Un'altra stagione

(dopo Autunno)

parte prima

 

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Nota: L’idea di questo racconto è nata leggendo il dolcissimo Autunno scritto da Laura, che, col suo finale “aperto”, ha fatto venire ad Alessandra voglia di immaginare un seguito. La vicenda qui narrata, dunque, è l’ideale prosecuzione di quella storia (autorizzata e, anzi, si può dire ispirata dalla prima ideatrice). Bene, dunque, se la leggete dopo Autunno, ma, se preferite, potete considerarla una cosa a sé, dal momento che contiene gli elementi per farsi leggere anche da sola.

 

 

Un’immagine. Un’immagine sola. Il volto di lui che non diceva nulla, le sue labbra immobili, il tremito del suo respiro davanti a lei. A un soffio da lei, sul pianerottolo, davanti alla porta aperta. I suoi occhi. I suoi occhi che non vedevano più, che per la prima volta riuscì a guardare, a fissare. E in cui si perse, perché la tristezza di quello sguardo senza espressione le ripeté in un attimo tutto ciò che diceva a se stessa da allora. Ogni cosa di lui, di loro.

La memoria. La memoria dell’André che era stato prima, quando c’erano mille toni e colori, nei suoi occhi, e lei li conosceva tutti, e sapeva leggere ogni suo sorriso, ogni sfumatura, ogni silenzio. Ogni desiderio, anche quelli di cui era carico ogni suo sguardo, soprattutto alla fine, quando di sguardi non ne aveva quasi più. Ogni desiderio che lei si era sempre ostinata a non vedere.

 

Abbiamo perso troppo tempo, André?

 

Il rifiuto del proprio corpo a quella risposta, e la sua volontà improvvisa che aveva scavalcato la ragione. Lo slancio e il gemito con cui gli si era buttata addosso, in cima alle scale, il viso dentro il suo petto, a tremare, con lui.

 

Il profumo che aveva, che aveva sempre avuto. Che era lo stesso di quando l’aveva presa in braccio addormentata, da sopra il divano, per portarla in camera sua, e le aveva sfiorato le labbra credendo che non lo sentisse, prima di andare. Lo stesso di quando l’aveva baciata e spinta sul letto, pieno di rabbia disperata. Lo stesso di quel giorno in quella carrozza, quando, svenuto, lo riportava a casa, pensando “il mio André”. Era lo stesso profumo, e nessun altro lo aveva.

 

Lo stesso di quando gli aveva detto che si sarebbe sposata, spezzandogli il cuore, e guardandolo, mentre, investito dalle sue parole, fissava davanti a sé, senza raccogliere i pezzi.

Lo stesso profumo che non era più stato suo, da allora, anche se lui era ancora lì, a guardarla sposata.

 

E’ davvero troppo, il tempo che abbiamo perso?

Davvero non c’è più niente che possiamo fare?

 

Il suo abbraccio incredibilmente caldo, e sicuro. E immobile, fermo. Senza richieste.

 

Stringimi forte, aveva avuto l’impudenza di dire.

E lui l’aveva stretta. Ma non piangeva, come lei.

 

“Oscar...”

Ma lei non avrebbe saputo dire se ci fosse una preghiera, in quella voce, o un rifiuto, o un diniego stanco. O la paura di farsi trascinare nel pianto. O di dirle: “Sono dovuto vivere fino ad oggi”.

 

E poi come aveva resistito alle lacrime. Che non aveva versato neanche allora, quel giorno che l’aveva vista partire in abito da sposa, ed era rimasto lì, con la finestra alle spalle e le labbra serrate, nella casa piena di parole festose. A guardarla in silenzio, e lei aveva sentito la sua domanda nella mente, e aveva abbassato il capo: “Perché mi stai uccidendo? Perché, se non sei nemmeno felice?”.

Non aveva pianto neanche allora. E neanche il giorno dopo, quando l’aveva rivista, uscita dal letto del marito, con lo stesso sguardo che aveva prima di entrarci. E si era fatto male per tutta la notte a pensare a quell’uomo che posava le mani su di lei, e a lei che glielo faceva fare, e alla loro prima volta insieme che non ci sarebbe stata mai più.

Nemmeno allora aveva pianto. E non piangeva ora, con lei di nuovo tra le braccia in lacrime. Cieco.

 

I minuti che erano passati così, adesso. La notte, in cima alle scale. E come poi si era sciolto da quell’abbraccio e l’aveva portata dentro, e aveva chiuso la porta. E come lei l’aveva abbracciato di nuovo e l’aveva anche baciato sul viso, sulle labbra, sfiorandolo. Come si era fatta audace, perché André non rifiutava quel bacio, e continuava a tenerla, in un silenzio quasi arreso, ma triste. Come aveva creduto di poter scacciare quella tristezza, e portarlo a sé, facendosi più vicina al suo corpo, avvolgendolo con le braccia al collo, chiudendo gli occhi mentre lo cercava, lei, con labbra e bocca appassionate, con i gesti che per tanti anni lui aveva dominato, nelle mani chiuse. Come aveva provato solo un momento di ignota felicità, perché lo aveva sentito tremare, e cedere in un gemito, e aveva aspettato che la stringesse più forte, adesso, e di ritrovare il suo corpo, ardente come lo ricordava senza averlo mai avuto.

E come lui era caduto in ginocchio, invece, ai suoi piedi, e in un’inarrestabile progressione di tremiti aveva iniziato a piangere, con una violenza e un dolore sconvolgenti.

Da solo.

Senza chiedere niente. Nemmeno aiuto.

 

Come si era chinata su lui e lui non aveva reagito. Come gli aveva detto “ti prego” posandogli la mano sulla spalla. Come lui aveva sollevato il capo. E si era alzato.

 

E come aveva sentito odio, solo per pochi attimi, nelle braccia che la stringevano. E insieme amore.

 

Il bacio che le aveva dato, quasi feroce in mezzo a quelle lacrime, e come l’aveva sbattuta sul suo letto e l’aveva baciata e baciata ancora. A come lei lo aveva lasciato fare e aveva risposto, invece, ai suoi baci, perché capiva quella reazione terribile. Alle mani di lui impacciate che cercavano di allontanarle i vestiti. Alla furia di ogni suo gesto.

 

A come si era fermato, all’improvviso, al contatto delle mani con la sua pelle nuda.

 

A come in quel buio lei aveva intuito il profilo del suo viso. E aveva sentito la sua voce mentre si rialzava, seduto sul letto, vicino al suo corpo disteso e semisvestito. E al tono neutro con cui lo aveva detto. Come se non gli importasse:

“Io non sono mai stato con una donna, Oscar”.

 

Tutto ciò che quella frase significava.

Una vita donata a lei per amarla, per consumarsi nell’amore per lei, ogni giorno, ogni respiro di più. Due occhi donati a lei per salvarla, per riportarla al sicuro. Un rischio corso senza esitare un istante, come se i suoi occhi non contassero niente, di fronte a questo.

La coscienza di averla perduta lo stesso, quando più aveva bisogno di lei. E non poterglielo dire, che aveva bisogno di lei, perché sapeva che non sarebbe bastato.

Il dolore di non saperla lasciare comunque, di continuare disperato a guardarla finché la vista gliel’avesse permesso. Sempre di meno, in bagliori rari che si spegnevano esausti proprio nel momento in cui li amava di più.

L’intimità con lei, che aveva distrutto il suo cuore.

Il desiderio profondo, sfibrante, che aveva tormentato i suoi giorni e le sue notti, i suoi sensi di ragazzo e di uomo protesi in un’attesa estenuante, sorretta solo da una folle fiducia. Il suo corpo sveglio, sempre sveglio e sfinito dalla voglia di lei, dai fugaci contatti con lei che diventavano fantasie di giorni, dal suo profumo cui doveva resistere e dal dovere trovare come.

La solitudine di non averla avuta nonostante tutto questo, di essere ancora senza lei a causa di tutto questo, di non poterla più avere perché tutto questo esisteva ancora.

Di non aver potuto trovare nessun’altra donna, perché le altre donne erano cancellate, dal suo amore per lei prima, dalla disperazione per lei dopo. Da un’oscurità completa, adesso, che era solo l’immagine del buio che abitava il suo cuore.

Si può essere disperati al punto di non disperarsi nemmeno più?

Io non sono mai stato con una donna, Oscar.

 

E lei distesa vicino, coi vestiti scomposti e una lama fredda nel cuore, e il dolore di non aver compreso, di nuovo, di aver creduto che bastasse incontrarlo in un giorno d’autunno e andare a casa sua, baciarlo e farsi stendere sul suo letto e dargli tutto subito, all’improvviso, senza spiegazioni, stordirsi e stordirlo di piacere per curare quella ferita.

 

Lo aveva fatto tante volte, con suo marito, senza provare niente, che adesso aveva potuto pensare di farlo con lui, senza capire cosa significava.

La rivelazione di cos’era diventata l’atterrì quasi quanto il dolore di André.

 

“Perdonami”, gli disse, ma in quel suono inarticolato non poté sentire la propria voce.

 

 

 

Era successo tutto questo, ieri, a casa sua.

 

 

Prese le carte che aveva fissato a lungo senza vedere cosa c’era scritto, le raccolse con un gesto deciso e triste, ne uniformò i margini con piccoli colpi verticali sul ripiano della scrivania. Le giornate si accorciavano e il tramonto colorava di rosso i muri scrostati della caserma.

Stasera sarebbe tornata da lui. Le aveva detto di tornare.

 

Glielo aveva detto la mattina dopo, quando si erano svegliati insieme sul suo letto. Dopo che proprio lui l’aveva riportata sul suo letto. L’aveva presa in braccio, mentre lei tremava, raggiungendola sulla terrazza della sua casa. Dopo che lei, mortificata, si era alzata cercando di ricoprirsi piena di vergogna, perché non riusciva più a stare così davanti a lui, anche se lui non poteva vederla. Dopo che aveva detto “perdonami, ti prego” e aveva aperto la porta-finestra e aveva respirato l’aria d’autunno per affrontare quel pianto, ed era uscita dalla stanza e si era appoggiata alla ringhiera che cingeva quello spazio minuto, ritagliato come un dono, dal tetto, e aveva chinato il capo senza dire più nulla.

L’aveva sentito alle sue spalle, e non avrebbe saputo dire da quanto tempo ci fosse, perché si era avvicinato a lei come dentro un sogno, con passi senza rumore. Poi aveva pronunciato il suo nome e le aveva cinto piano la vita, da dietro, e le aveva detto: “Non piangere”, semplicemente. E lei pianissimo, per paura di offenderlo, aveva appoggiato il capo al suo petto e aveva pianto di nuovo, tra le sue braccia che l’avevano avvolta. E aveva sentito i muscoli del suo corpo tendersi nel sollevarla, in un gesto che da tantissimi anni non aveva più fatto, e prenderla in braccio, e le sue gambe percorrere senza incertezze i pochi passi per riportarla dentro, e la sua delicatezza adagiarla di nuovo sul letto in quella stanza in cui si muoveva come se vedesse, e lasciare che si rannicchiasse in un canto, piangendo in silenzio verso il muro. E poi di nuovo lui stendersi vicino, e le sue mani sfiorarla per conoscere come stava distesa e abbracciarle piano la vita e poi stringerla senza una sola parola. Dolcemente, prima, e dopo un istante con un abbraccio sicuro, e tutto il corpo accostato al suo, ad aspettare che finisse quel pianto, e che si addormentasse.

 

Altre volte l’aveva cullata così. Il suo corpo ricordò quell’abbraccio e ad esso si abbandonò, fiducioso e grato.

Avevano dormito insieme, nel suo letto, carezzati dall’aria ancora dolce di quell’autunno.

 

 

Sarebbe tornata là, stasera, a stare ancora con lui.

 

Si alzò, per prepararsi ad uscire. Il suo ufficio nel palazzo del Corpo di guardia era lo stesso di sempre. Lo aveva lasciato da ribelle e poi ci era ritornata perché i ribelli avevano vinto: la Rivoluzione aveva cambiato ogni cosa lasciando i muri ed i nomi di prima, e adesso i suoi soldati e lei, dopo aver abbandonato tutto per combattere una guerra civile, erano ancora là a fare ciò che avevano sempre fatto. C’era un lato grottesco, in questo.

Tuttavia non se n’era andata, era rimasta al suo posto. Non per convinzione profonda: erano poche le cose in cui credeva, oramai. Ma quella vita era l’unica che sapeva fare, l’unica base cui potersi ancorare in mezzo al crollo di tutto il resto. Era la strada nota, che aveva sempre percorso, e non c’era una ragione qualsiasi per cui valesse la pena cambiare. Aveva continuato a percorrerla, e nessuno si era posto il problema, tranne lei. Non aveva più nemmeno il pensiero di dover informare  Victor, dopo che si erano separati e dopo che lui era andato via, in Inghilterra, lasciandola sola e senza rimpianti.

A comandare soldati era abituata, anche se adesso le pesava, come se non riuscisse più a trovarci un senso.

Ma senza più niente da sperare, senza André che aveva perduto, in fondo una vita poteva valere l’altra.

 

 

Fino al giorno prima. Prima di lui.

 

 

Ora non era più così. La sensazione più forte che aveva provato, al risveglio, era stata la sua presenza addosso. Il suo respiro regolare e sicuro, il suo braccio che l’avvolgeva ancora. Era rimasta senza muoversi, con gli occhi chiusi nel primo albeggiare, per non doversi privare di quel contatto, perché non si svegliasse anche lui. Poi aveva preso sonno di nuovo, facendoglisi più accanto.

 

Li aveva trovati così, due ore dopo, Rosalie. E a svegliarli era stato il vassoio della colazione caduto a terra. Era entrata nella stanza dopo aver bussato senza avere risposta: lo faceva ogni giorno, con sollecita cura, da quando André abitava vicino a loro. Non si aspettava proprio quello che vide: fu come percossa dalla scena davanti a sé, da quei due corpi abbracciati che sembravano uno, da quel sonno quieto e però quasi commosso. Qualcosa che escludeva il resto del mondo.

Una donna con André, nel suo letto. Una donna con dei lunghi capelli biondi. Non una donna qualunque, ma proprio lei. Oscar.

La Oscar che conosceva, cui aveva voluto bene. E nello stesso tempo un’altra. Dov’era la sua gravità, il suo contegno? Quell’aura un po’ altera e triste che emanava dalla sua persona? In quel letto, tra le braccia di André, non c’era traccia della nobiltà composta di ogni suo gesto, dello sguardo dignitoso e gentile che si stendeva sul suo volto perfetto. Rosalie ebbe come la sensazione di aver rubato un segreto. Di aver visto quel mattino qualcosa che il mondo non sapeva di lei. Qualcosa che soltanto André conosceva: si vedeva da quell’abbraccio, così intimo, privato.

 

Per questo le era caduto il vassoio. E anche perché, nel vederli, aveva avuto una stretta al cuore. Una fitta dolorosa, che non seppe spiegare.

 

Oscar aveva aperto gli occhi, a quel rumore improvviso, e per istinto la sua mano era corsa al fianco, a cercare la spada. Aveva incontrato la mano di André, posata su lei.

Poi si era riscossa del tutto, e si era subito alzata. “Rosalie...”, aveva detto, incerta tra l’imbarazzo e il piacere di rivederla, stupita e confusa, mentre, in piedi davanti al letto, si rassettava i vestiti. Anche André era sveglio, adesso, e si era alzato anche lui. Si era portato poco davanti a Oscar, quasi a coprirla col suo corpo, ma non parlava.

“Oh! Scusatemi, vi prego, scusatemi... - aveva detto Rosalie  piena di vergogna -. Non sapevo, io... volevo portare la colazione... mi è caduto il vassoio.”

“Hai fatto un bel fracasso...”, aveva commentato André sorridendo, per metterla più a suo agio.

“Sì... sì... – aveva risposto lei, e si era messa a raccogliere i cocci delle stoviglie da terra -. Porto tutto via, vado via... scusate...”

Lo aveva fatto in un attimo ed era uscita, lasciandoli soli.

 

André aveva avuto un moto divertito, allora, per quella situazione, e aveva riso solo un istante. “E adesso? – si era chiesto grattandosi il capo -. Siamo stati scoperti... impossibile negare alcunché”.

“Già, non ci crederebbe nessuno... – aveva ammesso lei, un po’ stando allo scherzo, un po’ come parlando tra sé -. Ci conviene confessare”. Improvvisamente si erano sentiti come due ragazzi, la stessa capacità di scherzare di allora, di sdrammatizzare nei momenti più tesi. Era stato sempre così, questo Oscar se lo ricordava.

Se lo era ricordato anche André. E si era fatto serio, volgendosi a lei, avvicinandosi per sfiorare il suo viso con le mani. E questa volta aveva portato a termine il movimento, senza più il pudore che il giorno prima lo aveva trattenuto: “Lascia che riconosca il tuo viso...” aveva mormorato come per spiegarle, e le aveva sfiorato le sopracciglia, le guance, le labbra delicatamente, mentre lei, immobile e commossa da quel gesto nuovo, aveva chiuso gli occhi.

Poi lui non aveva resistito, e con le labbra aveva raggiunto le dita sulle sue labbra, vi aveva posato un bacio leggero, non più triste, con gli occhi chiusi anche lui.

Le aveva preso delicatamente il viso tra le mani e aveva accostato la fronte alla sua, con un sospiro: “Vai, ora”, aveva detto infine a voce bassissima, e poi dolcemente si era allontanato lui, perché Oscar non si muoveva.

E quando lei aveva dovuto riaprire gli occhi e muoversi per andare, cercando qualche cosa da dire per riempire il vuoto insopportabile di non averlo vicino, André aveva di nuovo parlato, con la stessa tenerezza nel tono: “Torna, se vuoi”.

 

Per questo era riuscita a varcare quella porta, e ad uscire in strada. Solo per poter tornare.

 

Continua

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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