farle del male, per dividerli, e di come c’erano riusciti, allora la rabbia l’aveva invasa, e aveva smesso di controllarsi.

Per poco non lo aveva ucciso, fuori di sé dall’ira, e l’aveva lasciato terrorizzato e ansimante in quel vicolo. Era montata a cavallo e aveva vagato a lungo per Parigi, in un delirio furente, sentendosi sopraffare dal dolore. Poi era andata a cercare i veri colpevoli.

Madame de Surgis era a Versailles, ma questo non l’aveva salvata. L’aveva affrontata davanti a tutti e ancora non riusciva a spiegarsi come non l’avesse uccisa. Non sapeva quali sarebbero state le conseguenze del suo gesto, ma non le importava: con la corte, con quella vita, coi nobili, aveva chiuso. Aveva chiuso per sempre.

Aspettava suo padre.

 

Sarebbe arrivato entro breve tempo, lo sapeva: certo a quell’ora era a conoscenza di ciò che aveva fatto a Versailles.

Oscar era tornata a casa e aveva lasciato il mantello nel vestibolo, andando poi nel salone ad attenderlo. Era lì da ore, nel frattempo si era fatto buio. Lei era rimasta immobile, seduta.

E, mentre aspettava, era entrata la governante, la nonna di André.

“Oscar…”, aveva mormorato avvicinandosi, senza finire la frase. Era stata invasa, allora, da un’ondata di commozione, e si era sentita in colpa verso quell’anziana donna che l’aveva cresciuta, che le voleva bene, che era madre della madre di André, e che per tutto quel tempo aveva lasciato soffrire da sola, come soffriva lei, senza spiegarle niente.

Marie l’aveva accostata, una volta, piena d’esitazione, col cuore gonfio d’angoscia, e le aveva chiesto di suo nipote. Le aveva detto che era preoccupata, che non ne sapeva più niente, che se n’era andato senza dare più notizie di sé. Oscar aveva inghiottito per non piangere, ed era rimasta immobile e pallida, guardando davanti a sé. Era piena di dolore e di rabbia. “Anche a me non ha dato più notizie”, aveva risposto terrea, senza aggiungere altro, gelandola.

 

Per questo, quel pomeriggio, si era alzata appena l’aveva vista. Le era andata incontro e le aveva preso le mani, facendola sedere sul divano, vicino a sé. “Perdonami”, le aveva detto, con una voce triste e piena d’amarezza.

Poi le aveva raccontato tutto. Di sé e di André, di come si erano amati. Del segreto che avevano diviso per tanto tempo, di come volevano andarsene, fuggire insieme. Di quello che aveva appena scoperto, di come li avevano atrocemente ingannati, e separati.

Le aveva detto che non sapeva niente di cosa gli fosse accaduto, che non lo sapeva nessuno. Che forse lo avevano ucciso.

E non aveva retto, mentre pronunciava quell’ultima frase: le lacrime che si sforzava di trattenere erano uscite dai suoi occhi, e si era portata le mani al viso.

L’anziana donna, che aveva ascoltato tutto senza dire una parola, guardandola e piangendo in silenzio, aveva trovato in quelle lacrime di Oscar la forza per consolarla. L’aveva abbracciata, come faceva quando era bambina, di nascosto dal generale, e l’aveva tenuta così mentre singhiozzava, continuando a piangere in silenzio anche lei.

 

Marie se ne sarebbe andata da quella casa, adesso. Glielo aveva detto.

Ma anche lei se ne sarebbe andata, quella sera stessa.

 

*

 

Il rumore di un passo noto le fece sollevare il capo, mentre era persa tra quei pensieri. Alzò il viso in silenzio, e fissò il generale, che era appena entrato nella stanza, guardandola senza parlare. Oscar lo vedeva ed era come se non lo riconoscesse, come se non fosse più lui: un uomo con una parrucca grigia, con delle scarpe marroni.

Quello era suo padre? Aveva chiamato padre quell’individuo per tanto tempo? Lo aveva rispettato, temuto? Aveva potuto persino amarlo?

Ma chi era quell’uomo… chi…

Tutta la vita aveva passato a sforzarsi di meritare la sua stima, di essere degna di lui. Per tutta la vita aveva rinunciato ai suoi sentimenti più intimi in nome di quegli ideali che da lui le erano stati inculcati. Era andata contro la propria natura, contro il proprio cuore, contro la propria felicità, per credere alle cose che lui le aveva detto. Lui era stato il suo modello, tutto ciò cui aveva sempre cercato di somigliare.

Le aveva dato un nome maschile. Le aveva proibito di avere dei sentimenti. Aveva ucciso l’uomo che amava. L’aveva lasciata soffrire atrocemente senza dire una parola.

Oscar distolse lo sguardo, non sopportava la sua vista. Rimase in silenzio a lungo, oppressa da un senso di nausea, d’inutilità, che le impediva di parlare. Scosse la testa e si portò il viso tra le mani, come se lui non ci fosse. Pianse.

 

Suo padre la guardava, e non riusciva a far nulla. A dire una parola, ad avvicinarsi. Era come se quella che aveva davanti fosse un’immagine irreale. Quel pianto, che avrebbe potuto essere letto come un cedimento di Oscar, che avrebbe potuto offrirgli l’occasione per accostarsi, per spiegare, la isolava invece ancora di più, alzando un muro invisibile e altissimo tra loro. Era l’espressione di un dolore senza confini, il dolore che lui aveva provocato, e al quale, adesso, non aveva il diritto di partecipare.

Rimase fermo davanti a lei, aspettando che dicesse qualcosa

 

Passò un tempo che gli parve lunghissimo. Nel salone erano accese poche candele. La luce del camino proiettava le loro ombre deformate sulle pareti. Infine Oscar alzò il capo, e lo fissò nuovamente.

 

“Io amavo André”, disse.

E quelle parole, tra tutte quelle che avrebbe potuto dire, ebbero il potere di trapassargli l’anima. Avrebbe potuto aggredirlo, insultarlo, minacciarlo nel modo più violento, e non gli avrebbe fatto quello che gli fece pronunciando quella frase con voce bassa e dolorosa. Si era preparato a tutto, a qualsiasi reazione da parte di sua figlia, dopo che aveva saputo cosa era successo a Versailles, ed era andato a casa pronto ad affrontare qualunque cosa. Aveva anche pensato a delle spiegazioni, delle risposte da dare.

E nella sofferenza di vederla piangere, poi, davanti a sé, nella consapevolezza terribile di esserne responsabile, nella paura di ciò che lei avrebbe detto che, per la prima volta nella sua vita, sentiva davanti a Oscar, aveva provato anche un sentimento paradossale di sollievo. Perché quella verità atroce scoperta nel modo peggiore gli era parsa comunque meglio della lunga e colpevole menzogna in cui era vissuto fino a quel momento. Qualsiasi reazione Oscar avesse avuto.

Ma quella frase, più del comportamento inatteso di Oscar, più della sensazione di vivere un sogno assurdo che provava dal momento in cui l’aveva vista, fu capace di annientarlo.

Avvertì con una chiarezza incredibile, mai compresa prima, che sua figlia era la cosa che più amava nella vita. E che a nessuno mai aveva fatto male quanto a lei.

Rimase fermo, le braccia lungo il corpo, lo sguardo attonito, come aspettando una sentenza.

 

“Io amavo André – mormorò Oscar, come parlando a se stessa, trapassandolo con quello sguardo azzurro che tanto disperatamente, in quell’attimo, gli apparve simile al suo -. Lui è stato tutto ciò che al mondo ha avuto importanza, l’unica cosa che desse un senso alla mia vita. André era il motivo per cui il giorno iniziava e finiva, la spiegazione di ogni dubbio, la risposta ad ogni paura. La ragione di ogni gioia che io abbia mai provato, da quando esisto”.

Distolse gli occhi a fissare il fuoco che bruciava in silenzio, nel camino.

“André mi amava. Mi amava da sempre. Ha amato soltanto me. Ha aspettato con infinita pazienza, tutta la vita, che comprendessi cosa provavo per lui. Senza chiedermi niente mi ha dedicato se stesso, tutto ciò che era. Ed era tantissimo… tantissimo… Mi ha insegnato ad accettarmi per ciò che ero, perché lui mi accettava. Mi ha insegnato ad amarmi come lui mi amava, senza volere che fossi qualcosa di diverso, mai. Lui è stato il mio primo uomo, e l’unico. L’unico al mondo. Mi ha tenuto stretta. Mi ha difeso. Mi ha reso felice. Mi ha fatto comprendere cosa sia l’amore, cosa sia la felicità. Voi siete mai stato felice, padre?”

Il generale la guardò, con gli occhi lucidi, senza dire nulla.

“No, non lo siete mai stato. Sono sicura di no”.

Si alzò, e si avvicinò a lui, fissandolo, come cercando nei suoi occhi una spiegazione. “Non avete fatto altro che farmi del male, da quando sono nata. Io ci ho pensato tanto, talmente tanto, tutta la vita, eppure non sono riuscita a capire perché, perché vi siate accanito in questo modo contro di me. Con tanta tenacia, tanta convinzione, e facendomi credere che foste nel giusto, che aveste ragione, che fosse vero quello che mi dicevate. Io ci credevo, e stavo male, e credevo che fosse colpa mia il fatto che stavo male. Che fosse colpa mia…”.

Le uscirono due lacrime dagli occhi, e le lasciò scorrere sulle guance, continuando a guardarlo. “Poi ho trovato André, ho riconosciuto André, e tutto all’improvviso ha acquistato un senso, una collocazione… ogni frammento di quell’assurdo che era la mia vita. Ogni cosa. Avevo persino ricominciato a voler bene a voi, nonostante tutto…”

“Oscar…”

“Ma voi ci avete separato, ci avete fatto soffrire, ci avete costretto a nasconderci in nome di principi assurdi, di valori insensati, di spaventosi pregiudizi che non hanno mai fatto il bene di nessuno, che non lo faranno mai… nemmeno il vostro, padre… lo capite? Nemmeno il vostro… Quanto è grande l’orgoglio che vi anima, padre? Quanto è più grande di ogni altro sentimento, nel vostro cuore?”

Lo guardava, parlando, e c’era quasi compassione, insieme al dolore, negli occhi di lei. Ma il dolore era più grande di tutto: anche della rabbia, del risentimento, del desiderio di vendetta. Per questo gli stava parlando così. E per questo non esisteva modo di difendersi da quelle parole.

“Voi lo avete fatto aggredire, avete voluto che morisse. E adesso non sapete più niente di lui, non sapete cosa gli sia accaduto, e non vi importa… non vi importa… non vi importa niente dell’unica persona che mi abbia amato davvero al mondo… E che vi rispettava, che vi voleva bene, persino, solo per il fatto che eravate mio padre… Ma voi avete voluto che morisse, e non vi importa… non vi importa niente di lui… e nemmeno di me… nemmeno di me…”

“Non è vero, Oscar…”

“Sì, è vero, invece. È vero, è terribilmente vero, padre. Mi avete guardato soffrire atrocemente per tanto tempo, mi avete indotto in un modo turpe a credere che André mi avesse abbandonato, e non avete detto mai niente, niente… Non vi importa di me, non vi è mai importato. È l’unica cosa vera, e non c’è rimedio”.

Poi cedette un istante a ciò che provava, e lo guardò stringendo i pugni davanti al viso, e parlò con una voce e un’espressione rabbiosa e amara, che Jarjayes non dimenticò mai più: “Come avete potuto darmi questo dolore?”

 

Non disse niente. Non c’era niente da dire. Non c’era una parola, una spiegazione, un motivo che potesse giustificare, scusare anche in minima parte ciò che aveva fatto.

Lei si era voltata, ed era immobile, gli dava le spalle.

“Oscar…”

“Oscar… ti prego… Oscar… Io non ho niente da rispondere, Oscar, non c’è niente che possa dire… solo che ho sbagliato… ho sbagliato. Ero accecato dall’ira, dalla rabbia… So di averti fatto del male…”

“Avete ucciso André”.

“Potrebbe essere vivo… è scomparso…”

Potrebbe essere vivo? E dove? E come? E come potrò mai trovarlo, come? Voi lo sapete? Lo sapete? Parlate, lo sapete?”

“No, Oscar. Non lo so… non lo so”, disse chinando il capo.

“No, infatti, non lo sapete”.

 

“Oscar… Esiste una possibilità, una sola, Oscar, che tu possa perdonarmi?”

“No, non esiste”.

“Oscar…”

“Non esiste, mai più”.

Si voltò di nuovo verso di lui, a guardarlo per l’ultima volta. Le parole che disse risuonarono lapidarie nella sua mente: “Io me ne vado da questa casa, da stasera. Non sono più vostra figlia, non tornerò qui ancora, voi non mi vedrete più. Mai più”.

Lo lasciò, e si diresse verso la porta. Nell’ingresso, su una poltrona, prese il mantello e i guanti.

“Oscar…”

“Addio, generale”.

 

Percorse il vestibolo in pochi passi, e aprì l’uscio. Aveva lasciato il cavallo davanti casa: vi montò, lo spronò al galoppo.

La notte era scesa, e non c’erano stelle.

 

 

Continua...

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