La
dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del dominio
patriarcale. Il patriarcato fascista teneva per fermo che uomini e donne fossero
per natura diversi. Esso politicizzò pertanto tale differenza a vantaggio dei
maschi e la sviluppò in un sistema particolarmente repressivo, completo e
nuovo, inteso a definire i diritti delle donne come cittadine e a controllarne
la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale. La concezione
antifemminista fu parte del credo fascista al pari del suo violento
antiliberalismo, razzismo e militarismo. Alla
vigilia della Grande Guerra attorno alla questione demografica si andava
affermando una nuova politica biologica ,basata su una concezione della vita
come lotta mortale per l’esistenza del Darwinismo sociale, la quale si
proponeva di elaborare programmi che proteggessero, accrescessero e
perfezionassero gli esemplari della razza umana e relativi al benessere sociale
secondo i fini della politica statale. Nella misura in cui la diversità etnica
e l’ emancipazione della donna furono identificate come ostacoli, la politica
biologica venne agevolmente permeata dall’ antifemminismo e dall’
antisemitismo. Nell’ Italia fascista il regime affrontò il duplice problema
dell‘emancipazione femminile e della politica demografica e la dittatura
giustificò le proprie battaglie demografichein chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti
delle donne conseguenze immediate.Lo
Stato si proclamava l’ unico arbitro della salute pubblica e in linea di
principio esse non avevano alcun potere decisionale riguardo alla procreazione
dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile fossero
antagoniste dello Stato: prendessero personalmente o meno la decisione di
limitare le dimensioni della famiglia, la responsabilità di avere in tal modo
interferito con gli interessi di quest’ ultimo veniva attribuita soltanto a
loro. Il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l’ aborto, la
vendita di contraccettivi e l’ educazione sessuale. Allo stesso tempo favorì
gli uomini a spese delle donne all’ interno della struttura familiare, del
mercato del lavorodel sistema
politico e della società in generale.
LE
ORIGINI E LE CARATTERISTICHE DELLA POLITICA SESSUALE FASCISTA
Il
fascismo italiano fu un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i
potenziali alleati e il mutevole terreno politico del primo dopoguerra.
Nel
1919 questo movimento appenanato
aveva abbracciato le posizioni degli intellettuali futuristi, pronti a
sbeffeggiare la morale convenzionale sostenendo il divorzio e la soppressione
della famiglia borghese. Nello stesso anno parlò in favore del suffragio
femminile, ma tali posizioni vennero presto abbandonate di fronte al movimento
dei reduci e all’ avversione mostrata nel suo interno nei confronti del lavoro
femminile dai gruppi sindacali, nonché al rigido antifemminismo
cattolico-rurale degli agrari che nel 1920-21 appoggiarono gli assalti
squadristici compiuti dalle camice nere contro le leghe e le cooperative
socialiste. Dopo il Concordato con il Vaticano del 1929, istituzioni, personale
e tradizioni della Chiesa cattolicasi
dedicarono al rafforzamento dell’ antifemminismo fascista .Il fatto che la
dittatura mussoliniana potesse elaborare una politica vera e propria verso le
donne in una società sviluppata in modo così poco uniforme fu certamente
dovuto a questo eclettismo dottrinale. Lo stesso Mussolini si appropriò di un
luogo comune quando raccomandò ai suoi seguaci di non “discutere se la donna
sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa” - e il ragionamento
poteva giustificare qualsiasi posizione nei confronti delle donne. Alla fine,
tuttavia, furono le stesse azioni compiute dal regime fascista per consolidarsi
al potere a determinare nella società italiana tra le due guerre lo schema
globale di comportamento nei loro confronti. Per realizzare la sua politica
demografica, il fascismo tentò di imporre un maggior controllo sul corpo
femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Cercò allo stesso
tempo di preservare le vecchie concezioni patriarcali della famiglia e dell’
autorità paterna. Pretese che le donne agissero da consumatrici avvedute, da
amministratrici domestiche efficienti e da astute fruitrici del sistema di
assistenza sociale - se volevano strappare a quest’ ultimo i servizi di cui
era particolarmente avaro - e inoltre che lavorassero spesso nell’ economia
nera per arrotondare le entrate familiari. Allo scopo di limitare
l’impiego della manodopera femminile sottopagata in presenza di un’ elevata
disoccupazione maschile, e mantenere tuttavia una riserva di lavoratori a basso
prezzo per l’ industria , il regime escogitò un elaborato sistema di tutele e
divieti teso a regolare il lavoro delle donne. Infine, per rendere queste ultime
disponibili alle pretese sempre più complesse rivolte nei loro confronti e
approfittando contemporaneamente del loro desiderio di identificarsi con la
comunità nazionale e di servirla, il regime giocò la carta della modernità
pur sempre denunciando i suoi risvolti femministi. Entro gli anni ’30 esso
aveva sviluppato organizzazioni di massa che rispondevano al desiderio di
impegno sociale da parte delle donne ma scoraggiavano la solidarietà femminile,
i valori individualistici e il senso di autonomia promossi da gruppi di
emancipazione dell’ era liberale. L’attacco
condotto dal regime contro la libertà di riproduzione è uno degli aspetti più
importanti della politica sessuale fascista. Mussolini pose gli interventi in
“difesa della razza “ al centro degli obbiettivi nazionali; lo scopo che il
duce si proponeva era di raggiungere entro la metà del secolo una popolazione
di 60 milioni in una nazione che ne contava all’ epoca 40. Per giustificare
questa ambizione faceva riferimento a 2 argomenti dichiarati ed a uno
sottointeso. Il primo argomento era di tipo mercantilistico, ponendo l’
accento sulla necessità di avere a disposizione semplici masse di persone come
manodopera a basso prezzo. L’ altro era invece più tipico di una nazione
impegnata ad espandersi imperialisticamente: il calo registrato nella crescita
della popolazione e acceleratosi negli anni ’20, frustrava le ambizioni
espansionistiche dei suoi capi.Il
terzo motivo, mai esplicitamente dichiarato, era di ristabilire le differenze
tra uomo e donna che erano state sconvolte durante la guerra. Nella sua ricerca
di nascite, la dittatura oscillava tra riforme e repressione, tra l’
incoraggiamento dell’ iniziativa individualee l’offerta di concreti incentivi statali. L’ ONMI ossia l’Opera
Nazionale Maternità ed Infanzia, rappresenta meglio di qualsiasi altra
iniziativa questo lato riformista: istituito con l’ entusiasmo di cattolici,
di nazionalisti e di liberali, esso si occupava principalmente delle donne e dei
fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari. Altre riforme
riguardano le esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a
carico, i congedi e le previdenze statali incaso di maternità, prestiti concessi in caso di nascite e matrimoni,
nonché gli assegni familiari assegnati ai lavoratori stipendiati o salariati.
Le misure repressive compresero invece il fatto di trattare l’ aborto come un
crimine contro lo Stato, la messa al bando del controllo delle nascite, la
censura sull’ educazione sessuale e una speciale imposta sui celibi.La
politica demografica fascista sviluppò una doppia faccia. Da una parte fu
energicamente normativa. Gli esperti consideravano le donne mal preparate alla
maternità e soggette s generare prole ”anormale”. Per correggere questi
vizi lo Stato fascista ambiva a modernizzare il parto e la cura dei figli. D’
altra parte la politica in difesa della razza fascista giustificava una politica
di non intervento almeno riguardo ai cittadini più poveri. Le conseguenze di
questa politica bifronte furono gravi. Le donne italiane, soprattutto quelle
appartenenti alla classe operaia urbana, volevano avere meno figli praticando
una pianificazione famigliare basata principalmente sull’ aborto. Dal momento
che gli aborti erano tutti clandestini le donne correvano levati rischi di
infezione invalidanti, di danni fisici permanentidi morte.
LA
POLITICA DEL LAVORO
Il
fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano
della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione
e del governo della casa. Anche i dirigenti fascisti erano però
sufficientemente realistici da riconoscere che le donne lavoravano; secondo i
dati forniti dal censimento del 1936 il 27% dell’ intera forza lavoro era
costituito da donne, e circa il 25% delle donne in età da lavoro possedeva
un’ occupazione. La caratterizzazione sessuale favorì la femminilizzazione
dei lavori impiegatizie in conseguenza della legge Sacchi del 1919 le donne
vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali, tranne
alcune eccezioni fra cui le principali riguardavano le forze armate e la
carriera giudiziaria e diplomatica. Alla fine, il fascismo sviluppò la
legislazione per impedire alla donne di competere con gli uomini sul mercato del
lavoro e per tutelare le madri lavoratrici. Ma lo scopo era anche di impedire
che le donne considerassero il lavoro retribuito il trampolino di lancio per
l’ emancipazione. Mentre il lavoro era indispensabile alla costruzione di una
solida identità maschile, come dichiarò Mussolini, “il lavoro distrae dalla
generazione, fomenta un’ indipendenza e conseguenti mode fisiche - morali
contrarie al parto”. Alla metà degli anni ’30 esistevano svariate misure
discriminatorie. La legge fascista sul lavoro, vietando gli scioperi e
centralizzando le trattative sindacali, danneggiò gli interessi dei lavoratori
in generale. Ma colpì in modo particolare le lavoratrici abbassando i salari
maschili a livelli competitivi con quelli delle donne e dei ragazzi e favorendo
infine i lavoratori più avvantaggiati, vale a dire quelli specializzati, quelli
con maggiore anzianità e quelli impiegati in settori di importanza politica la
maggior parte dei quali erano uomini. Una seconda forma di discriminazione era
costituita dalle significative innovazioni introdotte dalla dittatura nel campo
della legislazione protettiva. Nel 1938, le lavoratrici avevano
obbligatoriamente diritto di un congedo di maternità della durata di due mesi
coperti da sussidio di maternità pari alla paga media percepita nello stesso
arco di tempo, a un congedo non retribuito lungo fino a sette mesi, e a due
pause giornaliere per l’ allattamento finche il bambino non avesse compiuto un
anno. Questi provvedimenti combaciavano con il più efficace tipo di misure
discriminatorie vale a dire le leggi di esclusione vere e proprie. Il
provvedimento più drastico fu il decreto legge del 5 settembre 1938che fissò
un limite del 10% all’ impiego di personale femminile negli uffici pubblici e
privati. La politica fascista nei confrontidel lavoro femminile mostrò quindi una serie di paradossi. Il regime
cercò di saziare la fame industriale di manodopera a basso prezzo, la quale
avrebbe potuto essere soddisfatta tanto alle donne che agli uomini. Intendeva
però assicurare il mercato del lavoro ai capi famiglia maschi, per non
rischiare di intaccare l’ amor proprio che si trovavano disoccupati e per non
incidere sulla sanità della razza e la crescita demografica. I legislatori
fascisti affermavano di voler escludere dal lavoro le donne. Ma sapendo che ciò
non sarebbe accaduto, si misero a proteggere le lavoratrici nell’ interesse
della stirpe. Contando sui vecchi pregiudizi sessuali del mercato del lavoro la
dittatura emanò norme protettive, diffuse atteggiamenti discriminatori e
promulgò leggi di esclusione. Il primo effetto fu di riservare agli uomini i
posti di alto prestigio e sempre meglio retribuiti all’ interno della
burocrazia statale, frenando la tendenza verso la femminilizzazione dei lavori
d’ ufficio almeno nelle amministrazioni centrali dello stato. Incapaci di
difendere il proprio diritto al lavoro sulla base della parità sessuale, le
lavoratrici ridimensionarono aspirazioni e rivendicazioni. Per giustificare il
bisogno di lavorare addussero a pretesto la “necessità famigliare”, o il
fatto che si trattava solo di un ripiego temporaneo, oppure che i posti da loro
occupati erano troppo umili o troppo segnatamente femminili per essere adatti
agli uomini. Le professioniste stesse, che una volta avevano fatto causa comune
con le donne della classe operaia e adesso erano organizzate in istituzioni
fasciste del tutto separate legittimarono questi atteggiamenti. Esse difendevano
il diritto femminile di accedere alle carriere purché non contrastasse con i
doveri familiari, e sostenevano la formazione professionale delle donne nei
ruoli di assistente sociale, di infermiera e di insegnante, tutte occupazioni
che oltre ad addirsi in modo particolare alle qualità femminili davano maggiore
assicurazione di promuovere il progresso nazionale. La
mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’ inizio degli anni ’30.
Il primo appello per aumentare l’ iscrizione ai fasci femminili fu lanciato
all’ inizio della depressione; le volontarie appartenenti alle classi
superiori dovevano “andare verso il popolo” prestando la propria opera nelle
cucine popolari e negli uffici dell’ assistenza sociale, per nutrire o
assistere i poveri. Il successivo appello fu rivolto alle “donne d’Italia”
al tempo della guerra d’ Etiopia, allo scopo di rendere ogni famigli
resistente contro le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni. Il terzo
appello tentò di trasformare “l’ amore di patria” delle donne in una più
penetrante e attiva “sensibilità nazionale”; ciò avrebbe dovuto prepararle
alla guerra totale e far crollare ogni distinzione tra dovere privato e servizio
pubblico, tra abnegazione personale, interessi della famiglia e sacrificio
sociale. Alla fine il sistema fascista di organizzazione delle donne fu messo
alle strette da un paradosso. Il compito delle donne era la maternità. Come
“custodi del focolare” la loro vocazione primaria era quella di procreare,
allevare i figli e amministrare le funzioni familiari nell’ interesse dello
Stato. Ma per poter eseguire questi doveri occorreva che fossero coscienti delle
aspettative della società. Se non fossero state tratte fuori dell’ambito
familiare dai nuovi impegni, sarebbero state incapaci di congiungere gli
interessi singoli a quelli della collettività. In linea di massima, durante il
fascismo la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò all’
emancipazione ma a nuovi doveri nei confronti dello Stato, non all’ autonomia
ma ad obbedire a nuovi padroni. Il fascismo decise fin da principio di trattare
le donne come un’ entità unica legando il loro comune destino biologico di
“madri della razza” alle ambizioni dello Stato nazionale. Le leggi, i
servizi sociali e la propaganda affermavano la suprema importanza della maternità;
tuttavia la povertà, il magro sistema di assistenza sociale e infine la guerra
resero l’ essere madre un’ impresa assai ardua.
Il
patriarcato fascista fu quindi il prodotto di un’ epoca in cui la politica
demografica si identificava strettamente con la potenza nazionale. Attraverso il
mercato del lavoro e le gerarchie d’ autorità all’ interno dell’ unità
familiare, esso scaricò il maggior peso possibile sulle donne.
LO
SPORT
Alla
fine del 1928 sono molti gli iscritti ad associazioni sportive e le regioni
italiane con il più alto numero di partecipanti sono la Lombardia (3950) e il
Piemonte (3116). Nell'Italia centro-meridionale le donne che facevano parte di
associazioni sportive erano in netta minoranza rispetto a quelle del
settentrione; infatti molti giornali settentrionali affermavano che la donna
poteva svolgere il servizio militare, tanto era brava al poligono di tiro.
Nel 1930 il Gran Consiglio del Fascismo dichiarò che anche se la donna si fosse
dimostrata abile nello sport non doveva distogliersi dal suo ruolo più
importante: essere una buona madre.
Finalmente, dopo lunghi sforzi e dibattiti, a Firenze si svolsero le Olimpiadi
della Grazia, ovvero le Olimpiadi femminili alle quali parteciparono undici
nazioni europee. Le atlete italiane, al confronto con quelle tedesche ed
inglesi, risultarono più preparate; infatti nel 1936 l'italiana Ondina Valla
conquistò la medaglia d'oro nel salto ad ostacoli durante le Olimpiadi di
Berlino.
Nel 1937 la partecipazione delle donne ad attività sportive registrò circa
5000 partecipanti: 800 atlete si dedicavano alla pallacanestro, 3000
all'atletica leggera, 84 al nuoto, 70 allo scherma, 300 a sport invernali, 900
circa ad altri sport. Fra le 29 atlete di sei specialità (atletica, nuoto, sci,
scherma, pattinaggio e tennis) decorate nel 1936 da Mussolini al "valore
atletico", una soltanto è romana: lo sport con buoni livelli agonistici
continua a praticarsi da Firenze in su.
LA DONNA E LA CULTURA
Le
donne in epoca fascista erano escluse dalla politica e si rifugiavano nelle
attività culturali. Proprio la mancanza di potere politico conferiva a loro un
particolare ascendente nei confronti di un pubblico di lettrici in grande
espansione nel periodo interbellico.
Sotto la dittatura le donne scrittrici e critiche poterono sperimentare la loro
fama attraverso libri, riviste prettamente femminili e attraverso documentate
colonne dedicate a loro dall' "Almanacco della donna italiana".
Gli argomenti trattati esprimevano le esigenze del pubblico ed erano legate all'
osservazione della vita quotidiana, parlavano d'amore, maternità, classe
sociale e razza.
Alla fine degli anni Venti i romanzi avevano per lo più come protagoniste
eroine tristi: donne innamorate, abbandonate da uomini volgari, aspiranti
artiste costrette a scegliere tra carriera e famiglia. Le donne intristite e
moraliste erano lacerate dal dilemma tra passione e dovere.
LA
MODA
Al
Fascismo si deve anche il lancio della moda italiana. Il regime ebbe sempre
verso la moda un rapporto ambiguo: ritenendola un fenomeno frivolo, la
incoraggiava soltanto per fini economici, relegandola all' ambito femminile. La
moda tuttavia fu un ingrediente fondamentale di quella tipologia piccolo
borghese che si riconobbe nel Fascismo: all' eleganza non si voleva e non
si doveva rinunciare e la "signora" piccolo borghese misurava il
proprio benessere contando il numero dei cappellini conservati nella
cappelliera. L'esibizione del cappellino era il più evidente segno di
demarcazione tra le signore piccolo borghesi e le donne dei ceti inferiori che
andavano a testa nuda oppure raccoglievano i capelli nel fazzoletto, come in
campagna.Victoria
de Grazia ha analizzato la coesistenza nell'Italia degli anni Trenta di due
modelli estetici femminili, quello della donna "crisi" e quello della
donna "autentica". Il primo, rappresentava la donna emancipata,
amante del lavoro e delle mode straniere. Il secondo tipo, la donna autentica,
il risultato dell'educazione fisica e morale fascista. Pensando all'italiana
autentica, Mussolini nel 1932 dichiara "le donne sono molto più belle di
prima".
L'
Abbigliamento
Le
donne, durante il pomeriggio indossavano dei vestiti colorati generalmente
marroni, rossi o neri che contrastavano col bianco del picchè dei sottoabiti ai
quali veniva applicato un nastro della stessa tinta dell' abito. I vestiti in tessuto stampato
erano plissettati e arricciati; le camicette erano arricchite di merletti e di
ricami e venivano abbinate ad ampie gonne di taffettà. Di gran moda erano
inoltre le bretelle che stavano molto bene indossate sulle camicette ricamate e
contribuivano a dare alla donna un aspetto giovanile. I vestiti da sera erano molto
eleganti in taffettà, in seta lucida, in merletto con dei bordi di organdì
cuciti all' orlo della gonna per accentuarne l' ampiezza... I cappelli erano decisamente
appariscenti, ornati di fiori, di nastri e di lunghe velette
annodate sotto il mento o svolazzanti sulle spalle.Le mantelline corte sino alla
vita, in tessuto fantasia, si indossavano su un completo in tinta unita. I
bottoni e le fibbie delle cinture erano decisamente originali per la loro forma
imitavano ogni sorta di cose e di oggetti, dai fiori agli animali, dalle
conchiglie agli strumenti da falegname e costituivano una rifinitura di grande
importanza. Assumevano gli aspetti più orrendi e svariati,dal cane pechinese a
quello della capanna del boscaiolo! I guanti erano di rigore con tutto il
candore della biancheria, le sciarpe a fiori , a pallini a disegni
vivaci, donavano l'indispensabile nota di colore ai vestitini bianchi neri, o in
tinta unita.