The moonlighter

 

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Lo stridere secco delle lame che raschiavano le connessure tra i mattoni si propagava in sommessi colpi regolari nel perfetto silenzio della notte. L'ombra scalava la parete altissima con lenta agilità, coperta dal manto cupo delle nubi che velavano il cielo. Un sibilo vibrò nell'aria e si estinse nell'urto sordo del metallo sulla merlatura: la figura nera fissò il rampino tirando la corda con un movimento sicuro del braccio, poi vi si sospese e si dondolò due volte nel vuoto, prima di passare di slancio oltre la cinta muraria. Le guardie poste sugli spalti non l'avevano nemmeno sentito.

Anche quella notte il cavaliere nero avrebbe seminato il panico in una riunione di nobili.

 

Oscar lo aspettava nel folto della macchia poco distante, tenendo buoni i cavalli. Era stranamente inquieta. Più le loro spedizioni notturne erano coronate dal successo, meno quella storia le piaceva. Era stupita lei stessa di quanto la cosa la preoccupasse: non era certo la prima volta che correvano dei pericoli, ne avevano affrontati di ben peggiori. E lei non era solita risparmiarsi né darsi pensiero delle conseguenze, quando organizzava quelle imprese.

Ma stavolta sì. Per qualche strano motivo, ogni sera che uscivano con quella mascherata era in ansia. Forse perché non era lei ad agire in prima persona, ma André.

E André era eccezionalmente audace, quando si muoveva nei panni del cavaliere nero. Ne avvertiva l’efficienza in modo addirittura fisico: era aspro e fulmineo, si stentava a riconoscere in lui i gesti morbidi e rassicuranti, quasi pigri, che aveva nella vita normale. Tranne, forse, che nella scioltezza dei movimenti, che era la stessa. Decideva ed agiva in modo imprevedibile. Oscar, che lo accompagnava sempre, faceva fatica a coprirlo, a intuire le sue iniziative improvvise e ad assecondarle. Agiva come se la sua presenza non fosse nemmeno necessaria, come se volesse fare tutto da solo. Sembrava disprezzare il pericolo.

Sembrava, con quella maschera e quei vestiti neri addosso, che non fosse nemmeno lui.

 

***

 

Nel silenzio della notte fonda la cucina di palazzo Jarjayes era un luogo quasi fuori dallo spazio reale. Erano rientrati a un'ora da ladri, stando attenti a non farsi sentire, perché le loro spedizioni dovevano essere un segreto per tutti. Si distinguevano i contorni delle figure solo alla luce del focolare semispento, sulla cui brace morente tremolava una fiammella che Oscar aveva ravvivato col ferro.

“Ecco, ho trovato un po' di pollo nella dispensa”, gli disse sottovoce avvicinandosi con un piatto coperto e del pane in un involto di carta.

Tacque, percependo il respiro regolare di André. Ne distinse gli occhi chiusi al baluginio della fiamma, il viso piegato di lato sulla spalliera della sedia, l'alzarsi e l'abbassarsi silenzioso del petto. Dormiva col corpo allungato sul sedile, le gambe rilasciate sul pavimento, il braccio destro abbandonato da cui pendeva ancora, scivolando tra due dita, la maschera che si era tolto.

Era sfinito.

Le sfuggì un sorriso tirato, che subito lasciò il posto a uno sguardo serio. Non era giusto chiederglielo, lasciare che lo facesse per lei. Eppure lui l'aveva voluto, l'aveva addirittura preteso. Aveva usato buoni argomenti, che, valutati razionalmente, erano stati convincenti.

Solo che non c'era molto di razionale nel suo affetto per André. Quando si era tagliato di netto con il coltello i capelli che portava legati, sorridendo col viso chino, il cuore di Oscar aveva mancato un battito. Non era riuscita a spiegarsi quel turbamento, ma era qualcosa che in qualche modo aveva a che fare con la paura e col bene che gli voleva. Ciò che riguardava André, se per qualche motivo veniva a modificare la loro consuetudine, toccava un tasto molto profondo in lei, che la destabilizzava. Il ripetersi quasi abitudinario delle loro azioni quotidiane, il ritrovarlo sempre giù che la aspettava ogni giorno, i suoi stessi, soliti, abiti di servizio, il suo sorriso sempre contento di rivederla... tutto questo era come un solido basamento emotivo, per lei, un concreto punto d'appoggio e d'equilibrio. Scontato ma non banale. Le era semplicemente necessario darlo per scontato: Oscar non contemplava nemmeno l'eventualità che non ci fosse.

Se n'era resa conto da tempo. E, da quando se n'era resa conto, aveva cominciato a stare in ansia.

 

Gli andò vicino. Quegli abiti neri gli donavano. La camicia slacciata sul petto svelava la pelle appena abbronzata. La sua espressione distesa, nel sonno, sembrava trasfigurare il suo viso, renderlo diverso. Quando si fosse svegliato, il suo sorriso di tutti i giorni avrebbe trasformato di nuovo quel giovane uomo in André: ma adesso, come sotto l'effetto di una specie di malia, quei lineamenti seri e sereni parevano rivelare qualcosa che normalmente stava nascosto. Oscar pensò  che non l'aveva mai visto dormire fino a quel momento.

Pensò anche che, molto probabilmente, la cosa non era reciproca.

 

“Scusa, mi ero assopito...”

Lo disse con un mormorio stanco, in cui solo la familiarità con la sua voce le fece riconoscere le parole. Si raddrizzò un poco sulla sedia. Il bagliore tenue del camino sottolineò le occhiaie profonde sul suo viso.

Si rese conto della presenza di lei a pochi centimetri. Che, probabilmente, lo aveva fatto svegliare. Istintivamente si allontanò un poco, e sorrise.

“Non hai più fame, vero?”

“No, meglio di no...”

“André...”

“Dimmi”, rispose piano.

“Pensavo...”

“Sì?”

“Pensavo che forse dovremmo smetterla con questa storia di cercare il cavaliere nero. Dovresti smetterla tu, di correre questi rischi”.

Lui si stirò prima di risponderle, e posò un piede sul ripiano del camino. Mise una mano sul ginocchio.

“Perché possa correrli tu? Ne abbiamo già parlato, Oscar, è fuori discussione”.

“Ma...”

“Ti ho già detto che i tuoi capelli sono troppo biondi, e la tua figura troppo esile per assomigliare al vero cavaliere nero”. Sbadigliò coprendosi la bocca con una mano, poi ravvivò ancora il fuoco. “Non saresti convincente. Ma, te l'ho detto, il tuo è un buon piano. È solo un ruolo che si addice più a me”.

“André, potrebbe essere pericoloso”.

Egli tacque alcuni secondi, fissandola. Poi si alzò di fronte a lei. Le pose piano le mani intorno alle spalle.

“Proprio per questo devo farlo io”, mormorò.

Oscar chinò il capo, e subito lo rialzò per ribattere, ma lui la prevenne.

“Non potrei sopportare che ti succedesse qualcosa”, disse in tutta semplicità, come fosse l'argomento definitivo.

La lasciò e voltò il viso, facendo per andarsene.

“Andiamo a dormire Oscar, è tardi”.

“André...”

“Cosa?”

“Ma... se fosse lo stesso per me?”

Lo aveva detto quasi precipitosamente, senza pensare a quel che diceva. E poi era rimasta in silenzio, stupita dalle sue stesse parole, incapace di finire.

André si bloccò. Tornò indietro, di fronte a lei. La fissò intensamente.

“Se fosse lo stesso cosa, Oscar?”

Sul suo volto provato gli occhi brillavano di una luce viva.

Lei ricambiò lo sguardo, allora: “Se anch'io non potessi sopportare che ti succedesse qualcosa?”

André ebbe come un sussulto muto. Parve aver trattenuto il respiro per un attimo. Rimase in silenzio alcuni secondi, guardando a terra, poi le prese entrambe le mani, tenendole nelle sue. Sollevò piano il viso e parlò a voce bassissima: “Questo è un altro buon motivo per farlo”.

 

***

 

Il piano funzionò e il vero cavaliere nero si fece attirare nella trappola. Oscar gli comparve alle spalle e gli puntò contro la pistola, pronta a sparare.

Ma quel farabutto fece una piroetta da acrobata piombando con la spada sguainata contro André, e se André non avesse parato al volo, d'esperienza, sarebbe stato trapassato dalla violenza del colpo e ammazzato lì. Il duello fu furibondo e talmente veloce che Oscar, nell'oscurità della notte, non riuscì a distinguere le due figure e a prender la mira su quella giusta. Come un animale intrappolato,  il bandito si batté con la ferocia della disperazione, vibrando fendenti letali quasi alla cieca. E trovò una falla nella difesa di André, che voleva catturarlo e non ucciderlo. All'incrocio delle spade la leva dall'alto lo disarmò, e la lama sfilò repentina lungo il suo corpo arrivando a colpirlo proprio sul viso: il taglio fu leggero ma netto e recise la maschera, ferendolo all'occhio sinistro.

 

Quando André cadde in ginocchio e Oscar vide la sua mano insanguinata premuta sul viso, quando lo vide a terra, la mano destra contratta in uno spasmo di dolore, levata in aria quasi a cercarla, si sentì morire. Non contò più nulla fare quella cattura, sfruttare il vantaggio della pistola, arrestare il cavaliere nero: lo lasciò fuggire e si gettò su André avvolgendolo in un abbraccio disperato, prendendogli la mano nella sua, rispondendo alla sua voce che la chiamava e stringendolo a sé nella notte, come se esistesse soltanto lui.

 

***

 

L’alba sarebbe spuntata presto e lei lo aveva riportato a casa. Stava disteso sul letto, quasi assopito dal dolore, un’ampia fasciatura che gli copriva l’occhio ferito. Il dottore, fatto chiamare nel cuore della notte, non aveva fatto una diagnosi infausta: André avrebbe dovuto riposarsi, medicarsi regolarmente, e non sbendarsi alla luce per nessun motivo. In questo modo c’erano buone possibilità che recuperasse senza subire danni permanenti.

Oscar lo vegliava senza parlare, senza cercare di parlargli. Sentiva su se stessa ogni fitta che interrompeva il suo sonno, segnalata da un impercettibile lamento. Semplicemente non riusciva a staccarsi da lì.

Era incredula, come era rimasta incredula poche ore prima, quando lo avevano ferito. Alcuni secondi inebetita, incapace di dominare la situazione. Si era precipitata su André disarmata per abbracciarlo proprio davanti a quell’uomo, e aveva reso tutti e due un bel bersaglio, se solo avesse voluto ucciderli. Per fortuna all’altro la cosa non interessava, e si era accontentato di allontanarsi da lì, dopo essersi preso qualche secondo per contemplare la scena.

Era sprofondata nella costernazione, rimase per delle ore completamente smarrita. A tal punto che, quando André si destò e, come prima cosa, le chiese chi era il cavaliere nero e se l’avesse preso, non capì la domanda. Dovette fare mente locale per rispondere che l’aveva lasciato fuggire. E, quando André protestò che aveva fatto male, che dopo tutta quella fatica non doveva perdere un’occasione d’oro, quasi si ribellò. “Non dire stupidaggini - disse con un tono accorato -. Come potevo abbandonarti ferito?”

André si voltò verso di lei e tacque, osservarono in silenzio attraverso la finestra la prima luce del sole nascente che rischiarava tenue il cielo. “Sono contento che non sia stato il tuo occhio, davvero - mormorò -. Non avrei potuto sopportare che succedesse qualcosa ai tuoi occhi”. Oscar si girò a guardarlo senza parole, sentendo le lacrime salire. Riuscì a dire soltanto “André...”, chinando il capo e mettendo la mano nella sua.

 

***

 

Eppure era la rabbia il sentimento più forte. Una rabbia che montava sempre di più, mentre assisteva alle visite del dottore, mentre guardava André disinfettarsi la ferita, in disparte ma attenta a ogni minima parola, a ogni particolare. La rabbia, anche se a un certo punto lui cominciò a scherzare, a dar mostra di aver superato lo shock. Di avere anche trovato una nuova audacia, nel rivolgersi a lei: “Ma lo sai che sei proprio bella, con quello sguardo serio? Avvicinati, dai... se penso che ho rischiato di non vederti più...”

Eppure non riusciva ad apprezzare quelle battute, a dipanare le proprie reazioni emotive, che solo pochi giorni prima emergevano alla coscienza con una chiarezza sempre più palese, quando si trovava con lui.

Era la rabbia il sentimento più forte.

E un pensiero, come un chiodo fisso.

Ha quasi accecato André, giuro che lo troverò.

 

***

 

Fu il furto di duemila fucili agli uomini del generale a darle la spinta. Fu l'antica consuetudine familiare e il mestiere delle armi, che la portava a ragionare in termini operativi. Non erano le cause profonde, solo l'occasione: ma bastarono ad accendere il suo risentimento e a farle fare uno sbaglio. Uno sbaglio gravissimo.

Oscar andò da sola al Palais Royal, residenza del duca d'Orléans, nei pressi del quale aveva perso le tracce del cavaliere nero in uno dei primi inseguimenti. Fu catturata dai ribelli e rinchiusa in una segreta. Al terzo giorno che mancava da casa, quando la nonna lo informò del motivo, André si tolse le bende dall'occhio ferito, indossò di nuovo i panni del cavaliere nero, e andò a cercarla.

 

***

 

Dal momento in cui fu rinchiusa in quella cella e sentì la chiave girare nella serratura, ebbe la certezza angosciosa che André sarebbe venuto a prenderla, e che per farlo avrebbe messo a rischio l'occhio. Passò tre giorni, minuto dopo minuto, a cercare disperatamente un piano per liberarsi da sola prima che succedesse. Ma era difficile, si trovava in un sotterraneo senza finestre e i suoi carcerieri non si facevano vedere: le passavano dei pasti che quasi non toccava su un vassoio fatto scivolare attraverso un'apertura nella parete. Una sola volta il cavaliere nero in persona, di cui ora conosceva l'odiata voce, le aveva chiesto di scrivere a suo padre per chiedergli uno scambio, la sua liberazione contro armi e munizioni. Era stata perfino sul punto di accettare, nell'ansia di prevenire un'iniziativa di André, ma sapeva che sarebbe stato inutile, perché l'esercito non trattava certo con i ribelli. Così decise di realizzare un fantoccio con l'uniforme e posizionarlo nel letto, appostandosi per fare un agguato a chiunque entrasse da quella porta, armata di una scheggia di pietra che aveva rimosso dalla parete. Passò in attesa ore e ore.

Quando sentì finalmente la porta aprirsi, fece appello a tutta la sua audacia, e balzò con tutte le forze sull'uomo vestito di nero che entrava. Lo gettò a terra violentemente e gli fu addosso, levando in aria la sua arma rudimentale, pronta a colpire. Ma la sua mano fu afferrata al polso e fermata prima che vibrasse il colpo, e una voce nota e cara le intimò in un bisbiglio strozzato: “Fermati, Oscar! Sono io, André!”

Improvvisamente si trovò in braccio ad André. Realizzò di essere a cavalcioni su di lui, che era finito seduto a terra con le spalle al muro. La sua mano si aprì, lasciando cadere la scheggia, e prese a tremare.

“André! André... sei tu!”

“Sì... sono fin troppo credibile come cavaliere nero, stavi per ammazzarmi...”, disse lui ansimando.

Rendersi conto anche di questo fu troppo: Oscar crollò, le lacrime le solcarono il viso.

“Oh, André, sei tu... ma cosa hai fatto... perché sei venuto qui...”

Gli sfiorò il viso con la mano sopra la maschera nera, scostando delicatamente i capelli che coprivano l'occhio sinistro, sbendato.

“Oh, no... ma cosa hai fatto... cosa hai fatto...”

Lo abbracciò disperata, la guancia premuta contro la sua, un dolore e un rimorso insopportabili nel cuore, incurante del pericolo, dei carcerieri che potevano scoprirli: “Non dovevi farlo, non dovevi, perché...”, ripeteva, sentendo affiorare le lacrime, le dita intrecciate dietro la sua nuca, fuori di sé.

André la prese tra le braccia con tutto il cuore, la tenne stretta. Portò a sé il suo capo con una mano e la baciò più volte tra i capelli, febbrilmente. Le sue labbra accostate all'orecchio mormoravano tremando: “Io non vivo senza di te, Oscar, non vivo senza di te...”

 

***

 

Il cavaliere nero, al secolo Bernard Châtelet, giornalista, si rigirava nel letto con un buco nella spalla fattogli da una pistolettata di Oscar. Lo avevano messo in una stanza appartata di palazzo Jarjayes e fatto medicare su richiesta di André, che lo aveva anche salvato dall’essere consegnato subito alle autorità. Oscar non era per niente d’accordo, ma in quel momento non avrebbe rifiutato nulla ad André, così aveva chiamato il dottore e aveva anche voluto parlare a quel farabutto, quando si era ripreso, per capire come mai la persona che le era più cara al mondo tenesse tanto a quell’uomo che l’aveva quasi accecata.

Quanto a lei, non aveva esitato un istante a sparargli, quando aveva tentato di sfuggire alla cattura: doveva ammettere, anzi, che lo aveva fatto con una certa soddisfazione. E si era anche moderata, perché aveva mantenuto il controllo e mirato a un punto non vitale: rispetto alla rabbia e al dolore che aveva in corpo quella notte, gli aveva fatto una carezza.

Giornalista, amico di filosofi e propugnatore di nuove idee. Faceva dono del bottino delle sue razzie ai poveri di Parigi, che per questo avevano iniziato ad amarlo e a parlarne con entusiasmo come del loro nuovo eroe. Indubbiamente tutta la faccenda era un’operazione politica orchestrata da altre menti, ma lui pareva convinto delle sue ragioni: aveva detto con un certo orgoglio di essere qualcosa di più che un ladro, di aver agito per dei motivi nobili, e di non essere pentito delle sue imprese. Non aveva, infatti, l’atteggiamento del delinquente colto con le mani nel sacco: parlava da pari a pari con lei, non abbassava gli occhi chiedendo clemenza, si richiamava a principi di libertà e di uguaglianza e sembrava pronto a morire per sostenerli. In effetti non si era mostrato granché preoccupato che Oscar lo facesse arrestare, cosa che gli sarebbe costata il patibolo. Dava anzi la cosa per scontata, ma manteneva il suo atteggiamento fiero e convinto. E sosteneva idee che, a grandi linee, potevano anche risultare condivisibili.

Tutte cose che avrebbero potuto farlo apprezzare a Oscar, in condizioni normali. Ma lui era quello che aveva ferito all’occhio André, e questo glielo faceva detestare a prescindere. Nonostante, conoscendolo, Oscar fosse sempre più convinta che si trattava di un caso particolare, e che le istanze di cui Châtelet si faceva portatore andavano quanto meno ascoltate - e che questo, dunque, dava ragione ad André -, nutriva nei suoi confronti un’avversione personale che le era difficilissimo reprimere.

Sentimento che crebbe e degenerò fino a esplodere quando, pochi giorni dopo, André si sentì mancare l’equilibrio scendendo le scale dietro di lei, e, appoggiandosi al muro per non cadere, disse pallidissimo che aveva un po’ male alla testa. Quando, al termine della visita fatta il pomeriggio stesso, il dottor Lassonne decretò severo che li aveva avvertiti, che André non avrebbe dovuto sbendarsi, e che aveva perso per sempre l’uso dell’occhio sinistro, Oscar perse il controllo.

Andò a prendere la spada e si precipitò furente, salendo i gradini a tre a tre, in camera di quell’uomo che dormiva, la sguainò e l’alzò su di lui furiosa, per farlo a pezzi. Rimase con la spada levata in aria, ansante, per un interminabile momento, pensando a tutto quello che era successo, alla paura sincera che si era dipinta sul viso di André nell'istante in cui il dottore aveva emesso la sua diagnosi, prima che riuscisse a reprimersi per non turbarla. Stette tesa e pronta a sferrare il colpo sentendo in sé una violenza che non aveva mai avuto, quasi atterrita dal comprendere che stava per farlo davvero.

E poi abbassò lentamente il braccio, ritrovando sufficiente lucidità. Rinfoderò la lama, fremendo, e fece qualche passo fuori, fino al balcone. Le uscì un grido nero e dirotto di gola, che nacque nelle profondità del suo cuore e si sparse sulla campagna illuminata dal tramonto.

Bernard Châtelet non si rese conto di nulla.

 

***

 

“Sapevo che ti saresti fermata”.

Glielo sussurrò alle spalle, inaspettatamente, come se si fosse materializzato dietro di lei senza far rumore. Le avvolse le braccia intorno alla vita, su quel balcone, poi raggiunse le mani che tremavano ancora, e intrecciò le dita alle sue. Le posò il mento sulla spalla, rivolto verso la sera nascente, col viso accostato al suo viso. Oscar si voltò smarrita, e vide che aveva coperto l’occhio ferito con una ciocca di capelli.

Gli si gettò addosso in un singulto, le braccia contro il suo petto, e pianse silenziosamente.

 

***

 

E gli chiese scusa, perché sapeva di essere responsabile anche lei. Gli chiese scusa ancora molte volte, anche quando lui la pregò di lasciar andare il prigioniero, con pacata determinazione. Lo fece la sera stessa, nonostante avesse appena saputo di aver perso l'occhio. Oscar era stupefatta che in un momento simile sapesse andare oltre se stesso, argomentare con tanta equilibrata ragionevolezza, spiegarle i motivi per cui pensava che farlo fosse la cosa giusta con la pazienza con cui lo fece. Con un'obiettività davvero superiore, che la portò a comprendere fino a che punto André fosse convinto delle idee per le quali andava a quelle riunioni notturne, facendo lunghe cavalcate, per sentir parlare di fraternità e di un mondo dove gli uomini fossero uguali tra loro.

Ammirata e tristissima, si fece vincere da quelle ragioni e lo fece. Nonostante tutto, non si era mai resa conto così nel profondo, fino ad allora, di quanto fosse nobile e grande l'animo di André.

 

Era stato allora che era successo. Nel momento più teso di quella discussione, di fronte alle sue proteste che si trattava di un criminale e che quello era l'uomo che lo aveva privato di un occhio, André aveva sospirato con amarezza e le aveva risposto: “Allora scusami, Oscar. A volte dimentico che lavoro per dei nobili, e che voi queste cose non le capirete mai e poi mai”. Aveva fatto per andarsene, disilluso, ma qualcosa aveva reagito, in lei, a quella perdita, e lo aveva fermato d'impulso, raggiungendo la sua mano sulla maniglia della porta: “Lavori? Voi non capirete? Ma cosa dici, cosa dici, André...”

Gli aveva poggiato piano il capo sul petto, tremante: “No, André - aveva detto -, non è vero che non capisco, come puoi dirlo... Come puoi tu non capire? È per te... è per te... io... non sopporto che ti abbia fatto questo”.

Lui l'aveva cinta con le braccia, allora, e mai come in quel momento Oscar aveva percepito il sacrificio immenso che faceva per trattenersi: “Oscar, lo so... sapessi cosa significa per me saperlo, anche se non vorrei causarti questo dolore”. L'aveva stretta in un brivido struggente, scuotendo il capo con un gemito lieve: “So che voglio troppe cose da te, troppe cose che non ho alcun diritto di volere, ma io credo di essere pazzo e le voglio lo stesso, le voglio lo stesso... io ti amo, Oscar...”

Quelle parole che non le aveva mai detto gli avevano strappato un gemito di dolore, e a Oscar era scoppiato il cuore d'emozione. Aveva assecondato il moto del suo viso che le sfiorava la guancia e si era volta a lui, e lo aveva interrotto con un bacio che aveva mozzato il respiro a entrambi, che era durato infinitamente, nel confondersi delle lacrime, nella gioia delle mani che si erano cercate in un abbraccio istintivo, febbrile, dolce.

 

***

 

Quando Bernard Châtelet si fu rimesso, Oscar invece che denunciarlo lo liberò. Lo scortò per un buon tratto di strada e gli diede l'indirizzo di Rosalie. Quello non poteva credere che lo facesse, e aveva iniziato a ringraziarla, a dire che non si sarebbe mai aspettato da un nobile un tale gesto.

“Senti - lo aveva interrotto lei -, non devi ringraziare me. Io non potrò mai perdonarti per quel che hai fatto. Se fosse dipeso solo da me, probabilmente saresti già in una cella ad aspettare la condanna a morte”.

“Chi devo ringraziare, allora?”, aveva chiesto Châtelet.

“André. Soltanto lui. Per qualche strano motivo, nonostante quello che è successo, non ce l'ha con te, e pensa che la tua vita serva a qualcosa”.

“Sei molto aspra, colonnello. E il tuo attendente plebeo ha una singolare influenza su di te”.

“Questi non sono affari tuoi - disse Oscar -, e non permetterti di chiamare in quel modo André, o ci ripenso”.

“Per carità, non volevo intromettermi nelle vostre faccende private - sorrise l'altro -. Anzi, ti prego di ringraziare di cuore il mio benefattore, dico davvero. Riflettevo solo sul fatto che, se tieni così tanto a uno come André, forse sei meno lontana di quanto credi dal capire la nostra lotta”.

“Può darsi - rispose Oscar -, ma André non è mai andato in giro a fare del male agli altri in nome di un ideale. Per quante nobili ragioni tu possa addurre per ammantare di dignità quel che hai fatto, credo che quanto è successo dimostri che è stato molto più uomo lui del cavaliere nero”.

Voltò il cavallo senza dire più nulla e partì al galoppo, per tornare a casa.

 

***

 

La giornata era trascorsa senza che lo vedesse, in una serie interminabile di adempimenti burocratici che l'avevano trattenuta in caserma. Oscar finì la cena leggera che aveva consumato da sola, e si ritirò presto in camera sua. Chiamò per un bagno caldo e rimase nella vasca a lungo, per rilassarsi, passandosi una spugna morbida sul seno, sulle braccia, all'interno delle cosce. Poi si asciugò e si spazzolò i capelli, e indossò una camicia da notte finissima sulla pelle nuda. Fece scivolare le coperte del letto contemplando le lenzuola morbidissime, unico lusso che si era voluta concedere da un po' di tempo, e si sdraiò sui cuscini in attesa, contemplando gli affreschi sul soffitto alla luce delle candele, che narravano le storie di Enea in vivaci tinte barocche. Le andò lo sguardo al dipinto sulla parete che la ritraeva ragazzina, in posa fiera con la sua uniforme da capitano, e sorrise.

Due sommessi colpi alla porta le annunciarono il suo arrivo. Bussava sempre prima di entrare, anche se aveva le chiavi. Non si mosse, voltò solo il viso verso di lui, con uno sguardo pieno di desiderio e di nostalgia. Lo osservò entrare e serrare l'uscio, poi muovere pochi passi rapidi e ansiosi verso il letto. Accolse il suo abbraccio appassionato con un sospiro. “Mi sei mancato”, sussurrò stendendosi tra le coltri, mentre le labbra di André si staccavano dalla sua bocca e scendevano in un fremito caldo lungo il suo corpo, fermandosi a sfiorarle il seno, a succhiare lentamente i capezzoli, facendoli irrigidire poco a poco. Lo spogliò in fretta, e quando fu nudo accanto a lei lo guidò subito tra le sue gambe, aprendole per accoglierlo. Era così calda e bagnata che l'urgenza del suo prenderla vinse in un attimo la resistenza naturale del suo corpo ancora non pronto a riceverlo, e scivolò in lei strappandole un gemito di piacere profondo. Fecero l'amore appassionatamente per più di un'ora, abbandonandosi a sospiri convulsi, e Oscar venne più volte tra le sue braccia, prima che anche lui arrivasse al culmine e ansimasse forte, e uscendo da lei si posasse febbrilmente sul suo ventre, godendo tra le carezze ardenti delle sue mani.

“Io ti amo, André”, gli  disse ancora una volta. Glielo diceva sempre, ogni sera che andava a trovarla e stavano insieme, anche quando succedeva nel suo appartamento privato in città, nei pressi del palazzo della guardia metropolitana, e allora potevano dormire insieme tutta la notte.

Quella sera erano a casa, invece, e avrebbero dovuto separarsi all'alba, perché lui tornasse nella  stanza che ancora gli era riservata. Ma sinceramente a Oscar non importava più molto nascondersi, lo faceva ancora solo per salvare le forme e per non avere fastidi inutili. In casa, di fatto, era noto a tutti che erano una coppia, anche al generale che da tempo fingeva di non saperlo, e che alla fine aveva deciso che quella figlia dalla vita anomala voluta da lui aveva facoltà di scegliersi l'accomodamento che la faceva stare più tranquilla. André era molto discreto, e del resto a palazzo Jarjayes ormai tornavano poco, quindi la finzione poteva andare avanti a oltranza.

Era felice con lui, ormai da alcuni anni, e, col cambio di assegnazione che un giorno si era risolta a chiedere alla regina, si era allontanata da rischiosi pettegolezzi di corte per costruirsi uno spazio più confortevole e più suo. Due adulti riconosciuti in grado di fare le loro scelte destavano relativo scalpore, da lontano.

Sfiorò il suo viso abbandonato sul cuscino e contemplò l'espressione serena che aveva nel sonno seguito all'amore. Ormai conosceva il suo sonno, e molte altre cose di lui. Scostò delicatamente la ciocca di capelli dall'occhio che non vedeva più, e provò la consueta fitta di dolore e rimorso: avrebbe dovuto conviverci per sempre, e doveva rassegnarsi alla cosa. Anche se André, in seguito, non aveva avuto altri problemi, e con l'uso dell'altro occhio riusciva a fare tutto ciò che faceva prima.

Pensò a quanto tempo avevano passato insieme. E ai giorni del cavaliere nero, in cui l'avergli fatto svolgere un doppio incarico notturno, tanto pericoloso, le aveva fatto capire quanto lo amasse. A quanto potentemente la passione era divampata tra loro quando avevano avuto il coraggio di confessarsela e parlarsi. A quanto terribilmente lo aveva desiderato e voluto, come se non contasse altra cosa al mondo, oltre a lui, e a come questo l'aveva cambiata. A come la vita di ora fosse pesante, l'impegno del comando durissimo, i tempi difficili, e come tutto però fosse affrontabile, perché André dormiva nel suo letto, e poteva amarlo e farsi amare da lui.

Sentì il tepore della sua pelle vicino, come il rifugio confortante e quieto di una felicità duramente conquistata, che basta a se stessa e su cui non si nutrono ulteriori speranze. Si sistemò dolcemente tra le sue braccia, nuda com'era, affidò il suo corpo a quello addormentato di André. Tirò lentamente la coperta su tutti e due e spense il lume sul comodino, soffocando piano la fiamma.

 

  

 

“Ma essi non seppero mai se fosse stato il fuoco, o il calore del loro amore”.

Hans Christian Andersen, Il soldatino di stagno

(citazione affidata alla mia memoria)

 

 FINE 

 

A Laura, per la sua... antica passione per il tema BK

 

P.S. L'idea che la famiglia di Oscar avrebbe potuto tollerare, e forse anche prevedere, una sua relazione con André, mi viene da una cosa che ho letto tempo fa in “Lezioni proibite 3”.

 

 Fine

pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2016

 

mail to: alessandra1755@yahoo.it

 

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