La Città Indifferente
Girolamo De Simone

«Il Sud è stato fuori da ogni serio interessamento politico e culturale, anche a sinistra»: Carlo Donolo parte da questa denuncia nelle sue Questioni meridionali, primo volume pubblicato dall’editore napoletano l’Ancora.  E’ il lavoro di un settentrionale che si dichiara «meridionale per vocazione», e che dal pulpito dell’amicizia, benché il testo solleciti poi alla diffidenza verso gli amici dichiarati, propone analisi e diagnosi delle ferite che affliggono le città meridionali. Il libro ha già prodotto alcuni interventi, tra i quali quello di Enrico Pugliese sulle pagine de “il manifesto”, e certo se ne continuerà a parlare, anche perché sembra richiamare idealmente il Pensiero meridiano di Franco Cassano e le denunce di Francesco Barbagallo in Napoli fine Novecento.

Qui, più modestamente, mi offre uno spunto per alludere ad Il resto della Memoria, l’azione musicale per voce recitante e pianoforte che ho tenuto a Napoli nello storico Palazzo Marigliano (simbolicamente sede dell’Archivio di Stato) per i duecento anni della Rivoluzione del 1799. A quell’evento hanno presenziato la vedova Striano, gli amici di Luciano Cilio e di Valeria Saporito, varie personalità del mondo della cultura napoletana.

Ma si è trattato di un’operazione celebrativa o di una denuncia?

 

***

La musica e la cultura appaiono solo sullo sfondo delle Questioni meridionali di Donolo, ma non vengono sottovalutate, perché «chi canta, chi racconta, chi studia, chi percorre il Sud traendone suoni lamenti proteste e ragioni alimenta la speranza di tante generazioni».  I falsi amici del Sud, invece, si sono sempre dichiarati conciliati, ovvero attratti dal folklore locale, dall’aura di ‘alternativa’ emanata da luoghi che, spesso deliberatamente, si pongono «ai margini della crescita e dello sviluppo», e per i quali il postmoderno è accettato solo in virtù delle merci che lo rappresentano (dai cellulari ai tre ‘quartini’ di proprietà). Ciò naturalmente non significa rinnegare i prodotti più specificamente etnici: «che si possa avere sviluppo pur mantenendo caratteri locali marcati lo si è visto nel caso di regioni come la Catalogna e l’Andalusia. L’identità è cultura e la cultura è movimento, come mostrano proprio i prodotti culturali più significativi del meridione oggi, per esempio la musica». Sarebbero molti, quindi, i motivi di riflessione per critici, musicisti ed intellettuali del Sud, soprattutto per una luminosa intuizione, che conferma quanto ho cercato di mostrare ne Il resto della Memoria, attraverso un collage di citazioni significative: la vera fonte di forza, per il meridione -la visione della ‘polvere di dio’-, sta nella cura della memoria, la quale potrebbe scardinare la propensione alla tragedia, e fornire «argomenti per la critica del presente, avendo cura e affetto per quei contesti anche fisici in cui il passato si è cristallizzato». Infatti alla perdita di memoria nel meridione, allo smarrimento quotidiano delle presenze di quanti vi operano, alla rimozione di chi nel passato ne è stato «vittima», corrisponde il peggior nemico del Sud, una irriducibile «ansia di distruzione». 

 

***

Un altro editore napoletano, Pironti, ha invece pubblicato un instant book interamente dedicato al fenomeno dei ‘neomelodici’, ovvero dei cantanti ‘di quartiere’ specializzati in feste nuziali nell’ hinterland partenopeo, assunti a recentissima notorietà nazionale grazie ad alcune trasmissioni su Rai Due e a diverse puntate del “Maurizio Costanzo Show”. Quindi già la televisione aveva ripreso il luogo comune della Napoli iconografica, dei ‘quartieri’, degli ‘scugnizzi’,  insistendo sul Leitmotiv  mare/sole/tarallucci. Il libro mi dà un pretesto per delineare le due contrapposte visioni della napoletanità. La prima, assimilata ad artisti d’avanguardia ed intellettuali militanti, è sempre perdente, benché possegga uno ‘sguardo lungo’, e riceva riconoscimenti postumi, per l’indiscusso ed «assoluto valore» di opere, azioni, impegno civile: è quella a cui è volto l’omaggio ne Il resto della Memoria.  La seconda, invece, è autoreferenziale, cinta dentro le mura, veteroiconografica, reazionaria. Non può ricordare, perché è priva di memoria, non può produrre, perché non possiede gli strumenti tecnici e specifici; però è sempre vincente perché capace di adattarsi al vento che tira, di sfruttare l’enorme potenziale economico delle forze che la sostengono, ed in grado di strumentalizzare desideri ed aspettative del ‘popolo’ facendosene apparentemente interlocutore, ma calpestando poi un suo diritto fondamentale: quello di poter essere differente, avere desideri che vadano oltre il vicolo. Ho cercato di combattere questa visione sia come musicista che come operatore, implicitamente quando ho effettuato concerti o programmato performances e stagioni musicali, esplicitamente quando ne ho scritto (come di recente su “Alias”, settimanale de “il manifesto”).

 

***

La panoramica offerta dalla televisione mi è parsa decisamente parziale. Tutte le realtà di ricerca e produzione, uniche nel panorama nazionale, o addirittura all’avanguardia nella ricerca internazionale (si pensi al lavoro del gruppo AC.EL.) sono risultate oscurate oppure ‘messe tra parentesi’ e dimenticate. Di queste realtà e memorie inconciliate, rimosse, ha taciuto anche l’ instant book  in questione. Il suo autore, che lavora al “Mattino” di Napoli, già in alcuni articoli aveva offerto una visione acquartierata dei fenomeni musicali che attraversano la ‘città porosa’. Ora scrive che la parte di Napoli rappresentata dai neomelodici non fa opinione e che la musica neomelodica può dirsi perfettamente ‘contaminata’. Poi, allo stesso tempo, le attribuisce tutte le caratteristiche della conservazione: pop etnicamente marcato, testi e stile che esaltano acriticamente valori reazionari. A me, che pure tratto di queste cose da vent’anni, francamente sfugge dove possa stare la contaminazione in un contesto così etnocentrico.

Tra le incongruenze di questo approccio, la principale sta nel celare fra le righe l’atteggiamento pregiudiziale che si vorrebbe combattere. E il pregiudizio peggiore è che  la ‘massa’ (qui identificata con il popolino dei quartieri, di Afragola, delle 167) possa e debba amare i neomelodici solo perché se li ritrova nella bottega adiacente. E’ improprio richiamarsi al raï o al rap, perché queste musiche nascono da  emergenze e proteste di portata rivoluzionaria. Riescono ad esserne la voce  anche in senso tecnico-musicale, finendo con il rivitalizzare l’intera comunità. La musica neomelodica, invece, così come viene descritta nell’ instant book, sembrerebbe oscillare tra la continuità/contiguità con i peggiori fenomeni metropolitani ed il racconto conciliato, e quindi conservativo, di ciò che circonda i falsi scugnizzi, quelli che possono permettersi auto da corsa, servizi d’ordine, cellulari a profusione, produzioni video e discografiche. Certo, questi ‘scugnizzi’ vendono poi i loro dischi sottocosto, come ha scritto Flaviano De Luca in un altro intervento pubblicato su “il manifesto”, facendomi trasecolare per la sua disinvoltura: questi dischi verrebbero distribuiti sottocosto per combattere la globalizzazione dell’economia? Bah!

 

***

Una voce controcorrente, proprio nei giorni in cui sul “Mattino” imperversavano lettere/letture sui neomelodici ed annunci di presentazioni/concerti alla “Festa de l’Unità”,  si è affacciata timidamente sullo stesso giornale. Pare quasi essere caduta nel vuoto, perché il dibattito pubblico, ancorché estivo, tende a passare di moda, ma Giuseppe Tortora, naturalmente in prima di cultura e non nelle pagine degli spettacoli, ha provato a descrivere il fenomeno del neokitsch, affrontando tra l’altro il contenuto di una canzone neomelodica. Ha preso un testo e ne ha ricercato le ragioni nascoste, le quali definiscono i contorni di una napoletanità odiata da Neiwiller, Striano, Cilio (ma questo riferimento, naturalmente, è mio: la memoria non è mai stata di moda sui quotidiani partenopei). L’eroe neomelodico aspetta un bus per andare al lavoro. L’autobus però non passa. Ecco il pretesto per andare a ‘pariare’. Nichilismo, disprezzo per il lavoro, esibizionismo e consumo della vita. «Altro che passo dopo passo bassoliniano -conclude Giuseppe Tortora-: il passo deve essere più lungo della gamba, sempre. Altrimenti il vicolo ti caccia, non ti riconosce i gradi». Il vicolo ti caccia, ed è la fine del mondo conosciuto.

 

***

La contrapposizione tra le due Napoli, riconducibile ad una modalità del tipo ‘sacche di resistenza’ / ‘effusività del potere’, si (ri)presenta in un momento critico per la storia del meridione, e riguarda settori differenti del mondo della cultura e dell’arte, dal cinema alla letteratura, dalla critica ‘colta’ alla pubblicistica. Si è già detto che la tv sta fiancheggiando l’inquietante ritorno di un’ immagine del Sud vecchia ed ormai assolutamente inadeguata alle reali esigenze della collettività, specialmente dopo quanto già operato dai sindaci di sinistra insediati nel momento d’ascesa folgorante  dell’Ulivo uno.

Se il tentativo di tornare ad una veteroleografia della città di Napoli, ed in generale del meridione (Catania e Palermo vivono lo stesso sconcertante fenomeno) fosse privo dell’ apporto strategico delle televisioni, formidabile dal punto di vista dell’orientamento delle opinioni, il problema potrebbe essere confinato alla solita diatriba tra oziosi. Ma poiché questo invece è proprio quello che sta accadendo, e poiché perfino i quotidiani appaiono espropriati del loro ruolo di riflessione critica (dovendo fare i conti con partiti trasversali fortemente interessati a portare avanti discorsi economicamente convenienti ai propri redattori e ai loro amici) e con spazi sempre più esigui, il luogo della riflessione sta spostandosi in sedi differenti: mail; fanzine di centri sociali; poche riviste con periodicità dilatata. Parole di ‘resistenza’ vengono pronunciate per pochi fruitori, in canali semiclandestini, ed ignorate dai più.

Così, poiché per i grandi quotidiani e per le televisioni una cosa accade quando pare a loro, quando cioè decidono di lanciarla sul terreno del già assimilato, mostrare una parte della città meridionale come “la” città non sarebbe mistificatorio, ma leggera operazione di descrizione del costume.

In realtà l’operazione è politica.

 

***

La discussione sulle due Napoli è montata anche in campo cinematografico, in occasione dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Ne faccio menzione qui non con intenti censori, ma solo per documentare l’effettività della contrapposizione in differenti settori della produzione artistica e culturale. La polemica è nata in sede critica, tra il film di Tonino De Bernardi che ha firmato la pellicola Appassionate, e  Autunno, della giovane Nina di Majo. Il primo avrebbe tentato di riproporre l’immagine-cartolina della città; la seconda avrebbe inteso la città come uno dei luoghi di possibile ambientazione. Tra le due strade, è stato scritto da un critico, la terza via, né aderente alla retorica del vicolo né a quella del cinerinascimento partenopeo, potrebbe essere quella di Stefano Incerti, con Prima del tramonto. Temo però che questa terza via non sarà quella seguita (mentre scrivo il film non è ancora uscito) da Non lo sappiamo ancora, che eredita il meglio e il peggio della trasmissione televisiva “Telegaribaldi”.

Qui rilevo un ulteriore problema: la critica si è generalmente dichiarata sfavorevole ad Appassionate, con l’eccezione de “il manifesto” (con un articolo di Roberto Silvestri). Lo stesso accade in sede di recensione del fenomeno neocanzonettista. Sembrerebbe proprio che la distinzione tra popolare e populista venga smarrita proprio da chi dovrebbe difenderla, e trattata con incredibile leggerezza.

 

***

In campo letterario ha fatto parlare di sé un articolo-denuncia scritto da Fabrizia Ramondino su “L’Indice”: un “Manifesto contro la definizione ‘scrittori napoletani’ ”. «Noi scrittori definiti ‘napoletani’ ci siamo sempre sentiti a disagio sotto questa etichetta (...). Questo non implica che noi scrittori definiti ‘napoletani’ rinneghiamo la nostra terra, quando tale consideriamo Napoli, una regione quindi della nostra anima». La richiesta è più che legittima, e viene avanzata per il fastidio che nasce in chi si ritiene cosmopolita per vocazione. Questo malcostume è tipico anche della critica musicale, dove pure, sistematicamente, musicisti noti ed attivissimi vengono definiti immancabilmente «giovani compositori napoletani»; non avrebbe senso dichiararlo più di quanto non accada in altre città settentrionali. Per quale ragione economico-politica, infatti, non si sente dire «i giovani compositori milanesi», mentre si sente parlare dei ‘giovani’ palermitani e dei ‘giovani’ catanesi? La Ramondino ne suggerisce una spiegazione: la ragione sta nel tentativo di attribuire un localismo ‘diminutivo’ agli scrittori in oggetto.

Che i musicisti quarantenni e quarantacinquenni milanesi siano già considerati dei caposcuola italiani e che invece i quarantacinquenni napoletani vivano l’eterna giovinezza per l’ignoranza e la pressappochezza della critica nostrana (che ha definito giovane e napoletano anche il defunto e spezino Giacinto Scelsi) è decisamente irritante. Qual è la ragione profonda per la quale accade questo?

 

***

Quando nelle trasmissioni di Costanzo appaiono i fenomeni del belcanto vicolistico; quando negli speciali di Canale Cinque si vede il teatrino di varietà e compaiono solo quelli che oggi stanno riscuotendo uno straordinario successo grazie al revival delle macchiette napoletane (i pur bravi “Virtuosi di San Martino”); quando Rai Due offre lo spettacolo dei vicoli della città, dei cortili, dei video amatoriali, delle televisioni private ed extraprivate che mediano abbracci circolari a tutto il parentado; quando Rete Quattro offre un Festival di Napoli che fa rabbrividire una larga fetta di napoletani per l’atmosfera provinciale (ecco lo sponsor locale, l’albergatore, la personalità del paesino, i cugini ed i fratelli dei produttori della zona, i vincitori delle passate edizioni trattati come se fossero già delle star, etc...); quando la fratellanza con l’Albania passa attraverso i soli Mario Merola (che ci va ‘gratis’, come tiene a precisare) e le altre nuove star neomelodiche; quando persino le trasmissioni del Tenco vengono funestate da apparizioni inquietanti (ma a Napoli ben conosciamo la verità celata dietro questi fenomeni e queste trasmissioni, ben soppesiamo queste competenze esibite come già dimostrate, conosciamo la storia, il percorso e la formazione dei critici, valutiamo correttamente la cosiddetta ‘qualità’ del vicolo; essa ci appare sciatta e squallida perché in fondo la vediamo da vicino, quando non c’è l’occhio della telecamera a nobilitarla); quando gli stessi ‘musicologi’ chiamati a descrivere i fenomeni in oggetto mostrano la pochezza dei loro strumenti sociologici, l’incompetenza tecnica nel trattarli (dimostrabile dai loro articoli in qualsiasi momento), gli interessi di parte o di amicizia nel cavalcare l’onda lunga del fenomeno con interventi remunerati. Quando tutto ciò riesce ad oscurare i centomila di Piazza del Plebiscito, la Montagna di sale di Palladino, gli Istituti di informatica primi in Europa, la Nuova Immagine bassoliniana (che tutto sommato avevamo pur criticato perché appunto non comprensiva dei vicoli e delle periferie; esse avrebbero certo preteso e ottenuto una rivincita sponsorizzata da altre forze politiche...): ecco che un campanello d’allarme deve suonare, e spingerci a dire che tutta l’ operazione, quando non meramente e bassamente economica, è profondamente politica, nasce da ambienti non interessati al rinnovamento, ma alla restaurazione delle abitudini appena incrinate con tangentopoli, alla difesa degli interessi dei pochi appena celata da schermi di viscido populismo e qualunquismo. Non sono il solo ad aver avuto quest’idea: di “Morte di una stagione napoletana” parla pure Roberto Esposito in una omonima inchiesta svolta per la rivista “Micromega”. Quale arma migliore, per oscurare e inabissare il lavoro di immagine fatto da Bassolino, che richiamare nell’immaginario collettivo le olografie bisunte della Napoli che canta, della Napoli becera e fannullona, piagnona e nullafacente, vincente sempre per strafottenza, veteroturistica e distratta, cafona e ladrona, perché tanto qui ‘ce sta o mare’?

Inquietante pure il ritorno delle brutte immagini del passato, in numerosissimi spot pubblicitari, col furetto che prova a ‘rubare’ le merendine, e naturalmente parla il dialetto napoletano, la fanciulla popputa che vanta il nostro sole, le famigliole di pescatori napoletani o procidani che provano a vendere pescetti surgelati: sembrano usciti dai vecchi film di De Sica. E’ la stessa operazione che è stata fatta col film sul caso Tortora, o nelle fiction che mostrano giudici rigidi nel rispetto delle leggi, e insensibili sul piano umano: in entrambi i casi si sta tentando una delegittimazione. Nel caso specifico,  di delegittimare il lavoro svolto dalla sinistra nelle città del Sud.

L’operazione è politica, occorre ribadirlo; e politica - profondamente motivata - ed etica, dovrebbe essere la risposta.

 

***

In un articolo su “l’Unità”,  Pietro Greco si è occupato di un libro edito dall’Istituto Studi Filosofici dedicato al celebre matematico napoletano immortalato dal Film di Martone: Renato Caccioppoli. La Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo. L’articolo parla delle intuizioni scientifiche del matematico, ma soprattutto del ruolo culturale da lui svolto per la cultura e gli intellettuali cittadini: «Caccioppoli è l’emblema della capacità trascinante e, insieme, dell’isolamento in cui spesso gli intellettuali, anzi gli intellettuali militanti, vivono nella città partenopea». Il problema, sembra suggerirci Greco, non è l’assenza di cose belle e buone, ma la rimozione operata dalla collettività a causa dell’inerzia della classe dirigente. E’ questo il passaggio importante, perché se la questione è politica, allora tanto vale dirla tutta: dall’indebolimento di quella politica capace di sostituire con una montagna di sale il mare di panzane detto sulla città, deriva il riaffiorare di quelle stesse panzane. Se proprio una olografia ci dev’essere, è meglio quella del primo Bassolino piuttosto che quella proposta dalla veteroiconografia reazionaria nazional/popolar/televisiva. Dall’indebolimento dell’idea di una sinistra unitaria, e dai passi falsi compiuti da questa sinistra (la chiamata a ministro di Bassolino, in questo senso, è parsa devastante, perché ha contribuito a neutralizzare la forza aggregante e trascinante dell’uomo che poteva dire “no” a D’Alema), deriva l’impossibilità di renderla un interlocutore credibile, capace di far crescere realmente il senso comunitario della città, motivando i suoi artisti, mantenendo viva la memoria sul lavoro già svolto da quanti vi operano da decenni, spingendo perfino gli scugnizzi a scendere dai vicoli, non per adorare il loro simile ‘travestito’ da divo e messo lì come feticcio, ma per giocare con una montagna di sale esattamente come i bambini della Napoli-bene. Dove sta la politica se non riesce ad aggregare, a coinvolgere? Al di là del valore in sé di un’ulteriore bella stagione della canzone napoletana (chi di noi vorrebbe contrastare la continuazione di un fenomeno popolare?) non si può che guardare con sospetto ad un amore per il kitsch che arriva in ritardo di qualche anno (il centro-destra si aggiorna sempre con difficoltà), e che osa camuffarsi come necessità ‘popolare’!

Pietro Greco conclude il suo articolo con una considerazione che suona purtroppo un po’ amara per chi vive ed opera a Napoli:  «Renato Caccioppoli e il suo ‘movimento’ mostrano un impegno e una lucidità quasi del tutto estranei alle classi dirigenti napoletane. Qui sta la loro forza. E qui sta il loro limite. Perché questa dimensione di lucidità intellettuale, di impegno civile e di capacità progettuale, a Napoli, riesce sì a raggiungere livelli di valore assoluto. Perpetuando una antica tradizione. Ma appartiene a piccole minoranze illuminate, cui non riesce mai di stabilire contatti saldi e duraturi col resto della città e col resto delle classi dirigenti della città. A ogni generazione, Napoli produce grandi intellettuali e nuovi stimoli. Ma ogni volta, ieri come oggi, la città non se ne accorge».

La nostra tesi qui diverge da quella di Greco: perché sia le classi dirigenti che la parte della città più viva conoscono benissimo queste realtà ‘scomode’, le quali poi spesso riscuotono i loro successi all’estero o altrove in Italia; ma preferiscono ‘rimuovere’ la spinta di civiltà e mostrarsi indifferenti verso il nuovo che quegli intellettuali conferiscono, malgrado Napoli, alle loro discipline artistiche o scientifiche. Ecco il motivo per il quale Il resto della Memoria tratta delle ‘memorie inconciliate’, che sopravvivono nonostante tutto. Chi sa, sa benissimo quanto queste persone abbiano dato alla loro città. Pertanto noi dobbiamo contrastare questa rimozione proprio nella città di Napoli.

La politica potrà risultare affidabile e capace di aggregare soltanto quando riuscirà a ‘ricordare’ le conquiste ed i meriti guadagnati sul campo dagli intellettuali e dagli artisti militanti: sempre perdenti, ma non certo per vocazione. Se invece continuerà a mostrarsi incapace di ricordare, aggregare e coinvolgere, allora vinceranno le forze della dissipazione,  dell’improvvisazione, dell’interesse individualistico e personale. Con grande soddisfazione dei cantanti di quartiere, del cinema neo-kitsch, e della vecchia cara Napoli di sempre.

 

* Elenco alcuni dei testi importanti ai quali ho fatto riferimento:

AA.VV., Renato Caccioppoli. La Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo, nuova edizione, Napoli 1999, Istituto per gli Studi Filosofici.

FRANCESCO BARBAGALLO, Napoli fine Novecento, Torino 1997, Einaudi.

FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Roma 1996, Sagittari Laterza.

GIROLAMO DE SIMONE, “Luci e ombre della questione neomelodica”, su “Alias/il manifesto” dell’11-9-1999.

CARLO DONOLO, Questioni meridionali, Napoli 1999, L’Ancora.

ROBERTO ESPOSITO, “Morte di una stagione napoletana”, in “Micromega” n. 1/1999, Roma 1999, Editoriale l’Espresso.

PIETRO GRECO, “Caccioppoli, matematico e rivoluzionario”, su “L’Unità” del 4-10-1999.

ENRICO PUGLIESE, “Musica nuova senza accompagnamento”, su “il manifesto” del 4-8-1999.

FABRIZIA RAMONDINO, “Manifesto contro la definizione ‘scrittori napoletani’, su “L’Indice” n. 9, settembre 1999.

GIUSEPPE TORTORA, “Napoletanità, i nuovi barbari”, su “Il Mattino” del 30-7-1999.

 

 

 

L’Azione Il resto della Memoria, per pianoforte e voce recitante, è stata rappresentata la mattina del 30 Maggio 1999, a Napoli, nel Salone delle Feste dello storico Palazzo Marigliano, sede della Sovrintendenza archivistica della Campania, a cura dell’ “Associazione musicisti Manuel De Falla” e dell’Istituto Studi Filosofici di Napoli. Piace ricordare qui, con Ramondino, che «A Palazzo Marigliano visse e operò anche Antonio Neiwiller, diretto con la sua barchetta, dal nome “Teatro dei Mutamenti”, verso la parte dell’isola che aveva intravisto. Ché quest’isola compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie. In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo» (Fabrizia Ramondino, Promenade napoletana). Il testo che segue è una selezione tratta dal libretto di sala che ha accompagnato l’evento.

 

.

 

 

IL RESTO DELLA MEMORIA*
Girolamo De Simone

 

Ingresso del pianista; in piedi affianco al pianoforte produce un cluster di corde. La voce recitante parla fuori campo, sul riverbero del cluster.

 

«L’àsteco chiove, la casa scorre. Tu che ‘nce puo’ fa’?» credé d’udire, nel frastuono che straripava anche lì. Fece una riverenza, un sorriso stremato. “Io che n’ce posso fa’ ” pensò, in napoletano lei pure. Come dicevano i Napoletani per significare “nulla, proprio nulla, nada de nada”? «Ah sì. Il resto di niente». [E. Striano]

 

Parte un primo nastro sul quale si inserisce il pianoforte. La voce recitante fa il suo ingresso in scena.

 

«Questo è ‘no paese de merda» rispose Paisiello, strascicando le vocali nell’accento pugliese. «Questa che dici tu non è musica. A Pietroburgo. Là, forse, si potrà fare veramente musica» (...). Arrivò un suo amico giovanissimo, uno studente del conservatorio che si chiamava Cimarosa. «Pure tu si’ venuto», osservò, scontento, Cimarosa si strinse nelle spalle. Era grassoccio, dall’aria paesana, un poco addormentata. Qualcuno cavò argomenti musicali, nonostante Paisiello apparisse infastidito. Giunsero le dame. «Mo’ speriamo che a nisciuna le viene dint’a la capa de canta’» mormorò Paisiello (...). [E. Striano]

.....

[E così], furono un torrente i «talenti» che se ne andarono. Resta un mistero il contributo pagato da Napoli allo sviluppo di Milano e del resto d’Italia in termini di intelligenze esportate. «Se fosse possibile un calcolo economico di questo genere potremmo chiedere una serie di (...) [cospicui] risarcimenti», ha ironizzato Luigi Compagnone (...). [E. Rea]

.....

Ma non è facile liberarsi del richiamo di una città quando ad essa ci si sente legati da vincoli così intensi da apparire indecifrabili. Apparentemente Napoli e Caccioppoli si [amarono] perché non si [rassomigliavano] quasi in niente, [attraendosi] per forza di contrasto.

(...) Il ‘matematico matto’ non si muoverà più da Napoli; finirà per far parte del suo paesaggio sommerso, per diventare parte integrante delle sue pietre e dei suoi intonaci, delle sue sere sciroccose e torbide, della sua disperazione romantica: sarà «l’altra Napoli», rispetto a quella rappresentata dall’intramontabile cartolina spaghetti, buonumore e furfanteria. [E. Rea]

.....

Il napoletano non è poi un personaggio così ‘ricco’, (...) nel senso di quella acquisizione filosofica, irrealizzata, che, per drammatici fraintesi, lo vuole solare e creativo. Sicuramente pertanto i momenti migliori di questa città, forse proprio secondo la più bisunta oleografia, ritornano quelli di sempre: la sua posizione naturale, alcune zone isolate vicino al mare, che isolate sembrano addirittura dal mondo, pervase da una segreta, ineguagliabile dolcezza che sarei tentato di designare con un vocabolo tedesco intraducibile, tipicapente schubertiano: ‘Heimlichkeit’, dov’è la radice di parole come segretezza, mistero, tranquillità, quiete; motivi di ‘straniamento’ ma purtroppo anche (...) di continuo rimpianto, per una condizione [che ci viene negata]. [L. Cilio

 

Alla frase di Cilio segue uno dei brani tratti dal suo disco “Dialoghi del presente”: Frammento dal “Primo quadro, della conoscenza”. Alla fine del brano riprende la voce recitante.

 

E poi invece, dopo, tu hai continuato a suonare. Andava bene, però bisognerebbe fare in modo che questa musica passasse per delle zone di silenzio; cioè, ogni tanto come se prendesse corpo.  [A. Neiwiller]

.....

Di quella serata Renzo non ricorderà altro. Salvo che a un certo punto Renato Caccioppoli [avvicinatosi al pianoforte, ne alzò in maniera imprevista il coperchio] e, in piedi, con la sola mano destra, [cominciò a suonare]: pochissime note soltanto, ma senza ritmo, sfibrate, simili a un flebile sospiro. [E. Rea]

 

In sottofondo il pianoforte suona silenziosamente alcuni frammenti di un brano di Giuseppe Chiari, “Intervalli numero dieci”.

 

«Poi mi chiese con un sorriso: ti dispiace se suono un piccolo pezzo, una cosa breve? Fu in quel momento che mi accorsi che sulla parete che sovrastava il pianoforte era appeso un ritratto a olio di Renato Caccioppoli, una tela di discrete dimensioni incassata in una cornice non priva di pretese. Si mise a suonare, non ricordo che cosa, senza smettere di parlare. Ma parlava veramente con me, soltanto con me? Ebbi la netta sensazione che intendesse comunicarmi qualcosa, (...) qualcosa che coinvolgeva Renato: insomma come se lei continuasse a tessere un suo ragionamento con lui, un discorso che riguardava le radici stesse del vivere... Guardava spesso il ritratto; anzi a un certo momento mi chiese: hai visto come è somigliante? Lo stesso impercettibile sorriso ironico, lo stesso sguardo insieme appassionato e deluso. Deluso di tutto...». [D. Greco, citato da E. Rea]

 

Il pianista esegue due brani evocativi di Arvo Part e Zbigniew Preisner. Subito riattacca la voce recitante.


«Chiacchiere prive di costrutto, Napoli continua a non servire a nulla. In fondo nessuno sa a cosa debba servire. Forse solo ai ricchi per farci spese, ai nobili per scialacquarvi le rendite, correndo dietro alle ballerine del San Carlo. Nonostante tutto, non so perché, resta meravigliosa: affascinante, allegra».

«Sì» disse lei, con sincero trasporto. «E voi dovreste aiutarmi, Vincenzo. Perché io la debbo capire. La voglio conoscere bene. Presto. Non mi muoverò più di qui, lo sento: in questa città mi toccherà vivere, forse vi vedrò nascere i miei figli. Ci morirò, infine, e vi verrò sepolta» aggiunse, con leggera civetteria di tenerezza.

«Amen» concluse lui, in tono sacerdotale. [E. Striano]

.....

«(...) Ma a Voi piace questa città sporca, ignorante? Non ne avete schifo e vergogna? Quanto tempo ci vorrà per cambiarla?»

«(...) [Certo] che non mi piace» replica Sanges, serio. «Ma non voglio prenderla in giro. Né sedurla con promesse impossibili. Voglio aiutarla a liberarsi da sola. Smettiamola d’aspettare che lo faccia gente forestiera!». [E. Striano]

.....

«(...) Odio Napoli, è chiaro? (...) Parlo d’odio perché vedo Napoli come una tragedia senza sbocchi, senza speranza. L’odio è indotto esattamente da questa assenza di speranza, di catarsi possibile. Del resto, perché credi che [Francesca si sia uccisa]? Era una donna trascinante. Ricordo con precisione questa sua forza di trascinamento, questa sua tensione interna, questo (...) fuoco, questo suo continuo cercare. Fu uccisa dalla solitudine. Napoli è una città dove la solitudine ha qualcosa di corposo, di solido, di materiale. E’ una solitudine pesante, non lieve ma greve, non trasparente ma opaca, non silente ma rumorosa. E’ una solitudine nella ressa, nel rumore, nel disordine. E’ una solitudine senza poesia, senza nulla di allusivo, di pacato, di raccolto» [L. Compagnone citato da E. Rea].

.....

Napoli ha l’amabile leggerezza di un paese senza invidia. Eppure è carica di malocchio. [A. Gatto]

 

Parte il secondo nastro, con “Dissolvenze” di Gabriele Montagano. Sul brano il pianista esegue “Su Dissolvenze” di G.D.S.

 

La città è il labirinto: (...) i percorsi metropolitani sono specchi d’acciaio. [Valeria Saporito]

.....

Da Napoli non si sarebbe più mossa. Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio fra pietà e disincanto.

Tutto acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla. [E. Striano]

.....

Gli uomini del sottosuolo / Notturno / luce negli occhi (...) / solo gli occhi nella scena  / gli uomini disgelati / gli uomini del futuro anche / occhi illuminati.

Questa scena ha più sensi / dal sotterraneo al mistero alla rivoluzione (...). [A. Neiwiller]

.....

Ne parlò con Vincenzo, il quale scuoteva il capo. Alla fine osservò: «Lenòr, io non voglio influenzarti, per carità. Ti dirò la mia opinione: questa società dei liberi muratori è una strana cricca che cresce dappertutto. Non so bene donde sia venuta, né cosa voglia. Sì parlano di libertà, eguaglianza, morte ai tiranni, però si contraddicono. Fra loro ci sono i re: Maria Carolina, la sorella Maria Antonietta, il principe Giuseppe. Odiano i preti, ma accettano padre Caracciolo. Detestano i Gesuiti e ne son pieni. (...). La Massoneria potrebbe aiutarti ad avere successo (...), ma c’è troppa gente che non mi piace. [E. Striano]

 

Alla voce recitante si contrappuntano i brani di Girolamo De Simone “Bidly”, “Gi-Random”, “Fil”.

 

Napoli è una città d’azzurro, una città fredda. I suo pallidi abitanti che vivono di grazia e di ragione sanno che essa è un ricordo e mostrano di crederci, trovandola persino vera qualche volta, vera, cioè rispondente all’immagine che se ne erano fatta. (...) Nevica sul nostro paese che tutti abbiamo creduto di vedere. E sempre, col cielo addosso, cerchiamo l’orizzonte. [A. Gatto]

.....

Resta l’utopia, la speranza che [questo] orizzonte esista, anche se lontano. Anche se poi quella speranza è subito nuovamente travolta. [A. Neiwiller]

.....

Atlantide viene a galla e appare in tutto il suo fascino di rotaie luccicanti e neon fosforescenti. I rottami e i rifiuti splendono ora della loro azzurra luce artificiale. [Valeria Saporito]

.....

Così (...) che rimane? Niente. Il resto di niente. Vacilla. Mastro Donato il boia la sorregge, poi la spinge, con delicatezza. Le tiene una mano per farla salire sopra lo scaletto. Prima di dare il calcio la guarda, con occhio serio, un po’ aggrondato. [E. Striano]

 

Attacca subito il pianoforte con la Suites di Alberto Savinio “Les chants de la mi-mort”. La voce recitante esce di scena. Alla fine dell’esecuzione, anche il pianista chiude il coperchio del pianoforte ed esce di scena.

 

*Questo lavoro, sul tema delle memorie inconciliate, è liberamente ispirato agli scritti e alle parole di Enzo Striano, Luciano Cilio, Antonio Neiwiller, Alfonso Gatto, Valeria Saporito, Ermanno Rea. Da quest’ultimo autore sono tratti i riferimenti a Francesca Spada, Renato Caccioppoli, Luigi Compagnone, Dino Greco. Ringrazio Giulio De Martino per avermi fatto conoscere la vicenda e gli scritti di Valeria Saporito.

Alcuni testi di riferimento:

LUCIANO CILIO, Catalogo/programma di “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negi anni ‘70”, Napoli 1981, Comune di Napoli / Estate  a Napoli.

ALFONSO GATTO, Napoli N.N., Salerno 1993, Edizioni Ripostes (a cura di F. D’Episcopo).

GIROLAMO DE SIMONE, “Le memorie inconciliate, i destini incompiuti di Cilio, Neiwiller, Ruccello”, apparso sul quotidiano partenopeo “La Città” del 12-5-1996.

GIULIO DE MARTINO, “Sopra la città ci sono alcuni uccelli. Valeria Saporito: note, visioni, interpretazioni (1976-1980)”, su “Crocevia” n. 2 Aprile-Giugno 1997, Napoli 1997, ESI.

ANTONIO NEIWILLER, La resistenza silenziosa degli uomini necessari, Napoli 1996, Istituto S. Orsola Benincasa (edizione fuori commercio pubblicata per accompagnare la mostra-evento tenuta presso l’Istituto Suor Orsola Benincasa).

ERMANNO REA, Mistero napoletano, Torino 1995, Einaudi.

VALERIA SAPORITO, note di sala ciclostilate per le Mostre del 1985-86 presso Spazio Libero e Sala Gemito.

ENZO STRIANO, Il resto di niente, Milano 1998, Loffredo - Rizzoli.