In gioco è l'identità dell'insegnante
(dal sito www.casadellacura.it)
Intervista
a Renata Viganò, direttrice della SSIS dell'Università
Cattolica di Milano
di Agnese Bertello
Fino
a pochi anni fa, l'unica cosa che si chiedeva all'insegnante era
di conoscere la materia; in nessun modo veniva indagata la sua capacità
di insegnare, di trasmettere il suo sapere, di comunicare e tessere
relazioni con studenti e colleghi. Questo ha fortemente compromesso
il senso della propria identità professionale. Oggi è
ancora così? Ne parliamo con Renata Viganò, direttrice
della Scuola di Specializzazione per insegnanti della Cattolica.
Lei
lavora con persone che vogliono diventare insegnanti, li forma per
la professione. Con quale spirito si avvicinano all'insegnamento?
Quali sono le loro aspettative? che consapevolezza hanno della realtà
della vita in classe?
Il
numero di posti disponibili è dato da una programmazione
ministeriale regionale. È sostanzialmente un numero chiuso
che rispecchia il fabbisogno dichiarato dal ministero. Lo scorso
anno avevamo 372 posti, quest'anno i nuovi iscritti saranno 420.
Tra loro, la percentuale di persone che ha già esperienze
di insegnamento è decisamente superiore a quella di chi non
ne ha alcuna. Direi che l'80% dei nostri studenti ha già
lavorato in una classe, quelli che non vi hanno mai messo piede
sono davvero pochi. Le aspettative sono abbastanza diversificate.
Direi che all'inizio si iscrivono soprattutto per motivazioni poco
nobili: la SSIS è oggi il canale obbligatorio per prendere
l'abilitazione. Se voglio fare l'insegnante so che devo passare
da qui e si sa che con l'abilitazione in mano prima o poi un incarico
salta fuori. Nel corso del biennio, però, c'è una
progressiva presa di coscienza di ciò che si sta facendo;
c'è la percezione di aver fatto un percorso in termini di
identità professionale che ha portato anche all'acquisizione
di competenze complesse, ma si ha anche una maggiore consapevolezza
di sé come risorsa all'interno della scuola. Nessun insegnante
prima aveva queste possibilità, questa formazione professionale
specifica.
Che
peso date agli aspetti pedagogici, al tirocinio, alla riflessione
sugli aspetti relazionali del lavoro?
C'è
una suddivisione molto chiara tra gli elementi, anche in questo
caso in base alla normativa e al decreto ministeriale che ha definito
la struttura della SSIS. Devono esserci insegnamenti di natura disciplinare,
aggiuntivo e complementare rispetto a quello che lo studente ha
acquisito durante il corso di laurea; aspetti pedagogici, metodologici,
didattici; aspetti di psicologia e di sociologia dell'istituzione
scolastica; attività di laboratorio connesse ad entrambe
le aree, la rilettura della pratica dell'insegnamento della disciplina
e gestione della relazione educativa; poi il tirocinio. Grossomodo
sul monte ore totale (1000 ore circa nel corso del biennio), direi
un 25% per ogni area, con una leggera prevalenza del tirocinio.
Il
tirocinio è da molti indicato come una valida soluzione,
ammesso che sia realizzato adeguatamente...
Così
come è inteso da noi, il tirocinio diventa un progetto formativo
vero. Gli studenti sono monitorati dai supervisori, insegnanti di
ruolo che dopo aver superato un concorso sono distaccati presso
la SSIS con il compito proprio di seguire il percorso dei tirocinanti.
Il tirocinio non è solo partecipazione all'attività
di classe, ma all'attività scolastica complessivamente intesa,
implica una partecipazione a tutti i momenti della vita della scuola,
implica stretti rapporti con i colleghi, implica un lavoro di preparazione
delle attività. Non si mette il tirocinante della SSIS in
classe il primo giorno. Prima c'è una sorta di tirocinio
indiretto in cui si costruisce e si prepara il tirocinio, si danno
gli strumenti. Come dicevo il tirocinio è un progetto, parte
integrante anche dell'esame di stato finale e ciò che ci
preme fin dall'inizio è identificare un obiettivo nel tirocinio.
Il
sociologo Alessandro Cavalli, sostiene la necessità di fare
una selezione all'inizio della carriera; la sua idea è che
non tutti possono fare gli insegnanti, non tutti hanno il temperamento
giusto, le caratteristiche psicologiche necessarie (idealisti, sognatori,
troppo emotivi), le competenze relazionali
La SSIS è
anche un canale di selezione? Ci sono studenti che non hanno superato
l'esame di stato finale?
Pochissimi.
Stiamo concludendo il secondo ciclo come esame finale, penso che
si tratti al massimo di tre quattro persone. Un numero del tutto
fisiologico. Abbiamo cercato di capire il perché: il mancato
superamento non è dovuto al problema in sé dell'esame
finale, ma fin dall'inizio il percorso di questi studenti era stato
problematico. Quindi, sì, in qualche modo, la SSIS è
stata un meccanismo di selezione. La selezione si fa anche all'inizio,
con l'esame d'ammissione, ma difficilmente in questo caso si indaga
sulla motivazione motivazione, l'attitudine; quello che si vuole
attestare sono le competenze disciplinari. La selezione vera avviene
nel corso del biennio. Il tirocinio serve molto in questo senso
per costruirsi un'idea più realistica e più efficace
di che cosa vuol dire insegnare. Chi non è adatto per temperamento
a svolgere una funzione del genere, col tirocinio vede messe a nudo
le sue difficoltà.
Fare l'insegnante non può essere considerata una delle tante
scelte professionali possibili; se l'ingresso diventa più
difficile, la scelta deve essere più determinata, non è
più una scelta di ripiego.
Norberto
Bottani è convinto che ci sia un legame diretto tra l'eccesso
di insegnanti e il loro disagio psichico? Concorda?
Condivido
questo tipo di lettura. I dati della ricerca sul burnout sono riferiti
ad una popolazione insegnante che non è mai stata selezionata,
accompagnato, scortato
aiutato nell'affrontare problematiche
molto difficili, che poi possono portare a sviluppare una sindrome
come quella del burnout. Fino a pochi anni fa gli insegnanti facevano
gli insegnanti perché erano persone preparate sul piano disciplinare,
ma questo non significava necessariamente che fossero pronti ad
affrontare aspetti peculiari del proprio mestiere. Davanti a dati
come quelli dello Studio Getsemani, dati che non voglio definire
allarmanti perché è un termine che non mi piace, ma
che comunque richiedono una riflessione, non possiamo pensare semplicemente
di risolvere la situazione inserendo lo psicologo a scuola o facendo
corsi di aggiornamento: sono iniziative necessarie, ma funzionali
solo se si parte da una rilettura complessiva, prendendo il problema
dall'origine. La sindrome del burnout secondo me fa saltar fuori
proprio il problema di una mancata costruzione dell'identità
professionale. Il problema è poi legato anche dalla trasformazioni
sociali e culturali che hanno coinvolto la professione dell'insegnante.
Il ruolo non è più uguale a quello di 50 anni fa.
Quasi
tutti, insegnanti e sociologi, sono concordi nell'affermare che
la scuola è un'istituzione autoreferenziale, chiusa su se
stessa e che questo sia oltremodo nocivo. Che cosa ne pensa?
Ne
sono convintissima. La scuola è uno strumento della società.
La società ne ha la responsabilità. Una responsabilità
educativa che deve essere condivisa. Quella dell'educazione è
una responsabilità che il mondo adulto assume nei confronti
delle nuove generazioni e nel momento in cui alcuni aspetti vengono
affidati a un'istituzione in particolare, non si tratta mai di delega,
altrimenti torniamo alla scuola-parcheggio. Il disagio degli insegnanti
riflette un disagio più complessivo di una società
che è molto dimissionaria rispetto alla sua responsabilità
educativa.
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