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OPERE DI ROMANO GUARDINI

EDIZIONE ITALIANA A CURA DEL « CENTRO DI STUDI FILOSOFICI DI GALLARATE »

ROMANO GUARDINI

ANSIA PER L'UOMO

II

MORCELLIANA

Titolo originale dell'opera:

Sorge iim den Menschen - Band II © Werkbund Verlag - Wurzburg 1966 Traduzione dal tedesco di Albino Babolin

© by Morcelliana, Brescia, 1969 Tipografia « La Nuova Cartografica » - Brescia 1969

I

ALLA RICERCA DELLA PACE 1

II compito di ritrovare la pace dopo una catastrofica guerra è tanto più difficile quanto più la guerra è stata enorme e quanto più a fondo essa ha inciso nella nostra vita. Un sentimento inquietante ci dice tuttavia che noi non verremo a capo della realtà solo con la dichiarazione che il compito è oggi più difficile che mai, perché quest'ultima guerra è stata più spaventosa d'ogni altra nel passato. Sono invece, a quanto pare, emerse in luce circostanze non controllabili per mezzo di ciò che finora si definiva un patto di pace.

Ora ogni evento storico 'è unico, anche a prescindere dal fatto che le cose che ci toccano personalmente ci appaiono sempre particolarmente importanti. Questo ci rende apriori propensi a pensare che quanto ora accade non abbia esempi. Dobbiamo dunque accertare se l'ipotesi sopra espressa importa qualcosa •di più della semplice manifestazione della forza di un'esperienza personale. A questo scopo vogliamo aggiungere una seconda ipotesi: la guerra si è rivelata come qualcosa di mai prima avvenuto, o almeno come qualcosa che non è ancora emerso alla coscienza nel suo vero e proprio carattere.

Io non so se ci si è mai domandati che cosa signi-7

fichi la guerra nella vita dell'uomo e come il significato della guerra si sia mutato nel corso della storia. Supererebbe naturalmente il possibile volerlo fare qui;, ma per amore del nostro problema, dobbiamo egualmente almeno cercare di acquisirne brevemente notizia.

Prescindiamo dagli stadi primitivi dell'umanità, nei quali la guerra appare quasi come un elemento costitutivo dell'esistenza normale, un elemento che, sostenuto da tensioni biologiche e psicologiche, ritorna con la regolarità di un ritmo vitale e reca un carattere di crudeltà e insieme di ingenuità nativa. Fissiamo la nostra osservazione subito su quell'epoca che noi consideriamo come prima sorgente della nostra civiltà, l'antichità classica.

Naturalmente in un fenomeno così vasto operano simultaneamente molti fattori. Anzitutto certi impulsi subito riconoscibili generatori di conflitti, come la spinta a una esplicazione delle energie, l'istinto della potenza, la brama di possesso. Si aggiungono a ciò, a seconda dei popoli e dei tempi, motivi di .indole particolare: per esempio la passione dell'uomo greco per la competizione con altri, cosicché la lotta diviene un elemento di tutta la sua esistenza;

oppure la coscienza dell'uomo romano di essere chiamato a organizzare la vita dei popoli in uno Stato universale costruito sul diritto. Ma dietro a questi motivi ne stanno altri ancora di natura religiosa. Secondo la concezione antica, ogni stirpe ha le sue proprie divinità. Esse le donano la vita e la potenza, e ricevono a sua volta da essa la vita e la potenza. Esse costituiscono il nucleo arcano della sua esistenza immediata; per così dire la sua reduplicazione nella sfera del divino. La concezione, è vero, si spiritua-

lizza con il tempo, ma contìnua ad essere operante. Secondo essa, sono in ultima analisi gli stessi dèi che nella guerra si combattono a vicenda. Anche Omero, il quale conferisce alla coscienza greca la sua prima configurazione, narra l'epopea di Troia come una lotta che attraverso gli uomini si fanno l'un l'altro gli dèi: Era, come garante del matrimonio e del focolare, e con i suoi dèi amici, contro Afrodite in quanto nume della passione, pure con i suoi dèi amici. Solo da questo punto di vista si può comprendere la guerra antica. Essa esplode quando gli dèi non riescono più a mantenere in armonia vicendevole le loro sfere di azione, espresso umanamente quando la vita non ha più via di uscita. Nel sangue che sgorga, nelle città che bruciano, si infrange la forma che si è indurita fino a farsi carcere; .gli dèi si riconciliano, e la vita ha di nuovo via libera. Non sgorga forse da questa radice quella profonda simpatia che nella poesia -di Omero congiunge, a dispetto della lotta mortale, Achei e Troiani? Pensiamo, per esempio, all'incontro fra Priamo e Achille, incontro ben diverso dalla « pura umanità » nel senso dell'Illuminismo; oppure al modo come Ulisse chiama « santa » la città, a distruggere la quale egli pure impegna tutte le sue energie.

Sorvoliamo sulle diverse forme della evoluzione e della decadenza dell'antica concezione della guerra e passiamo al Medioevo. Anche qui agisce la brama di potenza, di possesso e di gloria, come pure la muta logica della vita che, non avendo più via di uscita, cerca di liberarsi con la violenza. Ma il nucleo della sua concezione della guerra è un altro.

Con la Rivelazione si è reso manifesto quel Dio che opera bensì in ogni punto della realtà terrena, ma

in libertà pura, come creatore del mondo. Egli non è, come gli antichi dèi, in conflitto con altre divinità, giacché non esiste Dio fuori di Lui. Inoltre Egli non costituisce il centro numinoso della storia, ma è il signore della storia. Come tale introduce egli stesso una storia nuova in quella antica, terrena; l'ultimo significato della quale è l'avvento del suo Regno. Questa è la coscienza del Medioevo;

ed espressione di questa coscienza, ereditata da Agostino ma riplasmata a nuovo con sue proprie risorse, è l'idea del Sacrum Imperium. Esso significa la signoria che, attraverso gli ordinamenti terreni, Dio stesso esplica sul mondo, e rappresenta, a dispetto di ogni egoismo del singolo e dei gruppi, la norma a cui tutto deve rispondere. Con tali presupposti, la guerra si giustifica, nella severa concezione medioevale, unicamente al servizio del Sacrum Imperium. Verso l'esterno, contro le potenze non cristiane, affinchè ogni terra sia soggetta al vero Signore, cioè a Dio;, verso l'interno, contro potenze che minacciano l'ordine consacrato. La naturale e-nergia agonistica entra così al servizio del Signore divino e il processo della guerra diviene manifestazione della sua volontà, giudizio di Dio. Ma il retto spirito guerriero, quello cavalieresco, è quello che — pur ammesso ogni errore e contraffazione — si pone a disposizione della realizzazione di questo giudizio.

Questa concezione impallidisce a misura che il trascendente medioevale dello spirito e del cuore nell'eterno si attenua, l'atteggiamento spirituale si fa terrestre e il mondo con i suoi ordinamenti immanenti si rende autonomo. Ciò si verifica anche nella

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politica, e al suo servizio la guerra acquista un nuovo carattere: si fa realistica.

Anche qui la nostra indagine troverebbe tutta una serie di forme intermedie su cui noi non possiamo indugiare. In ogni caso nelle guerre dell'età moderna si tratta sempre più di finalità puramente politiche, le quali vengono perseguite attraverso una sempre più irriguardosa applicazione dei più efficaci mezzi militari. In confronto a questa nuova guerra la guerra medioevale appare fantastica, e il soggetto deìVethos del combattimento medioevale, il cavaliere, si trasforma in una tragicomica figura:

Don Chisciotte. Tuttavia anche il realismo della guerra moderna ha un sottofondo metafisico: la volontà titanica, che si emancipa da Dio e si arroga l'assoluta signorìa sull'esistenza.

Questa guerra assume via via una caratteristica sempre più acutamente rilevata. Soprattutto confluisce in essa tutto ciò che va sotto il nome di tecnica: il dominio scientificamente fondato delle energie naturali e dell'uomo. Così essa acquista quel carattere che è proprio del pensiero ispirato alle scienze naturali e dell'attività tecnica: il rapporto con la necessità. La libertà perde il proprio spazio. L'individuo cessa di essere combattente nel senso antico e diviene funzionario addetto alla macchina. Si impone la logica dei rapporti tecnici, economici e sociologici. La guerra stessa appare sempre più come un processo che emerge da tensioni date e che, una volta avviato, non può più essere fermato finché non si sia concluso. Ciò non vuoi dire che tale proli

cesso sia anche realmente così. Se gli eventi passati dovevano di necessità generare una conoscenza, di certo essa è questa: la formula « Doveva succedere così » è menzogna e viltà. In realtà è successo così, perché lo si è voluto o non lo si è impedito. Tuttavia il processo ha a tal punto il carattere di un divenire autonomo che ne nasce una tentazione infinita di sottrarsi alla responsabilità con il pretesto della necessità.

Da tutto ciò deriva una ulteriore caratteristica: la anonimità. Nelle guerre di prima era sempre possibile dire: il tale l'ha dichiarata, il tal altro ha eseguito l'azione di cui si tratta. Tale individuazione poteva essere difficile in casi singoli; ma gli eventi erano configurati in modo da esigere d'essere ricondotti a persone particolari. Nella guerra moderna avviene il contrario. È vero che ci sono sempre uomini a prendere la risoluzione; ma la struttura degli avvenimenti è tale che sembra si debbano ricondurre non a persone ma a necessità. Tutto ciò si collega senza dubbio con il carattere della responsabilità. L'uomo di azione politica delle epoche anteriori sapeva di stare davanti a Dio e di dovergli rendere conto; l'età moderna invece deriva dal popolo l'incarico politico. Ora, la forma storica del popolo è lo Stato; e lo Stato assume sempre più il carattere di un apparato di cui il singolo è il funzionario. Ora la responsabilità può essere solo personale, e in ultima analisi dell'uomo verso Dio;

così essa si attenua sempre più, e insorge il sentimento che una inafferrabile realtà astratta, « lo Stato », funzioni attraverso i singoli '.

1 Ciò sembra sia contraddetto dal fenomeno del dittatore che 12

Infine una terza considerazione. Il mondo dei valori etici si impoverisce sempre più. Anche prima la guerra era uccidere e distruggere, e tutti gli istinti selvaggi dell'uomo avevano via libera; tuttavia l'atteggiamento complessivo presentava un carattere immediatamente morale, perché aveva per base in ultima analisi l'idea della signoria di Dio e, unitamente a ciò, l'esigenza di combattere in modo che il giudizio di Dio potesse compiersi. Nasceva da ciò Yethos cavalieresco, ricco dei valori del rispetto, della magnanimità e della bella originalità. Invece la guerra moderna vuole semplicemente arrivare ai suoi scopi; e in tal modo essa vede nei valori presenti nella persona umana e nella sua relazione a Dio degli ostacoli, e il suo ethos si trasforma nell'esigenza di raggiungere lo scopo dell'azione al di là di ogni riguardo. In questo modo la guerra assume il carattere dell'annientamento. Ciò che prima era il risultato dell'estrema passione agonistica, viene voluto d'ora in poi razionalmente ed eseguito con tutti i mezzi.

Le conseguenze non si manifestano ancora del tutto nell'età morlerna. La politica di quest'epoca è retta dal principio del principe assoluto o da quello della nazione;, ma entrambi conservano forti elementi della tradizione. Il principe è sovrano per grazia di

ha largamente caratterizzata la nostra epoca. Ma soltanto se lo si confonde con il condottiero individualistico o con il regnante assoluto di vecchio stile. In realtà l'odierno dittatore significa del tutto altra cosa. Il dittatore del nostro tempo è, con tutta la sua iniziativa quanto ai particolari, il polo opposto alla massa e insieme il suo esponente, mentre costruisce insieme con essa l'impersonale sistema di funzioni dello Stato moderno. " ,

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Dio, ma anche legato alla responsabilità. Il popolo è plasmato dal costume e dalle professioni, e obbligato mediante le consuetudini. Con tutto ciò, il comportamento politico assume un carattere di transizione. Del tutto chiari emergono i fenomeni solo nella misura in cui si forma la massa. Dal popolo articolato si passa ora a una molteplicità di atomi umani; dallo Stato a un congegno in cui questa massa di atomi giunge all'azione. Ora le tendenze sopra esposte possono esplicare tutta la loro efficacia: nasce lo Stato totalitario post-mo-derno e con esso la guerra post-moderna, quella con cui abbiamo da fare noi oggi. In essa si palesa qualcosa che si è annunciato già nella prima guerra mondiale: la guerra assoluta.

Il termine sembra dapprima significare lo stesso che « guerra totale », cioè che un popolo entra in lotta non soltanto con l'esercito quale suo organo militare, ma con tutto ciò che esso ha ed è. Il concetto della guerra assoluta intende però di più, intende anzi qualcosa di essenzialmente diverso.

Caratteristica del nostro tempo è la paura che l'uomo d'oggi incomincia a sentire delle conseguenze del suo conoscere e agire. Il secolo XIX non conosceva ancora questa paura. Come tutta l'età moderna, quel secolo considerava ogni aumento in sapere e potere come una potenza, e ogni accrescimento di potenza senz'altro come un progresso. Nella prima guerra mondiale iniziò il dubbio, nella seconda si impose l'evidenza. Negli ultimi decenni si è rotta una diga per la scienza e la tecnica. Ancora alla svolta del se-

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colo, si sarebbe detto che stavano aperte le vie verso le vette dell'umanesimo; noi oggi sentiamo che ormai entra in stadio critico qualcosa che appartiene al problema più centrale dell'uomo, cioè la sua potenza.

Si potrebbe affrontare filosoficamente il problema, e la ricerca avrebbe qualche risultato importante; ma alla fine si fallirebbe lo scopo come per ogni problema essenziale dell'esistenza umana, giacché l'uomo non è risolvibile filosoficamente. L'ultima risposta viene, come Pascal non si stanca mai di asserire, dalla Rivelazione. Per risparmiare tempo incomincio subito da essa.

La Genesi dice che l'uomo è immagine di Dio: e definisce l'essenza di tale rapporto simbolico come. capacità di dominare il mondo (1, 26). L'uomo deve dunque avere potenza, ma come colui che egli è in realtà, cioè come creatura di Dio che sta davanti a Lui nell'obbedienza. Con il peccato originale egli ha infranto questo rapporto, e il problema dell'uomo ha fatto l'esperienza di quello smarrimento così insolubile per la ragione immediata, di cui Pascal parla con così profonda penetrazione1. Da allora l'uomo sta nell'essere in modo sbagliato, e tutte le interpreta-zioni naturalistico-ottimistiche della sua esistenza falliscono il nocciolo della questione. Da allora anche la potenza dell'uomo assume un carattere tragico:

da quando egli ha voluto la potenza contro Dio è come se, nella sua propria zona esistenziale, la sua potenza si facesse entità autonoma e si ritorcesse contro di lui. Fin qui la risposta teologica; cerchiamo ora di tra-

1 Pensées et Opocules, ed. Brunschvicg, Sect. IV-VII, tra gli altri soprattutto il grande frammento 434.

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durla sul piano filosofico. Una considerazione non pregiudiziale dell'uomo mostra che egli esiste diversamente dagli altri esseri viventi. E precisamente egli è rapportato a qualcosa che sta sopra di lui. Egli esiste sopra se stesso; da sopra se stesso. Tale relazione fondante l'essere dell'uomo è manifestamente sconvolta nella radice, e questo ha una immediata conseguenza per la nostra questione. La coscienza moderna parte dal presupposto che l'uomo sia un essere naturale, il quale — problematico quanto si voglia nei particolari — fondamentalmente è in ordine, in armonia con se stesso e con la totalità della natura. Perciò l'uomo può — sempre fondamentalmente e ammessi gli errori quanto ai particolari —-affidarsi ai suoi istinti. Ora un uomo così non esiste. Esiste così poco che può avvenire ciò che l'inter-pretazione moderna dell'esistenza non ammette mai come possibile: l'uomo può, anche in settori assai vasti della sua vita e anche per molto tempo, agire erroneamente. È possibile che la storia percorra una falsa strada. È possibile che una civiltà venga falsamente costruita. È possibile che quanto milioni di uomini fanno per centinaia di anni sia contraffatto.

Questa possibilità è rifiutata, come s'è detto, dal senso moderno dell'esistenza. Il pensiero borghese vuole potersi sentire sicuro, e il contenuto oggettivo di questa sua sicurezza si chiama « la natura », sia nel contesto delle cose, sia nella struttura dell'uomo1. Ma così esso si illude, e noi oggi lo sentiamo. Ad

1 II termine qui è assunto nel suo senso moderno specifico. Dunque non come la verità dell'essere determinata dal Creatore, ma come il « mondo » autonomo e autosussistente, a cui anche l'uomo appartiene con le sue qualità e tendenze, a quel modo che si manifestano nel corso della storia. Cfr. guardimi, Welt una Person, Wiiizburg 19625, p. 1 ss.

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ogni punto della vita noi sentiamo che noi non ci possiamo affidare a ciò che finora valeva in senso assoluto come base, e neppure — e così ritorniamo alla nostra questione — a riguardo del nostro rapporto con la potenza.

L'età moderna deduce da ciò che la teologia chiama peccato originale la conseguenza più netta: l'autonomia rispetto a Dio diventa fondamento della decisione esistenziale. Basta appena aprire una qualsiasi storia o filosofia della cultura per vedere quanto sia sicura la convinzione di poter fare in tal modo il passo verso l'autentico umanesimo; quanto decisamente venga valorizzato come progresso ogni distacco da Dio come dal signore personale della nostra esistenza. Ma nella misura in cui ciò si verifica, le energie dell'uomo entrano in una autonomia evidente quanto enigmatica che è contro di lui. Si sviluppa una scienza la quale avanza come un processo corrente di per se stesso sotto la coazione di una determinata problematica posta. In ogni punto il progresso sembra in ordine;, ma se il compito della scienza consiste nel cogliere la totalità di ciò che esiste come realmente è, allora la sua linea non corre giusta. Una deviazione appena percettibile nel particolare si afferma, e questa devia la dirczione fondamentale dalla sua essenza in una maniera addirittura terribile. L'uomo non è ciò che egli appare alla scienza e alla filosofia moderne. Una serie senza fine di particolarità e di rapporti in esse è giusta; ma l'insieme complessivo e la determinazione del suo significato sono apertamente falsi. E le cose non si risolvono quando si spiega storicamente che « l'immagine moderna dell'uomo » a differenza di quella medioevale o antica, è precisamente questa. No, non è « questa », non

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è una forma fenomenica relativamente giustificata accanto ad altre, ma essa è falsa, e noi dobbiamo avere il coraggio di vederlo e di ammetterlo. Nell'arte succede qualcosa di analogo; ed egualmente in politica e nella tecnica. È sempre l'uomo che la conosce, crea e domina; tuttavia mentre lo fa, è come se un conoscere avulso ed esente da un orientamento conoscesse, come se un creare creasse, un dominare dominasse, un costruire costruisse; e come se tuttavia colui di cui propriamente si tratta, l'uomo come persona vivente, divenisse sempre più debole e sempre meno capace di scongiurare la minaccia che sale dal carattere pervertito della sua opera autonoma.

Tutto ciò oggi lo si sente dappertutto più o meno chiaramente. L'età moderna credeva a una natura-cultura garantita da un ordine intrinseco, autoregolata da sicuri istinti; a dispetto d'ogni ottimismo della scienza e della tecnica, la nostra età non lo crede più. Ma essa non ha trovato ancora nulla di meglio, perciò si afferra a quanto ha di più massiccio: alla potenza. Perciò questo terribile spirito di violenza ovunque diffuso, tanto primitivo quanto immorale: esso nasce dalla disperazione circa l'ordine autonomo dell'esistenza a cui finora si è creduto e dalla incapacità di crearne un altro. Ed è quanto mai caratteristico come alla volontà di esplicazione della potenza da una parte corrisponda dall'altra una volontà di dedizione ad essa, di ob-bedienza incondizionata, di schiavitù. Dittatura e schiavitù formano i due poli dell'identico fenomeno. Esso emerge dall'esperienza della insicurezza dell'esistenza, un'esperienza che però si guarda bene dal vedere la vera radice della situazione e dal trar-ne le giuste conseguenze. È un ordine « disperato »,

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e noi conosciamo l'orrore che se ne sprigiona. Le energie dell'uomo sono in sé buone, diciamo più esattamente, sono reali e disponibili; ma si deve assumerne la responsabilità e devono essere guidate. Questo avviene per opera della persona e del suo carattere morale. Si ha però l'impressione che, quanto più la potenza dell'uomo cresce, si indebolisca la sua forza di carattere; che là dove, nel giudizio e nella coscienza responsabili, nella libertà e nella capacità ordinatrice, dovrebbe rendersi operante il centro personale, appaia uno spazio vuoto. E non può essere altrimenti, poiché la persona dell'uomo non è semplicemente quella realtà di fatto che si ritrova in ogni essere vivente evoluto, cioè la forma e l'iniziativa vitale dell'individuo ma essa consiste in una relazione dell'uomo a ciò eh'è a lui superiore. La persona è la realtà di fatto dell'essere interpellati-vo (Angerufensein) da Dio. Non nel senso di un Erie-bnis intcriore, ma di un rapporto ontologico che esiste, lo voglia l'uomo o no. Se egli rinnega questa sua condizione di interpellato, rinnega anche la sua personalità e perde la capacità di controllare ciò che egli è e può. Allora quella frattura di fondo di cui si parlava entra nel suo stadio critico:

la potenza dell'uomo si rivolge contro la vita dell'uomo.

In ciò precisamente consiste quel fenomeno che si rileva dall'evoluzione della strategia della guerra moderna: la guerra assoluta. Esteriormente essa appare come la lotta di un popolo contro un altro, di un gruppo di popoli contro un altro. Ma, essenzialmente, questi rivali rappresentano solo parti diverse in un dramma, il cui regista è dietro di essi. Questo regista è la potenza autonomizzata dell'uo-

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mo in quanto si volge contro la vita dell'uomo. Il suo partner reale non è un gruppo umano stori camente nominabile distinto da un altro, ma la persona umana in genere, in quanto ha responsabilità verso l'esistenza. Ma è come se questo partner della potenza, difensore del significato esistenziale dell'uomo, diventi sempre più debole; e così la potenza ha sempre più mano libera e si esplica sempre più chiaramente come distruzione. Ognuno dei due gruppi che si combattono nella guerra concreta cerca di nuocere all'altro per diventare più forte, più vitale. Ma ciò che in realtà si compie è — soprattutto se noi pensiamo alle possibilità future — semplicemente distruzione.

La realtà di fatto non cambia quando ciascuno dei due combattenti è esponente di idee. L'uomo ha sempre fondato la propria pretesa a una più grande potenza in una missione verso la totalità dell'essere. Che queste idee stesse non diventino forse strumenti della distruzione? Non per il fatto che esse sono false, in se stesse potrebbero essere giuste. La libera iniziativa dell'individuo è un bene grande, e da essa dipende una serie di importantissimi valori della nostra storia. Un bene grande è anche l'intuizione che si danno compiti i quali possono essere affrontati soltanto da un complesso in sé compatto di persone, e da essa dipendono valori, conquistare i quali è il compito dell'avvenire. Ma non appena queste idee vengono fatte servire alla giustificazione della guerra, vengono da questa trasformate in mezzi per i suoi scopi. Ciò può avvenire persino quando la stessa responsabilità dell'uomo verso l'esistenza divenisse incentivo della guerra; anche questa idea verrebbe dalla guerra, co-

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m'è oggi, inserita in quella terrificante dialettica di cui si parlava. Il fenomeno per cui ciò avviene ha appunto un nome che ci è anche troppo noto: si chiama « propaganda ». Quanto a sé, le idee sono l'espressione della dignità e della responsabilità dell'uomo; per mezzo della propaganda, esse diventano strumenti della distruzione.

A ben guardare, noteremo che la distruzione del-uomo per mezzo della sua stessa potenza non si attua soltanto nella guerra. Questa appare piuttosto la forma esplosiva di un processo che si verifica di continuo e in tutta l'ampiezza dell'incivilimento.

La forma tradizionale della riflessione sulla cultura propende a guardare unicamente ai risultati e a trascurare di fronte ad essi la realtà viva dell'uomo. Questi risultati sembrano invero giustificare anche il massimo ottimismo: la conoscenza cresce senza sosta; la possibilità di disporre del mondo diviene sempre più grande, le forme dell'uso della potenza si fanno .gigantesche. Ma che cosa avviene, in tutto ciò, dell'uomo? E non soltanto di una parte di lui, ad esempio, di quella che cerca sicurezza dai pericoli della natura, comodità, piacere e sensazione, ma del suo tutto vivente? Della libertà e della spontaneità, della nobiltà e della grandezza, del rapporto verso l'interiorità e l'altezza dell'esistenza? Questo uomo cresce? Non lo vediamo forse invece nel pericolo di diventare sempre meno libero, sempre più esposto direttamente o indirettamente all'inesorabilità del processo scientifico, tecnico, sociale? La falda vitale, da cui l'uomo vive, non si assottiglia forse sempre più? Il suo contatto con la grande realtà non diviene sempre più insicuro, ed

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egli perciò sempre meno capace di percepire avvertimenti, di afferrare indicazioni e di sentire che l'ora giusta per qualcosa è venuta? Le forze della contemplazione non diminuiscono sempre più, e la tranquillità intcriore, il raccoglimento, l'energia dell'intimo rinnovamento? Non cade sempre più la capacità di porsi in distanza, di liberarsi dalle costrizioni d'ogni specie, di percepire nel corso del divenire la mano di Dio?

Tutto ciò però non è altro che la forma normale di quello stesso processo distruttivo la cui forma eruttiva è rappresentata dalla guerra, cioè la graduale consunzione dell'uomo per mezzo della sua propria opera. Ma non nel modo in cui ognuno che lavora si consuma al servizio di ciò che egli crea, dove nella oblazione di se stesso attinge la propria identità .autentica. Chi lo pensasse soggiacerebbe all'inganno del processo il quale adesca l'uomo con un'immagine illusoria affinchè egli non possa sfuggire. Alla fine di questa consunzione non sta quel « ritrovare la propria anima » che è promesso all'uomo magnanimo che ha il coraggio del sacrificio, ma sta la distruzione e l'assurdo.

È tempo, gran tempo, che il dogma, banale quanto pericoloso, della certezza della « evoluzione », del progresso, venga infranto. La realtà è diversa. E l'uomo lo sente. Non per nulla la parola « Nulla » ha acquistato una potenza così spettrale. Non per nulla si discorre dappertutto di « demoniaco ».

Se nella guerra moderna va svelandosi sempre più chiaramente qualcosa di incondizionato, questione di vita e di morte per l'uomo, allora anche la pace deve

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acquisire un carattere clie prima ìlón aveva. Concludere la pace significa precisamente che coloro che prima erano avversar! si accordino su qualche base affinchè si renda possibile un nuovo futuro. Per la coscienza guerresca che noi credevamo di vedere nell'antichità classica, il patto di pace si fondava sulla intuizione del momento in cui gli dèi stessi lo stipulavano tra loro, e sullo sforzo rispettoso di rendere soddisfazione al Kairòs; la funzione dei veggenti e degli interpreti del sacrificio non si fondava certamente soltanto su una superstizione che non aveva ancora penetrata la realtà. Vi si aggiungeva la riflessività che si proteggeva dalla hybris, e la generosità che donava nuovo spazio anche all'avversario. Per il Medioevo il patto di pace consisteva nell'ardente rispetto del giudizio di Dio; nella saggezza che : riconosceva il nuovo compito d'ordine, e nella giustizia consapevole di dover essere un ordine vigente tra uomini redenti. Ma che cosa significa il patto di pace dopo una guerra quale si è ora rivelata?

Noi non possiamo perderci nel fantastico. I punti di vista del proprio interesse saranno sempre operanti. La prudenza politica cercherà sempre di raggiungere ciò che è utile al proprio Paese, e il senso per le conseguenze storiche sempre mediterà in che modo il vantaggio del momento presente abbia rapporto con le possibilità del futuro. Ma tutto ciò è sufficiente? Ciò che si è imposto nel corso dell'età moderna è la guerra assoluta in quanto ben diversa dalla relativa. Forse anche una pace che voglia es-serle pari dovrà includere una dimensione assoluta? Dovrà dipendere dalla presa di coscienza che chi ci è avversario fino ad ora è in realtà un alleato contro un nemico comune? Un nemico che non vuole affatto

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un futuro, di nessun popolo e di nessun Paese, ma la negazione del futuro? Che non vuole superiori forme di vita, individualisticamente o collettivisticamente costruite, ma l'annientamento?

Un poeta del nostro tempo ha detto: « È una grazia infinita poter vedere ciò che è ». Sarebbe realmente una grazia, a noi necessaria per la vita e per la morte, imparare a vedere che cosa nel corso dell'età moderna si è venuto elaborando. Per dominarlo non bastano i punii di visra acquisiti finora, non quelli politici della sicurezza, ne quelli umani della giustizia o della pietà. Qui c'è qualcosa che postula atteggiamenti nuovi, qualcosa appunto di strettamente connesso con la potenza in quanto tale.

Tutto ciò è sentito dappertutto. Faremo un solo esempio. Da vari decenni si è sviluppata, sotto lo stimolo soprattutto di Soren Kierkegaard, una filosofia la quale piano piano ha minacciato di assumere il carattere della moda: l'esistenzialismo. Lasciamo stare tutto ciò che in essa provoca la critica. I suoi processi mentali girano comunque intorno a certe esperienze di fondo altrettanto giuste quanto inquietanti. L'esistenzialista — quello vero che non soltanto adopera parole della lingua di Heidegger o di Sartre, ma che merita il nome che porta — avverte un pericolo sull'esistenza. Non pericoli all'interno di questa particolare esistenza, pericoli di una realtà da parte di un'altra, ma un pericolo per l'esistenza come totalità, il quale si annuncia in una angoscia profonda. Nel sentimento dell'esistenzialista è penetrata con grande forza la totalità. Tuttavia non in quella maniera magnanima e tranquilla, fidente, che era del pensatore medioevale, il quale era capace di trasferirsi senz'altro dall'analisi dell'essere all'adora-

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zìone di Dio; oppure neÌla maniera di un impulso alla costruzione filosofica come nell'idealismo tedesco, il quale nei suoi sistemi voleva portare il mondo e la storia al suo compimento. Ciò che l'esistenzialista esperisce è la totalità in quanto estremamente minacciata.

Questa minaccia è, nel più profondo, quella che emerge dalla situazione in genere dell'uomo nell'esistenza. Non già semplicemente dal fatto che l'uomo è finito; l'esistenzialismo sbaglia affermando ciò. La finitezza come tale non è ancora minaccia, e la sua esperienza non è ancora angoscia; essa dovrebbe piuttosto venire esperita come un fidente abbandonarsi nella mano del Creatore, come un bell'affidarci alla libertà da parte della .generosità divina. Ma la finitezza nell'uomo si è ribellata ed è perciò entrata in contraddizione verso la sua sorgente. In tal modo essa ha perduto la sua base ed è stata « gettata » in un luogo senza luogo. Nasce di qui quell'angoscia che vive nel fondo più profondo dell'uomo. Essa non è essenziale a lui, ma è da lui colpevolmente meritata;

appartiene, per citare un'altra volta Pascal, non alla sua natura « prima », ma alla sua « natura seconda », quale essa s'è affermata per mezzo dell'azione umana al principio della storia. La minaccia circa cui essa si angoscia è il fatto di stare in una situazione di ingiustizia, di contraddizione, verso Dio e perciò verso tutto ciò che è. Questa angoscia assume tuttavia nei diversi tempi carattere diverso. Ci condurrebbe assai a fondo nell'essenza delle varie epoche storiche, se ci si domandasse in che cosa consista l'angoscia dell'uomo primitivo e in che cosa differisca da essa quella dell'uomo classico, medioevale, moderno. L'angoscia dell'uomo post-moderno nasce

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dal fatto che la straordinaria potenza che si trova nelle sue mani si è staccata dall'ordine; che essa non è, in ultima istanza e in senso globale, responsabilmente guidata. La guerra moderna rappresenta appunto la più impetuosa incarnazione del pericolo che incombe. Tutto ciò lo sente non soltanto il filosofo, egli vede solo più chiaro ed esprime più netto ciò che il tempo in genere sente. Per questo sono tanti coloro che reagiscono alle idee della filosofia esistenzialistica, anche quelli che non sono affatto in grado di penetrarla intellettualmente; il loro sentimento esistenziale risponde all'esperienza che le sta alla base.

In ogni epoca il compito della cultura si formula diversamente. L'antichità classica ha cercato la forma valida dell'uomo e delle cose, il Medioevo l'ordine sacro, l'età moderna l'indipendenza e la potenza sulla natura. Nell'epoca che sta per venire si tratterà forse del dominio sulla potenza. Anteriormente ogni accrescimento di potenza era sentito come un progresso semplicemente; oggi questo avviene solo negli ingenui e nei fanatici. I consapevoli sanno invece benissimo che la potenza è diventata semplicemente un pericolo. Cultura significa per noi non più acquisire potenza ma vincolarla.

Senza dubbio nell'epoca avvenire la potenza si svilupperà ulteriormente per mezzo della scienza e della tecnica, ma, se essa vuole distinguersi dalle barbarie, con sempre più profonda preoccupazione in ciò che in tal modo si compie. Questa preoccupazione sarà la nota caratteristica; la responsabilità per qualcosa che cela in sé immense possibilità del bene ma anche, anzi molto, più, del male \ Una volta che —

1 IL fisico C.F. v. Weizsacker ha detto nella postilla all'edi-26

chissà a quale prezzo? — il nuovo atteggiamento sarà raggiunto e l'uomo volgerà lo sguardo indietro all'età moderna, scrollerà il capo. Egli avvertirà che la fede nel « progresso » di questa età era inconcepibilmente primitiva; che l'irriflessibilità con cui essa acquisiva sempre nuova potenza, senza garantirla con un ethos corrispondente, era assenza di responsabilità; che il metodo di scatenare in un punto una energia e di contrapporle in un altro punto un'altra energia, era barbarie. Si svilupperà allora una nuova superiorità; una capacità di governare spiritualmente .non soltanto l'uomo ma le forze dell'uomo. Ed essa verrà sorretta dalla libertà dell'uomo maggiorenne, il quale non si lascia più inebriare, ma sa che la sua esistenza è entrata nella zona dell'estremo pericolo.

Si potrebbe obiettare che quanto è stato detto fin qui si trattiene sulle generali e ci si può domandare che cosa dovrebbe ora succedere in concreto. Io ho

zione tedesca di scritti di Giambattista Vico (Vom We/sen unì Weg der geistigen Bildung, tradotti da W. F. Otto, 1947, p. 162); « Poiché noi possiamo dimostrare qualcosa di fisico, possiamo anche produrlo. La tecnica dei nostri giorni è il documento giustificativo... Dove andremo a finire se l'uomo si accertasse su questa via della propria somiglianzà con Dio? E possiamo, noi uomini d'oggi, tranquillarci su questo punto? Sul piano teoretico la fisica è oggi più aperta che mai all'idea che noi possiamo dominare concettualmente solo ciò che anche potremmo in linea di principio produrre. Sul piano pratico ci trovavamo poco fa davanti alla domanda se ciò che l'uomo produce sia per la sua salvezza o per la sua perdizione. La questione non è decisa »,

Era pensabile che uno scienziato arrivasse ad esprimere un simile concetto prima del 1914, o forse prima del 1939?

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tentato di richiamare l'attenzione su un aspetto particolare di pericolosità nella situazione dell'uomo, che si è fatto chiaro finalmente negli ultimi decenni. Se il richiamo era giusto e se noi prendiamo coscienza della nuova situazione, non è questo già molto concreto? L'uomo o.ggi sente che le cose sono diventate diverse in grado enorme;, è incalzato da una angoscia per ciò che da essa si va profilando; nello stesso tempo però egli si sottrae alla serietà della situazione, comportandosi come se egli potesse continuare a lavorare con gli antichi metodi di vita. Se egli riconoscesse che occorre un mutamento del suo più intimo atteggiamento e vi si dichiarasse pronto, non sarebbe questo già molto concreto?

L'età moderna ha detto: l'uomo è buono; l'uomo è ragionevole; ogni aumento di potenza serve al suo bene; perfino quell'uso estremo della potenza che si chiama « guerra » può bensì distruggere molto, ma si muove all'interno di un ordine generale di natura, cosicché si potrà senz'altro venirne in qualche modo a capo. Tutto questo non è vero. La struttura dell'uomo contiene tendenze buone ma anche cattive. L'uomo è ragionevole, ma la sua ragione è influenzata da istinti, e alcuni di essi vanno contro ogni ragionevolezza. Ciò che egli crea è parzialmente in armonia con il senso dell'esistenza, ma parzialmente anche in contraddizione. Il suo istinto di vita include, accanto alla volontà di vita, un'arcana volontà di distruzione, stimolata da una oscura coscienza della colpa che lo spinge all'espiazione o alla disperazione. In tal modo l'uomo non è garantito entro quei grandi schemi ai quali l'età moderna soleva tutto ricondurre: alla « natura » da una parte e alla « cultura » dall'altra.

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Egli deve finalmente avere il coraggio della verità e vedere come stanno le cose. Egli ha nelle proprie mani il possesso del proprio essere in un grado mai verificatosi prima. Perciò egli deve anche riconoscere che cosa queste mani possono provocare, anzi che cosa esse sicuramente provocheranno, se egli non si decide per una nuova responsabilità. Egli non può più fare ciò che prima ha sempre fatto: lasciar correre le cose, perché se ne cura la « natura ». Questa natura non se ne cura. Deve curarsene egli stesso.

Sarà affare dei responsabili concludere quella pace che metta termine allo stato palese e latente di guerra. Ci sarebbe molto da dire a questo riguardo.

Soprattutto bisognerebbe dire dell'ansia dell'uomo per la pace. Le sofferenze umane aumentano talmente all'infinito che è tempo di porvi fine. Non può essere bene, neanche politicamente bene, se lo stato di disperazione diviene cronico.

Bisognerebbe dire fino a qual grado le potenze del male sono scatenate: lo spirito della violenza, del sangue, della distruzione, e che questo grado aumenta all'infinito per ogni indugio.

Bisognerebbe dire che ogni còsa ha il suo tempo, anche la conclusione della pace. Se nelle questioni vitali non si ha la percezione del giusto tempo, esse si .guastano. Anche la pace può guastarsi, e può na-scerne uno stato di amorfa assenza del diritto che è quasi altrettanto terribile come una lotta aperta.

Finalmente bisognerebbe dire che oggi la conclusione della pace è non solo una questione di saggezza, ma anche di audacia. Bisogna osare con essa e affron-

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tare pericoli; giacché dò che insorge, quando la pace non arriva, è peggiore della perdita di qualche vantaggio.

Bisognerebbe parlare di varie altre cose ancora, ma non è il compito di queste riflessioni.

Quanto esse vogliono dire è questo: i responsabili faranno la pace, e si spera presto, e in modo che la vita possa rifarsi possibile. Ma con questo il problema della guerra non è risolto.

Noi l'abbiamo visto: dietro la guerra in fase acuta sta quella permanente. Dietro la guerra che si esplica in operazioni terribili ma che comunque un giorno finiranno, c'è quell'altra che emerge dalla situazione dell'uomo moderno stesso. La cultura moderna è essa stessa e in misura crescente « guerra », è la potenza dell'uomo contro la vita dell'uomo. Ciò diviene chiaro nella guerra della post-età moderna, nella guerra assoluta.

Ad essa dev'essere contrapposta la faticosa ricerca della « pace assoluta ». Questa consiste in un corretto rapporto fra la potenza dell'uomo e la vita dell'uomo. L'uomo ha sviluppato una potenza incommensurabile. Ma essa non è ne posta sotto la responsabilità ne guidata. Si è emancipata e si è ritorta contro l'uomo stesso. Questo è il vero "emico, e pace significa legarlo.

Nella poesia II veltro del ciclo di Francis Thompson *, Dio dice all'uomo: « Tutte le cose ti tradiscono perché tu hai tradito me ». Tutto il potere dell'uomo diventerà suo nemico se non lo colloca nell'ordine;

ma l'ordine stesso deve essere costruito in rapporto

* Thè Round of Heaven, in Workes, a cura di W. Meynell, London, 1915.

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a Dio. Dio oggi è un politicum. In fondo Egli lo è sempre stato, oggi lo è in forma ben più potente, in forma precisamente decisiva. Si obietterà: sarà mai possibile cambiar qualcosa su questo punto? Non ° necessario che tutto vada come va? Noi risoondiamo: No! Il presupposto per cui ha potuto nascere quell'errato rapporto verso la potenza, e insieme il mezzo più rilevante .'••"" cui esso si è imposto, fu l'immagine moderna dell'uosB-Essa è passata attraverso caratterizzazioni diverse;

ma erano simili tra loro nella loro essenza decisiva, cioè nel modo in cui determinavano il rapporto dell'uomo con Dio.

C'è l'immagine borghese-liberale, che colloca l'uomo in una natura a lui affine, dichiara possibile per lui un rapporto armonico con essa e gli conferisce la missione di plasmarla in una cultura sempre più perfetta. C'è l'immagine totalitaria, che rinnega il diritto della persona singola e vede nell'uomo soltanto un elemento delle totalità storico-politiche. C'è l'immagine esistenzialistica, che getta il singolo nel vuoto, in una assoluta libertà, e gli attribuisce il potere di determinare l'essere e il significato. Queste immagini sono molto diverse, ma in un senso iden-tiche: emancipano l'uomo da Dio, lo collocano nel suo proprio potere e .gli mettono nelle mani il mondo. Perciò egli perde l'altezza che è sopra di lui e resta esposto alle causalità che lo condizionano sia dentro sia fuori.

Ma queste immagini sono false. Sono le ideologie della ribellione. L'uomo di cui trattano non esiste. Fino a che l'uomo si vede in quel modo non sarà in grado di sottomettersi il nemico della sua esistenza, cioè la sua propria potenza. L'evidenza delle

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finalità scientifiche, tecniche, politiche è così cogente che egli cade in loro balìa. Egli deve quindi imparare a vedersi quale è « in verità ».

Qui sta il punto decisivo. L'uomo deve rientrare nell'ordine. L'ordine va primariamente verso Dio, il Creatore e il Giudice. L'obbedienza a Lui costituisce il nucleo dell'ordine. Là ancorato egli potrà creare ordine in se stesso, fra la sua potenza e la sua vita, poiché nel rapporto con il Signore del mondo egli possiede il punto d'Archimede su cui appoggiarsi. Ed egli avrà allora questo Signore del mondo per suo alleato. Dio non è soltanto l'idea più alta, ma è realtà;

non è soltanto il fondo primordiale del mondo, ma è persona; non è soltanto il senso dell'esistenza, ma è attivo operatore. Dio si propone di condurre una storia, e l'uomo che crede in Lui entra in intesa con la sua volontà. Là ancorato, potrà legare la potenza. Ancorato solo là e in nessun altro punto altrove. Il sì o il no al Dio vivente, il sì o il no verso la sua volontà è nello stesso tempo l'assoluta decisione. Affermarlo 'non è questione di fantasia. Io non credo che si possa dire che l'esistenza umana come totalità sia coinvolta in un reale progresso, giacché ogni vantaggio acquisito in un punto viene pagato con una perdita in un altro punto. Ma una cosa sembra veramente verificarsi: le decisioni si fanno sempre più chiare. Le conseguenze delle prese di posizione emergono sempre più nettamente. E il centro di tutte le decisioni sta qui.

Il senso della cultura avvenire consiste nella vinco-lazione della potenza per opera dell'uomo, il quale vuole esistere nella dignità e nella libertà, in una vi-

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vente spontaneità e nella gioia della vita. Noi abbiamo bisogno di una educazione all'uso della potenza. È una inquietante realtà di fatto che tale educazione viene praticata sempre meno dal tempo in cui la potenza dell'uomo ha cominciato a crescere così paurosamente. Oppure esiste una pedagogia che reca alla coscienza dell'uomo quanto egli può e suscita in lui la responsabilità per questo? Che gli insegna i superamenti e le rinuncie necessa-rie per essere libero nell'uso della potenza? Il rispetto per la vita e l'intuizione per l'ordine gerarchico delle cose? Tale pedagogia non esiste. Deve essere creata.

Sulla base di essa la guerra intcriore e costitutiva sarà legata; e solo nella base di essa la guerra esteriore e attuale riceverà quel minimum di « ordine », senza di cui è pura distruzione.

II

LA PACE E IL DIALOGO

Mi consentano di dire che l'attribuzione'del Premio per la Pace 1 cai ha dapprima sorpreso perché non ho scritto nulla sul problema della pace, a parte in alcune occasioni. Ma poi ho sentito che con questa onorificenza veniva toccato un motivo determinante per il mio lavoro.

Mi ha sempre cioè occupato il problema: come mai possano affermarsi prese di posizioni così diverse degli uomini circa le questioni dell'esistenza e se non sia possibile di acquisire a tale diversità una forza costruttiva. Da queste riflessioni è nato a suo tempo un mio libro sulla « opposizione polare » 2, ed esse sono divenute importanti anche per i miei scritti di poi.

In tal modo è per me una grande gioia di vedere confermato questo mio interesse.

Mi sia allora lecito iniziare con un pensiero già contenuto in quanto è stato detto.

1 Un discorso che l'autore ha tenuto nella 'Pauiskircbe di Francoforte in occasione della consegna del Premio per la Pace del commercio librario tedesco nel 1962.

2 Der Gegensafz, Mainz, 19552; tr. it. in R. guardimi, Scritti filosofici, a cura di G. Sommavilla, I, Milano 1964.

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Noi sentiamo fino a qual punto il problema della guerra e della pace ci tocchi vitalmente. Non solo come una manifesta esplosione di violenza; le radici della guerra vanno molto più a fondo. La guerra e-sterna può sorgere solo perché c'è quella interna. Ma in che cosa consiste questa?

Nel fatto che in un settore circoscritto operano diverse iniziative; e non solo diverse, bensì contrastanti l'una all'altra. Ma come può avvenire qualcosa del genere? Vogliamo restare dentro la zona che interessa in modo particolare il filosofo, nella zona della conoscenza. Come è possibile che diversi uomini la pensino in modo così contrastante circa le cose della loro comune esistenza? Si tratta infatti d'una stessa realtà su cui essi pensano; il loro spirito è in ultima analisi guidato dalla stessa logica e in essi — sia detto comunque con esitazione maggiore — vive pur la stessa volontà di verità.

Forse la domanda può suonare strana. Il presente e il passato sono così profondamente caratterizzati dalla lotta che il nostro sentimento vi si è adattato e

10 trova « normale ». Ma è bene ogni tanto eliminare l'apparenza del normale; allora le cose si mostrano nella loro stranezza.

Come può, allora il pensiero dell'uno contraddire quello dell'altro? La ragione è quella stessa da cui nasce la grandezza del rapporto: cioè la libertà.

11 'naturalismo trova ovvio questo stato di cose. Sarebbe quello stesso che domina ovunque nella natura: la lotta di tutti contro tutti. Ma fra gli animali non domina interamente la lotta di tutti contro tutti, bensì vi esistono anche precisi ordini reciproci. Finché questi restano operanti, gli animali vivono negli schemi dei loro processi vitali e non si di-

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sturbano l'un l'altro. La possibilità di una lotta del tutto libera, quasi si vorrebbe dire, assoluta, si afferma soltanto nell'uomo; e sarebbe un segno di grande cecità verso i fenomeni scambiarla con ciò che si compie nel mondo degli animali.

L'uomo sta sotto influenze della più diversa forma e potenza; ma è proprio della sua essenza l'uscire dai contesti naturali, prendere distanza e di lì considerare, intendere, .giudicare l'oggetto la cosa e se stesso.

Questa realtà di fatto conferisce alla lotta dell'uomo un carattere del tutto diverso da quella dell'animale;

apre lo spazio in cui si ha la decisione e perciò la responsabilità.

Forse si obietta: che senso ha tutto questo nell'ambito della conoscenza? Che senso ha la decisione là dove si tratta della verità? Di fronte alla verità non c'è ne destra ne sinistra, ma soltanto un sì al suo significato!

L'obbiezione è giusta, ma anche no; perché la verità stessa è in rapporto con la libertà. Si ha la verità soltanto nello spazio creato dalla libertà; e il sentimento d'essa si corrompe nella stessa misura in cui può andare perduto il sentimento della libertà. Ciò che la conoscenza cerca è la forma significativa di una cosa o di un avvenimento. Tale forma significativa ha un grande potere sullo spirito; ma è il potere appunto del significato, non quello della forza. Essa brilla; colpisce in quella maniera incondizionata di cui ben sanno coloro che non hanno distrutto la propria vita spirituale; ma non costringe. Lo spirito deve aprirsi a lei. Deve permetterle di farsi valere in lui. Lo spirito può farlo, ma vi si può anche rifiutare. Per mutuare una parola di Nietzsche: può

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senz'altro avvenire che l'intelletto dica « è così »;

ma che la volontà risponda « non può esser così », e l'intelletto cede. Allora può affermarsi qualcosa che sembra conoscenza; in realtà si è affermata soltanto una volontà.

Dietro all'operare in apparenza puramente obbiettivo dell'intelletto agiscono motivi che sono tutt'altro che obbiettivi; desideri e paure, simpatie e antipatie, intenzioni in tutta la gamma dell'apertura e della decisione. Tale è il campo dei processi mentali che si arrogano l'apparenza di essere nient'altro che constatazioni e penetrazioni di realtà oggettive e nello stesso tempo un campo di battaglia, sul quale iniziative diverse si contrastano a vicenda.

Se così è, sarebbe allora anche a livello spirituale inevitabile la lotta, diciamo più esattamente, la lotta violenta. Così sarebbe, se non esistesse appunto ciò che rende possibile tutta questa situazione, ossia la libertà.

Non appena si scontrano gli animali di rapina e di preda, nasce per forza la lotta violenta. L'uomo può elevare l'urto dei motivi su di un piano più alto e renderlo creativo. Ciò vuoi dire: egli può entrare in dialogo.

Dialogare è qualcosa che noi facciamo di continuo o almeno crediamo di fare. Ma le cose di tutti i giorni restano velate proprio dal loro ricorrere quotidiano; vale così la pena di riflettere su di esse. Il dialogo si fonda sulla parola; sull'atto stupefacente per mezzo del quale l'uomo comunica fuori di sé con i suoni ciò che ha intcriormente conosciuto

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e lo confida all'altro, e con ciò, per un fugace momento, il suo intimo sta aperto nello spazio fra due. Poi la parola tace, ma continua a vivere in silenzio nell'intimo di colui che l'ha udita. Egli crea in sé la parola di replica e la rimanda. Un'altra volta essa si fa aperta nello spazio personale, e così si costruisce, oltre i confini delle due interiorità, il ponte del dialogo, pura espressione dell'essenza umana.

Ma, affinchè questo si verifichi, i dialoganti devono stare in una intesa. Ognuno dei due deve essere persuaso che esiste una verità valida. Ognuno deve. aver rispetto per l'altro, perché anch'egli ha rapporto a questa verità. E ognuno deve avere la speranza di poter vedere la verità in maggior misura insieme con l'altro, di quanto sia in grado di vedere da solo.

Per tutto ciò, ognuno può anche capire i pensieri dell'altro e sulla base di essi rettificare e ampliare i propri.

Ma è possibile tutto ciò, se fra i due esistono tutte quelle differenze di cui abbiamo parlato? Un'altra volta dobbiamo rispondere che è possibile sul fondamento della libertà. Perché essere liberi significa poter uscire dalla propria individualità, in tanti modi vincolata, nell'individualità dell'altro; significa capire in che modo egli esiste nelle sue idee.

A questo punto noi notiamo che nei presupposti finora indicati del dialogo ne manca ancora uno: la simpatia. Già Agostino ha visto che essa è la condizione di ogni conoscenza vitale. Noi possiamo realmente conoscere soltanto ciò che in un certo senso amiamo; detto più parcamente, ciò a cui noi vogliamo bene. Da questo punto di vista noi possiamo perseguire l'attuarsi della personalità dell'altro: ve-

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dere in che cosa sta la sua essenza; che cosa cerca conoscendo; come essa arriva ai pensieri che esprime e che cosa questi pensieri, al di là di forme espressive forse insufficienti o addirittura false, propriamente intendono.

Per quanto riguarda poi la parola stessa, essa non è solo segnale di ciò che si intende, ma anche incarnazione dello spirito. In essa la verità diviene umana. In tal modo la parola che mi arriva dall'altro possiede, al di là della semplice comunicazione di quanto si intende, una forza vivente. Essa va a toccare quel centro intcriore che è facile sentire, ma che è difficile determinare concettualmente: dove spirito e materia, anima e sangue si compenetrano a vicenda;

dove ha origine l'essenza dell'uomo. Questo centro muove e anima e fa sì che il semplice constatare e designare divenga un sapere e un immaginare vivente. Il risultato di un simile dialogo è la « pace ». Poiché nasce dall'intesa nell'ansia della verità e nel rispetto reciproco; e ad ogni nuovo, comune passo fatto nella verità, l'intesa si approfondisce.

Ma che cosa avviene se i due non si capiscono l'un l'altro?

Ciò avverrà frequentemente, perché una comprensione reale è difficile. Anzi, si potrà dubitare se possa in genere mai riuscire perfettamente;, se l'uno possa mai arrivare del tutto, oltre quelle barriere che costituiscono l'io, fino all'altro; se ogni nostro parlare non sia alla fine che un rapportarsi a qualcosa di nascosto? Ma queste sono barriere che si oppongono ad ogni genere di comprensione, anche a quella che realmente riesce. Che cosa sarà quando non ha luogo nessuna comprensione affatto? Quando

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le opinioni stanno le une di fronte alle altre irriconciliate?

Allora resta la fiducia nella verità e la disponibilità a continuare il dialogo: una forma di quella grande virtù senza di cui nulla di umano matura; la pazienza. E anche questo è pace.

Dobbiamo domandarci un'altra volta: che cosa sarà se giungo a vedere che le idee dell'altro sono false? che egli sbaglia?

Allora io mi trovo davanti a un limite tanto più delicato quanto meno deve esistere di necessità, ma di fatto v'è. Io posso cercare di attenuarlo, sforzandomi di indicare all'altro il suo errore; il che è possibile unicamente se io al tempo stesso sono disposto ad esaminare la mia propria opinione e a correggerla. Se ciò non riesce, il limite è definitivo. Poiché la stessa verità a cui entrambi siamo obbligati mi proibisce di dire: « Ciò che tu pensi, è anche vero ».

Non esistono « verità-anche ». Ciò che esiste è la diversità dei punti di vista; la dialettica di formulazioni le quali per principio sono rapportate a vicenda e che perciò stanno l'una rispetto all'altra non in contraddizione esclusiva ma in opposizione feconda. Allora io posso dire: « Anche tu vedi qualcosa di giusto », e si rende possibile una sintesi. Ma non appena appare non l'opposizione ma la contraddizione, non appena l'uno dice sì dove l'altro deve dire no, o l'uno giudica buono ciò che l'altro riconosce cattivo, allora non è più possibile nessuna sintesi, bensì soltanto Vaut-aut, e questo si chiama lotta.

Tuttavia anche qui influisce l'atteggiamento dell'au-

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tentico dialogo, cioè nel rispetto dell'opinione altrui. Non del contenuto da essa rappresentato; a ciò che io riconosco per falso non potrò mai dimostrare l'onore della verità. Ma certamente della persona che la rappresenta e del fatto che è un'opinione umana. E, se ne nasce poi una lotta, essa ha un altro carattere.

Questo dialogo costante è uno dei fenomeni di fondo che reggono il nostro lavoro. Noi — autore e lettore e, fra l'uno e l'altro editore e libraio — serviamo a quella complessa cosa che chiamano letteratura. Essa sgorga sempre nuova dal fatto che in una comune ansia della verità si continua il dialogo umano.

Ciò sembra ovvio; ma abbiamo fatto l'esperienza che non lo è. Esiste una specie di letteratura che non esprime più un dialogo, ma che deve svolgere un programma di pensiero e di azione davanti ad ascoltatori muti. Ma essa non è più letteratura, bensì propaganda; e ciò che essa vuole non è la verità ma il potere.

Esiste tuttavia un pericolo ancora più profondo del semplice potere; esso nasce dalla stessa evoluzione generale della cultura.

Nel complesso fenomeno da cui sorge la letteratura agiscono diversi rapporti di fondo: parlare e ascoltare, scrivere e leggere; e infine, attraverso i due citati, mostrare e vedere. Si sarebbe inclini a pensare che questi rapporti, nel corso della storia, abbiano guadagnato in libertà e intensità. La possibilità di poter parlare a un mag-

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gior numero di uomini conferisce certamente alla parola una serietà particolare; la stampa e la diffusione allargano la sua zona di influenza; i sussidi per un mostrare e vedere migliore mettono in evidenza fenomeni che altrimenti restavano nell'ombra. Di contro a questo vantaggio stanno però svantaggi rilevanti, e vale la pena di esaminarli con maggiore precisione.

« Parlare » — l'abbiamo già detto — significa che io confido la mia conoscenza alla struttura sonora della parola e la trasmetto all'altro; « ascoltare » significa che l'altro riceve la parola, che il significato si accende nel suo spirito dandogli quella tutta speciale libertà e fermezza che si chiama appunto « verità ».

Ma come stanno le cose: sono veramente divenute migliori le parole e il loro uso nel corso degli ultimi, diciamo, cento anni? Più precise, più profonde, più feconde? Si potrà a stento rispondere con un semplice sì.

Già il fatto che si parla tanto e sempre di più ha un effetto fatale: le parole si logorano. Loro saranno già stati certamente colpiti da quello che avviene quando una parola finora non particolarmente notata diviene attuale: fino a quando resta viva? È una delle peggiori esperienze di chi parla che, dopo aver trovato una buona espressione per qualcosa di davvero conosciuto, questa di lì a poco si è consumata per il semplice fatto che tanti la ripetono, e la ripetono sempre peggio. Pensino per esempio a che cosa è successo ai termini « il nulla » o « l'angoscia », da quando essi sono divenuti attuali nella filosofia di ven-t'anni fa. Non si ha forse già ritegno ad usarli? Ma

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che cosa si deve fare se non ne esistono altri? Che cosa si deve fare con le parole ripetute a morte? Non resta che una cosa: parlare con sempre maggiore semplicità, poiché la semplicità resiste più a lungo di tutto alla distruzione. Ma chi ha fatto un simile tentativo sa quanto sia difficile. La semplicità è precisamente padronanza piena, maestria.

C'è ancora un'altra cosa peggiore di questa: che le parole perdano la loro profondità. Tutte le autentiche parole, maturate in una lunga storia, si radicano nei fondamenti dell'essere, nella zona religiosa. Ma queste radici vanno morendo con il procedere dell'età moderna. Le parole perdono così la loro dimensione verso l'interno, la loro religiosità. Sfogliando un vocabolario, può essere molto triste l'impressione al vedere quanto piatta questa o quella parola è diventata, in cui prima parlava la profondità. Ma inoltre esiste un vero e proprio delitto che si perpetra sulla parola: la perversione cosciente per mezzo della propaganda. Noi ci imbattiamo oggi dappertutto in parole dalle quali, quanto ad esse, non sappiamo che cosa intenda chi le pronuncia. Esse non esprimono più, non afferranno più. Poiché la autentica parola nasce sempre dalla lealtà della volontà di verità e dal rispetto per la fiducia di chi ascolta! ma in questo caso essa viene regolata dalla menzogna consapevole, a meno che il senso della verità non si sia estinto in senso assoluto e non si tratti ormai che di effetti. Oppure si può affermare che parole come « la pace », o « il diritto », o « la democrazia » abbiano ancora un significato universalmente valido? Non è forse necessario addirittura imparare un nuovo sistema di ascolto, cioè anzitutto lasciare indeciso ciò che si è percepito e interpretarlo

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a seconda della posizione politica di chi parla? Una arte prima richiesta soltanto ai diplomatici? Senza parlare della spaventosa situazione in cui l'uomo dominato risponde come la violenza vuole che si risponda; e alla parola non si collega più il carattere di un'affermazione, ma la si lascia soltanto come un tranello o come un espediente difensivo.

Oppure prendano quello che qui soprattutto ci interessa: lo scrivere e il leggere; la fissazione della parola parlata in segni riconosciuti, che poi viene tecnicamente moltipllcata e resa accessibile a tutti.

La crescente abbondanza e rapidità dello scrivere non rappresenta un pericolo sempre più assillante? Non è forse vero che qui non c'è più un uomo che si impegna per una verità riconosciuta, ma per così dire lo stesso scrivere che scrive se stesso? Quando noi, ad esempio, leggiamo un giornale, è davvero ancora un leggere? Eppure il processo del leggere consiste nel fatto che l'esterno schema impresso suscita la parola intcriore e in questa si rivela il significato. Ma per tutto ciò ormai non esiste di regola più tempo e ciò che in realtà si verifica, è un balenare transitorio di brevi segnali significativi. Così per lo più, un momento dopo, noi abbiamo tutto dimenticato. Ma in questo c'è qualcosa di assai brutto:

l'atto stesso del leggere si corrompe; perché esso è qualcosa di vivente, e il semplice « aver ricevuto la scossa » alla lunga non resiste.

Quanto qui si verifica in forma singolarmente chiara, si manifesta dappertutto nella nostra esistenza sotto l'alluvione della carta stampata. Se si avesse ancora opportunità di osservare quale forza hanno l'imma-

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ginazione, la memoria, il pensiero e la lingua degli analfabeti, potrebbe sembrare a qualcuno molto degna di riflessione una affermazione apparentemente reazionaria: che ogni disgrazia sia cominciata con l'obbligo dello scrivere e del leggere.

E che cosa avviene per la terza cosa, il mostrare e il vedere? Mostrare si può colui al quale qualcosa si è mostrato. Emergendo da qualcosa che sta immediatamente davanti a lui l'essenza di una cosa ha colpito i suoi occhi, ed ora egli — con i gesti della mano, con una parola che spiega o con un'immagine che rivela — vi guida lo sguardo di un altro: Guarda che cosa là sfavilla! Si potrebbe pensare che il nostro tempo, il quale sa « illustrare » tante cose e con una tecnica così brillante, comprenda a fondo il mostrare, e che il vedere divenga sempre migliore. Ma è così? Un altro esempio ovvio. Nelle vetrine dei negozi fotografici stanno esposti apparecchi meravigliosamente fini e precisi, capaci di fissare le più lontane e rapide apparizioni. Si dovrebbe così pensare che esse facciano sì che il mondo appaia agli occhi più bello, più profondo e più ricco di forme. Ma è questo il caso?

Uno che usa di continuo la macchina fotografica vede forse più di mondo di colui che non la usa, ma che apre invece sul mondo i suoi occhi? In casi singoli certamente, senza contare il valore di ricordo di certe fotografie. Ma come stanno le cose di regola e in media? Guardare è precisamente un aprirsi verso la ricchezza di forme dell'esistenza. Non è forse questo che viene eliminato dalla intenzionalità immaginifica della fotografia? Guardare è un assumere in un possesso intcriore, nella memoria. L'apparecchio non toglie forse ad uno la fatica per un

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simile evento? Si ha l'impressione di avere ora la cosa bella dentro di sé, ma in realtà essa non resta del tutto « fuori », ossia incisa nella pellicola?

E colui che guarda le immagini si guadagna forse un più ricco possesso del mondo? Noi non vorremmo rinunciare agli splendidi volumi di arte e di paesaggio, ma la cosa ha anche un altro aspetto. Quando noi, per esempio, abbiamo sfogliato una rivista illustrata, abbiamo veramente « visto »? In realtà non ha forse un'immagine cancellata l'altra? Già il modo come le immagini sono state puntate sull'interessante non ha forse rovinato l'autentica capacità di vedere? Oppure, dopo aver visto al cinema il Wochenschau *, siamo davvero diventati più ricchi di immagini? Dopo che gli avvenimenti si sono velocissimamente succeduti e al possibile in contrasti, e di ciascuno sempre il punto culminante, più sensazionale? È vero" il contrario.

L'opinione che la tecnica illustrativa del nostro tempo mostri all'uomo più di mondo è così poco giusta che si è tentati di dire: quanto più apparecchi fotografici, tanto meno di mondo realmente visto.

Vorrei pregare quanti mi ascoltano di non voler arguire da quanto ho detto quell'atteggiamento di spirito che unicamente si lamenta degli aspetti decadenti del tempo. Ma in un'ora come questa si mira a riflettere su ciò che sta alla base del proprio agire e sulle difficoltà che vi si oppongono.

E non occorrono particolari dimostrazioni per vedere quanto il fenomeno di cui si è detto renda difficoltoso il dialogo. Noi non vogliamo celebrarlo, ma è

* Rassegna cinematografica degli avvenimenti della settimana.

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pure egualmente chiaro che esso sarà tanto più fecondo quanto più vero sarà il nostro dire e quanto più aperto il nostro ascoltare. Quanto più chiaramente vengono viste le cose della vita e quanto più acutamente l'uno sa mostrarle all'altro. Quanto poi al leggere, le nostre parole circa la realtà quanto saranno più giuste e più piene, se noi saremo in grado di dire: Agostino o Dante o Goethe ha detto così! Ma, per questo, la loro parola deve essersi aperta al nostro spirito.

Il dialogo circa i problemi significativi dell'esistenza ha la sua importanza anche per le questioni pratiche di questa. E con ciò noi arriviamo dal dialogo spirituale a quello sociale e politico. Le difficoltà più rilevanti del commercio sociale non sorgono forse dal fatto che i comunque responsabili non arrivano realmente al dialogo reciproco? La terra si fa sempre più piccola, le distanze diminuiscono, le occasioni di incontro crescono di giorno in giorno. Ma gli uomini — e questo è uno dei più maligni paradossi del nostro corso culturale così non sicuro affatto del suo progresso — sembrano farsi sempre più lontani.

Non è perciò tutto risolto — e torniamo così alla nostra questione — con il parlare, lo scrivere e il mostrare, ma ci troviamo qui davanti a nuovi problemi e compiti. Questi non si limitano all'impegno di produrre ciò che è buono, ma esigono una educazione alla corretta assunzione del buono, affinchè l'uomo non riporti danno per causa del buono stesso. Ciò che importa è che impari a leggere correttamente; a distinguere con giudizio; ad usare autodisciplina. Uno sforzo che deve cominciare già nella scuola e che non può mai terminare.

Ma così noi tocchiamo la grande questione: co-

me potrà l'uomo, dopo aver prodotto l'immensità della cultura moderna, anche imparare ad usarne giustamente: un'arte che egli sembra avere capito ancora assai poco. È la questione in cui sfociano, oggi, in realtà, tutte le considerazioni.

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Ili

DOMANDE SUL PROBLEMA DEL POTERE

Reverendo P. Rahner,

non ho certo bisogno di dirle, quanto volentieri io avrei contribuito con qualcosa di più ponderoso al suo volume celebrativo, ma al presente de'vo economizzare le mie possibilità. Perciò ho pregato la dirczione del volume di poter offrire il mio contributo in modo più frammentario, cioè con la formulazione dì domande, che assillano me stesso e dalle quali credo che anche altri siano assillati — o almeno dovrebbero esserlo. Le domande sono pure il luogo da cui può accendersi un'intuizione; per questo spero che troveranno il loro modesto posto.

Di solito si riconosce l'immagine di Dio nell'uomo nella capacità di conoscenza e di libera decisione della volontà, per quello che riguarda la natura, e nella grazia santificante, per quello che riguarda il soprannaturale.

Non sarebbe più utile dire, secondo il Genesi 1, 28, che l'uomo è l'essere a cui Dio ha dato il potere sul mondo e su se stesso ed a cui ha imposto la corrispondente responsabilità?

È l'uomo « compiuto » nella sua. determinatezza fisico-psichica, oppure giacciono in lui possibilità non ancora storicamente realizzate?

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Sarà l'uomo compreso più lettamente — e più fruttuosamente — se viene inteso come una struttura certamente in divenire, ma predeterminata nelle sue proprietà, oppure come un insieme di possibilità, che vengono formate da lui stesso e rispettivamente dall'ambiente, dalle situazioni, dall'attività professionale ecc.?

Se la risposta a queste due domande suona: l'uomo deve essere inteso come potenzialità ontica o anche, per determinarlo più strettamente, in quanto tale, allora in quale rapporto sta ciò, che noi chiamiamo potere, con la realizzazione di questa potenzialità e perciò con l'adempimento dell'intenzione creatrice di Dio?

Non appartiene anche al fenomeno del potere quello dell'impotenza — secondo che in una determinata situazione ci sono uomini che reagiscono ad essa psicologicamente e moralmente, oppure non lo fanno — e sempre secondo la maniera con cui lo fanno?

Quale significato acquista il momento dell'impotenza di fronte al potere oggi così enormemente crescente?

Può l'uomo sostenere un potere grande a piacere ed elaborarlo positivamente dal punto di vista psicologico?

Può egli, dal punto di vista etico, prendere la responsabilità di un potere grande a piacere? È possibile che il suo potere sorpassi la misura di

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ciò che è esistenzialmente sostenibile e che l'uomo soccomba ad esso?

Dove bisogna osservare che per « potere » si deve intendere non solo quello politico ed economico, ma anche il potere tecnico, scientifico, artistico e in genere culturale.

Ha la realizzazione esistenzialmente positiva del potere presupposti religiosi, così che veramente essa sia possibile solo nella religiosità — nel timore di Dio?

Quando giunge il potere ad un momento patologico o patogeno? e come appare allora la situazione? C'è una pedagogia o terapia della volontà di potere patologicamente minacciata o minacciante?

Quando il potere diventa demoniaco? Lo è forse già oggi, se si considera la sua sfrenata crescita attraverso la scienza, la tecnica, le possibilità di influsso sociale ecc., ma oltre a ciò la minacciosa spensieratezza che domina sotto questo rapporto? E forse non solo presso « gli altri » — poniamo i comunisti —, ma anche « presso di noi »?

È la capacità dell'uso positivo del potere determinata storicamente? O, all'opposto, la sua misura

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determina la storia e rispettivamente le sue diverse fasi?

Ci sono criteri per giudicare se la misura dell'attuale potere è troppo grande per le possibilità degli uomini interessati o rispettivamente della fase storica interessata? E se ci sono — quali sono?

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Se c'è la brama di potere errata dal punto di vista psicologico ed etico, c'è anche, allora, la brama psicologicamente o eticamente errata di sottostare al potere?

Come angoscia di fronte al suo gravame oppure alla responsabilità per esso? Come voglia di soffrire sotto la violenza?

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In che rapporto sta il crescente potere dell'uomo con la Provvidenza? E precisamente, quando si prende in considerazione la possibilità dell'uso pervertito del potere, come anche la ritrosia pavida all'uso del potere in generale?

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È lecito esercitare .potere su di un uomo? Si può, o si deve dire che il vero progresso cultu-

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rale ed etico significa una diminuzione di tale esercizio di potere?

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In che rapporto sta il potere con l'autorità? Se la caratteristica e la natura dell'esercizio dell'autorità rappresentano un compito morale per gli stessi soggetti rivestiti dell'autorità, è implicato allora nel senso di questo compito, di far regredire sempre più il potere?

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C'è un mutamento storico nella maniera, con cui viene realizzato il momento del potere dell'autorità politica statale? -

Forse così, che fin alla fine circa/del secolo scorso il detentorc del potere avesse avuto il carattere del-l'« eminenza » (Hoheit), poi invece il suo esercizio assumesse il carattere del « servizio », nel quale gioca insieme il concetto di umiltà?

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Può essere che l'atteggiamento rivoluzionario avvertibile dappertutto sia diretto fondamentalmente non contro un'autorità munita di potere, ma contro la forma dell'« eminenza », e che richieda invece la forma di servizio?

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Si da oggi un'educazione per il retto uso del potere?

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Dove dovrebbe inserirsi tale educa2Ìone? In quale maniera dovrebbe operare? Quali sarebbero i suoi princìpi e fini?

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C'è un'ascosi del potere?

È realistico o utopico il pensiero che si dia la rinuncia alla conquista possibile del potere, forse persino l'esigenza etica di tale rinuncia — ciò che anche significherebbe che si dia l'esigenza etica di rinunciare a determinate conoscenze che accrescono il potere, oppure alla loro divulgazione? In che rapporto sta la domanda col principio moderno dell'autonomia della scienza e della cultura?

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L'immagine di Cristo in croce, nel suo più profondo significato, non significa anche la rinuncia al potere?

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È possibile che il crescente potere dell'uomo diventi strumento della fine del « mondo » e del giudizio?

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IV IL FENOMENO DEL POTERE ft

Una parola che nelle considerazioni sia teorico-culturali, sia pratico-politiche del nostro tempo, ritorna spessissimo, è quella del potere *''•'. E non senza fondamento, perché questa realtà ha raggiunto una misura tale da caratterizzare in modo particolare la nostra situazione storica. Perciò è certamente utile delineare con accuratezza il significato del termine.

E ciò tanto più in quanto viene adoperato con molteplici sensi. Si parla della potenza d'una grande montagna, del leone come di un animale potente, del potere di un'abitudine. Noi dunque cercheremo di determinare il fenomeno, espresso nel termine/ partendo dal suo significato generalissimo per arrivare a quello specifico. Nei vari passi di questa determinazione, noi accenneremo anche ai problemi presenti in questo fenomeno.

In senso generale potere significa la possibilità di un ente a fare una azione. Il suo fenomeno appartiene dunque non all'ambito dell'essere sostanziale, ma a quello dell'energia e dell'atto. Esso si radica na-

* Relazione tenuta al XVII Convegno del Centro di Studi Filosofici tra Professori Universitari - Gallarate 1962, in « Potere e Responsabilità », Morcelliana, Broscia 1963 pp. 29-38.

** Cfr. il saggio dell'Autore, II Potere, Morcelliana, Brescia 1954.

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turalmente nell'essere. Viene determinato volta per volta dalle proprietà e dalle strutture del medesimo, ma non è identico ad esso. In questo senso generalissimo ha potere tutto ciò che è, perché ogni ente è operativo. Non si da un puro esistere. L'essere è così strettamente relazionato al potere che, come ci dice la fisica, le ultime particelle dell'atomo possono essere viste tanto sotto la prospettiva dell'essere statico, quanto sotto quella dell'energia. Perciò sempre secondo questo punto di vista appaiono tanto come massa (corpuscolo), quanto come unità energetica (onda) e formano le ultime determinazioni della, realtà fra loro dialetticamente opposte. Parlando concretamente; una pietra è attiva, ad esempio, sotto forma di pressione che, per influsso della gravita, esercita su quanto le sta sotto. Una corrente elettrica produce effetti a volte di enorme portata. Questo però non è ancora ciò che intendiamo, quando vogliamo ben definire il fenomeno del potere. All'azione che procede dalla cosa inanimata e dall'energia dei non-viventi manca quel carattere di interiorità che noi riteniamo a priori collegato con il concetto di potere. Quell'azione appartiene a quel complesso di trasformazioni dell'energia, che penetra tutta la natura inanimata e ne forma l'unità dinamica.

Quando noi parliamo di potere, intendiamo un'attività che deriva dallo spazio intimo di un ente. Cioè:

esso sta in rapporto con la vita. Soltanto un vivente può avere potere, perché soltanto in esso esiste iniziativa.

Con ciò intendiamo dire che l'attuazione dell'energia non ha, come avviene in un processo chimico o in un evento fisico, il carattere di una catena causale che coinvolge l'ente considerato, ma che l'atto ope-

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rativo risulta da una sfera interna all'ente in questione. In senso approssimativo possiamo dire che nella pianta esiste un tipo di potere, e precisamente quello di crescere, di penetrare nel suolo, di assorbire gli elementi nutritivi, di emettere odori, di attirare gli insetti con il suo profumo, di produrre semi, ecc.

Ma tutto ciò rivela sia nel suo nascere, sia nel suo evolversi un carattere di necessità. Così l'elemento dell'iniziativa si realizza in modo imperfetto. Si tratta di pura causalità fisica: solo che non si compie, come nelle realtà inanimate, in una realtà « esterna » direttamente data, ma dall'interno verso l'esterno.

Nell'animale il momento dell'iniziativa si realizza ad un livello più perfetto. Esso si muove da un luogo ad un altro; insegue, afferra la preda, la consuma;

costruisce abitazioni, come caverne e nidi; elabora strumenti che servono a determinati scopi, come la rete del ragno, ecc.

L'impulso a parlare di potere è qui molto più vivo che nel caso della pianta. L'iniziativa scaturisce da un livello interno « più profondo », orientale da determinati istinti e organi percettivi. Sia per la qualità, sia per la gradualità essa ha possibilità incomparabilmente maggiori, le quali sono così grandi che un osservatore è sempre tentato di parlare di intelligenza e di consapevole finalità. Tuttavia non possiamo ancora parlare di vero e proprio potere, perché questa iniziativa dell'animale, così nel suo primo sorgere, come in tutto il suo arco operativo, è dominata dalle necessità della propria disposizione naturale e dal proprio ambiente. Appena uno parla di potere in un animale, siamo già nel mondo delle favole. Esopo e La Fontaine parlano dell'animale,

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come se avesse potere, per spiegare con ciò certi processi etici dell'uomo.

Possiamo parlare di potere in senso proprio soltanto dove il momento dell'iniziativa raggiunge il suo pieno significato, precisamente nella libertà, cioè nell'uomo. Determinano la libertà due momenti, che si condizionano reciprocamente. Il primo consiste in ciò che il portatore dell'atto, il soggetto, nell'atto sia intimo a se stesso; che possega la propria particolare energia e nella sua attualizzazione se stesso. Il secondo in ciò, che il soggetto in atto trascenda se stesso e quindi sia in grado di disporre della propria energia. Le due cose assieme si chiamano libertà. Noi possiamo parlare di potere in senso stretto soltanto là, dove l'energia viene attuata nella libertà. Ma soltanto l'uomo possiede la libertà. Pari-menti l'interiorità, da cui scaturisce l'iniziativa, rag-" giunge il suo pieno significato solo nell'uomo. E precisamente ancora attraverso due momenti. Il primo è la consapevolezza: l'uomo conosce la propria energia; detto più esattamente, egli è consapevole di se stesso nell'effettuazione dell'energia. Il secondo momento è la finalità: l'esercizio dell'energia si volge verso uno scopo e si vale di un mezzo adatto per raggiungerlo.

-La realtà, che porta e permette tutto ciò, è lo spirito. Detto con maggior precisione, lo spirito, che possiede se stesso, cioè la persona. Il potere è un fenomeno umano. Noi qui prescindiamo sia dalla questione se vi siano esseri sovrumani che esercitano potere, come gli angeli e i demoni; sia dall'altra, come sia la natura del potere dell'Essere assoluto, cioè di Dio. Potere quindi significa la possibilità esistente nella natura dell'uomo di pensare, di sceglie-

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rè e di realizzare azioni che scaturiscono dalla propria iniziativa.

Con ciò viene anche detto che per un vero esercizio del potere è necessario possedere la natura normale e formata dell'uomo.

Un bambino attraverso lo stimolo del suo inconscio, l'immediatezza e la ingenuità del suo desiderio, può produrre azioni di grande importanza; però non esercita propriamente potere, ma soltanto lo irradia dal proprio interno. Allude a! futuro del proprio potere, ma per ora Io contiene soltanto come in geme. Un minorato può, con una straordinaria concentrazione, volere e realizzare qualcosa, tuttavia non è vero e proprio potere, perché, dove agisce la costrizione psicopatologica, non c'è libertà e quindi neppure vera iniziativa. Il suo fare è un fenomeno ambiguo: in qualche maniera ricade nel modo di operare dell'animale, senza che il suo soggetto diventi realmente animale. Di qui l'inquietante e nello stesso tempo tragica impressione della sua esistenza. Al fenomeno del potere, e quindi della libertà, appartiene la capacità, ma anche la inevitabilità, di dover rispondere di sé e della propria iniziativa. Qui l'operante iniziativa non ha soltanto il carattere di causa, ma quello di autrice. Ciò che accade, accade soltanto perché il soggetto lo vuole. Così al vero concetto di potere si collega direttamente quello di responsabilità.

La vera realtà del potere è già radicalmente un rilevante fenomeno etico. Nietzsche ha eretto « l'innocenza del fare » a supremo valore: il completo fare umano raggiunge un carattere di necessità, che è oltre il bene e il male, svincolata da ogni valutazione etica. Il pensiero è altamente contraddittorio perché

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cerca di portare lo stato della persona nella pura necessità dell'essere naturale. È il malinteso del non posse peccare dell'uomo perfetto, il quale nasce dalla completa unione della volontà con la grazia della vita eterna: della naturalezza del santo. Oppure del carattere di piena spontaneità che all'occasione si nota nel modo di agire di un uomo felicemente dotato. In verità l'uso della forza è sempre sottoposto al criterio etico.

L'analisi condotta fin qui ha risposto alla domanda da qual soggetto è retta l'azione che merita il nome di potere.

La risposta fu data: è l'uomo. Soltanto l'uomo, non appena il concetto di uomo si afferra nel suo pieno significato, può avere ed esercitare potere. Ora dovremmo cercare di che genere sia l'energia che sta a disposizione dell'uomo.

Le energie del mondo inanimato sono radicalmente ed univocamente determinate. Si tratta sempre di energie di natura: gravitazionale, elettrica, ecc. Esse operano insieme e insieme producono quel tutto, quell'effetto totale, che si chiama « mondo ».

L'individuo animale è già un intreccio di diversi tipi di energie. Dalla natura specifica dell'animale in questione sono determinate le sue necessità, la sua attività, il suo ambente. Ogni specie animale ha relazione con una determinata parte della totalità del mondo, emerge da essa ed opera in essa.

All'essenza dell'uomo appartiene la totalità del rapporto col mondo. Naturalmente l'uomo singolo, e così pure, in grado via via maggiore, un gruppo sociale, la popolazione di un paese, sono l'uomo — o la popolazione — di una ben definita epoca sto-

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rica. Ma ciò soltanto fino ad un certo punto, perché l'uomo ha la possibilità di trascendere i propri limiti primariamente dati. O personalmente, attraverso l'esperienza, lo studio, l'esercizio, ecc., oppure attraverso il prolungarsi di una generazione nell'altra, di una fase storica in un'altra. Da qui la storia sia individuale, sia generale può essere definita come l'ampliamento continuo di relazioni, che l'uomo ha con il mondo. L'uomo è, nella sua forma (Costali) individuale, la potenziale analogia della totalità del mondo (microcosmo).

Le diverse energie del mondo si ripetono nell'uomo. Ma esse assumono in lui un nuovo carattere, perché entrano nello spazio della libertà. Con ciò esse perdono quei legami, attraverso i quali sono inserite nel mondo non-umano, acquistano una nuova mobilità; possono crescere fino ad un'intensità ed una estensione del campo operativo non calcolabili a priori. D'altra parte esse perdono quella sicurezza, che è propria dei vincoli naturali delle leggi.

Nello spazio della libertà umana, l'energia diviene potere. Ma proprio per questo diventa anche fino ad un certo grado arbitraria. Come potere, l'energia diventa possibilità di possedere, di dominare, di plasmare, di creare, ma anche possibilità di errare, di eccedere, di distruggere. La storia è caratterizzata da questa realtà di fatto. Essa è l'insieme organico degli accadimenti che l'uomo compie con le energie del mondo diventate in lui libere.

Per meglio chiarire questa realtà di fatto nella sua totalità, caratterizziamo con maggior precisione i suoi elementi.

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Nel mondo umano appaiono anzitutto le energie chi-mico-fisiche. Esse sono costituite dalla sua massa, dalla struttura del suo sistema osseo e dei suoi muscoli, dalle sue possibilità motorie, dai suoi organi sensitivi, ecc. Ciò che accade nei non-viventi, nella pianta, nell'animale, si ripete nell'uomo.

La misura e l'estensione di tali energie sono dapprima limitate. In confronto a certi fenomeni naturali, come temporali, tempeste, processi vulcanici, energie dei fiumi e del mare, ecc., l'uomo è debole, esposto al pericolo della distruzione. Così anche in paragone a molti animali egli è indifeso. Però può rafforzare le sue forze immediate, facendosi degli strumenti in base alla conoscenza delle leggi fisico-chimiche.

Mentre lo strumento resta inserito nel contesto diretto dei movimenti del corpo e delle capacità operative, la macchina invece si svincola da questo contesto. Essa si impadronisce d'una energia naturale e ne dirige l'azione verso determinati fini. Essa produce così attraverso un ciclo di funzioni autonome, ciò che l'uomo con la forza del proprio corpo non vuole o non può produrre.

Diverse macchine con scopi talvolta specializzati vengono adoperate in un complesso organico in cui l'una prepara o continua l'azione dell'altra. Così risultano quei grandi e complicati organismi, che noi chiamiamo fabbrica, sistema di fabbriche, o, prese nel loro complesso, industria di un paese.

Finalmente nell'automazione la catena delle azioni è a tal punto calcolata che l'uomo ha soltanto un compito di controllo: il lavoro si svolge da sé solo. Questi congegni tecnici possono sempre più obicttivarsi e costituire un complesso sempre più ampio.

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Ma nella sua essenza tutto questo rimane inserito nell'esistenza dell'uomo. Con ciò le energie chimi-co-fisiche della natura vengono inserite nel suo potere e determinate dalla sua libertà.

Un altro tipo di potere è quello sociale. Gli individui umani sono legati tra loro da dipendenze diverse: nascita, educazione, difesa, divisione del lavoro, mutua assistenza, ecc. Ciascuna condiziona una parte del potere di colui dal quale dipende un determinato risultato. Nella compagine del tutto sociale si formano così campi via via più vasti di esercizio di potere, con relativi centri, come imprese, direzioni di vario genere, fino a culminare, in ultima istanza, nelle diverse forme del dominio politico. Qualcosa di analogo avviene nelle relazioni econo-miche. Chi ha beni di cui un altro ha bisogno, esercita con ciò un potere su di lui. Questo potere si articola nelle innumerevoli forme di produzione e distribuzione dei beni, le quali si concentrano egualmente in punti d'assorbimento di estensione e d'importanza crescente.

L'uomo possiede potere psicologico. Esso è presente nell'azione che un afletto, una passione, un desiderio esercita direttamente sopra un altro uomo. Letizia, lutto, entusiasmo, scoraggiamento, collera, risolutezza operano per se stessi su altri uomini, provocando i medesimi sentimenti o i loro contrari.

Un'azione particolarmente forte viene esercitata dall'istinto sessuale, a partire dal desiderio fisico al-VEros più sublime. Esso sollecita nell'altro la risposta: acconsentire o resistere.

Un nuovo carattere assume l'energia psichica nelle diverse forme della suggestione. Qui l'agente, con la concentrazione della sua volontà, con la scelta e la formazione dei motivi e delle rappresentazioni utili

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allo scopo, accresce, diminuisce, guida l'iniziativa dell'uomo su cui si dirige, subordinandola alla sua volontà. L'energia di questa influenza può assumere gradi e forme diversissime, come mostra, tra l'altro, la propaganda, la pubblicità, l'incidenza dell'opinione pubblica, ecc. Nel caso della suggestione perfetta, cioè dell'ipnosi, l'uomo succubo viene completamente inserito nell'ambito sentimentale e volitivo dell'agente e ridotto ad organo della sua volontà.

L'uomo possiede ciò che chiamiamo il potere della personalità. Un fenomeno molto complesso, che abbraccia diversi elementi: da un lato caratteristiche corporee, come fisionomia vigorosa, determinate forme dell'atteggiamento e movimento del corpo, ecc.;

dall'altro elementi psicologici: come forti sentimenti, energia e decisione di volontà, chiarezza di concezione di vita, ecc.

Dobbiamo dire la stessa cosa di ciò che noi possiamo denominare intensità dell'essere. II termine « essere » è un verbo; indica l'atto fondamentale per il quale l'uomo realmente è, si afferma come realtà e si impone alla coscienza dell'altro. Anche egli esercita attività, fa sì che l'altro, anche se inferiore, si assoggetti, approvi la particolare dirczione della volontà, lasci cadere gli impulsi opposti, ecc.

L'uomo opera attraverso momenti spirituali. Attraverso la verità riconosciuta ed espressa nella parola; tanto più forte, quanto più chiara è la conoscenza, quanto più giusta e convincente la parola. Esso opera con la forza motrice delle idee tanto più intensamente, quanto più puntualmente esse colgono la situazione spirituale o psicologica dell'ascoltatore;

quanto più esse sono « a tempo » chiamate da condizioni di emergenza; quanto meglio si inseriscono nella corrente della storia.

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Egli opera con l'esemplarità, in quanto realizza in se stesso ciò che è utile, buono, nobile, ciò che accresce la vita, ecc. Gli esempi d'onesto agire e di nobile comportamento, rottamente coltivati e corrispondenti alle istanze del tempo, ma anche viceversa quelli del fare dissolvitore e distruttore esercitano un potere immenso. L'influenza educativa si basa in gran parte su questo potere; così immenso è il potete esercitato da esempi negativi, da seduzioni.

Può esistere un potere « magico », oscuro nella sua sostanza, ma reale. Come esiste un bisogno di realtà misteriose e sovrasensibili, così esiste la capacità di destare questo bisogno e di soddisfarlo o sfruttarlo in modo vero o falso (credenza negli spiriti, effetti del tabu). A questa sfera appartengono anche le capacità parapsichiche: chiaroveggenza, telepatia. Viene spontanea la domanda fino a qual punto questi fenomeni siano veri. Ora, quanto più indietro andiamo nella storia, tanto più grande diventa l'azione di queste capacità o forze, ossia il collegamento che esse contraggono con obiettive funzioni di carattere politico, culturale, tecnico. La razio-naiizzazione e meccanicizzazione dell'esistenza sembra attenuarle o reprimerle. D'altra parte la straordinaria diffusione della superstizione mostra che al posto dei veri fenomeni parapsichici entrano fenomeni falsi, come, ad esempio, nell'ambito dell'astro-logia.

C'è infine il potere religioso. Esso si radica nell'intensità dell'esperienza religiosa vissuta; nella capacità di esprimere in parole la sfera numinosa, di rappresentarla in simboli o di far risaltare sociologicamente questi simboli. Inoltre si fonda sulla esemplarità di chi sente la religione in profondità; sulla

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autenticità e purezza, con la quale egli attua la propria convinzione.

Bisogna d'altra parte notare anche quanto sia stata deleteria una religiosità deviata, falsa e impura; specialmente se si considera l'interferenza o la convertibilità degli impulsi religiosi con diversissimi stimoli di carattere sociale, culturale, patologico, ecc. Crisi religiose, sette, forme di superstizione, mostrano la vastità di tali poteri, così come li rivela l'abuso che è possibile fare d'una religiosità in sé autentica al servizio di scopi politici, economici, sociologici. Il potere religioso raggiunge il suo culmino nel fenomeno della missione religiosa: del messaggio, del segno, del miracolo.

Nell'ambito sia naturale sia culturale sarebbe da ricordare qualche altra forma di potere. Sempre si verificherebbe il fatto fondamentale per cui una determinata forma d'energia entra nel contesto vivente dell'uomo, e quindi sotto la forma determinante della libertà.

Parimenti bisognerebbe mostrare in che modo le diverse forme di potere si collegano, si trasformano Tuna nell'altra, si incrementano, si impediscono, e come poi ne nasce quel molteplice e immenso complesso che chiamiamo vita umana, la cui obiettiviz-zazione è la cultura e il cui movimento è la storia. L'aspirazione al potere forma un impulso fondamentale della natura umana ed è dato con la personalità. L'esercizio del potere è la realizzazione della persona in senso proprio.

Ad ogni fare umano, di qualsiasi genere esso sia, è connesso un acquisto di potere. Questo acquisto

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di potere è tanto vario, quanto sono varie le possibilità nell'uomo di diventare operante. Esso opera come impulso in ogni fare.

Se viene preclusa all'uomo l'effettuazione del bisogno di potere, la possibilità dell'autorealizzazione e dell'autocoscienza nell'esperienza vissuta del potere, tutto ciò costituisce una causa di decadimento psichico. Così, per esempio, la scuola di Adier elaborò tutta una teoria della psicopatologia e psicoterapia sul bisogno di potere frustrato a cui si deve cercare nuova attuazione. D'altra parte la volontà di potere può ipertrofizzarsi in megalomania, in violenza, come può unirsi ad altri impulsi e pervertirli.

Il fenomeno del potere trova un particolare completamento in quello dell'impotenza. Analizzato punto per punto esso si rivelerebbe tanto ricco, quanto quello del potere stesso. Qui possiamo dare soltanto alcune indicazioni.

Innanzi tutto bisogna fare attenzione all'impotenza puramente negativa, cioè alla semplice mancanza di tutto ciò che più sopra fu indicato come forma di potere. Essa si verifica in coloro a cui mancano salute e forza fisica, intelligenza, abilità, beni di fortuna, posizione sociale, ecc. Essa costituisce in primo lungo uno stimolo per la volontà di potere del forte e per i fenomeni derivanti della violenza, dell'astuzia.

Questa deficienza può anche diventare, in colui che la soffre, un impulso a compensarla con l'esercizio, con la saggezza, con la profondità e la maturazione etiche. Da ciò nasce secondariamente una nuova forma di potere: quella dell'uomo che ha strutturato

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la sua vita in una dimensione etico-personale. Il fenomeno si presenta diverso là dove l'impotenza del debole, del sofferente, dell'indigente può appellare ai sentimenti altruistici, presenti nel forte, sano, ricco. Esso produce nell'uomo sensibile un immediato senso d'obbligazione, che possiamo chiamare « imperativo altruistico » e che può condurre a grandi prestazioni di generosità disinteressata. Così le debolezze e le deficienze umane, quanto più grandi sono, si trasformano in energie indirette tanto più decisamente operanti.

Nel rapporto delle generazioni tra loro, la debolezza del bambino diviene un richiamo che opera direttamente sui genitori, educatori, sugli adulti in genere, supposto naturalmente che questi siano sensibili al sentimento di responsabilità. Qualche cosa d'analogo avviene per le persone anziane; Anche qui l'impotenza si trasforma negli altri, quando siano sensibili ad essa, in una nuova forma di potere.

Una particolare forma di « potente impotenza » nasce in ordine ai valori elevati della persona e dell'opera. L'uomo, a cui il disinteresse, la nobiltà, la elevatezza di sentimento impediscono di esercitare un potere di carattere immediato, opera tuttavia attraverso una specie di vincolo morale (uerpflichlend} su chi è sensibile a quei valori. Ne nasce un engagement e quindi un potere secondario, che può condurre a prestazioni elevate.

Qui si fonda tutto ciò che noi possiamo chiamare « cavalleria », un immediato sentimento d'obbligazione nell'uomo di sentimenti elevati di fronte a certi valori che da se stessi non riescono ad imporsi. Per esempio, egli soccorrerà un uomo nobile' che sta per soccombere nella lotta di ogni giorno, oppure

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lotterà per conservare una bella opera ' artistica 6 culturale minacciata da interessi materiali.

In tale contesto rientra quell'efficacia tutta particolare esercitata dall'assenza di violenze nella lotta politica. Gandhi ha disarmato la potenza coloniale inglese con l'unire alla richiesta di libertà del suo popolo la perfetta rinuncia all'esercizio della forza e rese tutto ciò degno di fede con il suo personale disinteresse, con il rifiuto d'ogni astuzia, con la sua lealtà e con la fede nel buon diritto della sua causa. Con ciò egli pose il suo avversario in un vero e proprio stato di costrizione, obbligandolo a scegliere fra la brutalità e la dignità. Ma evidentemente presuppose in tutto ciò, a dispetto di tutta la durezza degli interessi politici ed economici, Vethos della cultura occidentale. Questo appello non avrebbe avuto effetto, per esempio, sul cinico realismo della politica totalitaria.

In modo simile opera il contegno del martire religioso che non si difende, ma rimane fedele alla sua fede. Anche egli mette a lungo andare il suo avversario nella situazione dilemmatica tra l'essere spiritualmente ed eticamente inferiore e la necessità di concedere la libertà richiesta. Allo stesso modo influisce la povertà volontaria che rinuncia al potere economico o il perdono che sa rinunciare alla vendetta.

L'impotenza, rappresentando i valori che sono evidenti in se stessi e fondendoli con le elevate qualità morali del suo difensore, diventa una potenza sull'altro. Essa lo mette nella situazione di comportarsi da barbaro, oppure, riconoscendo i valori di cui andiamo dicendo, di comportarsi da generoso e di porsi quindi eticamente sullo stesso livello dell'impotente.

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Bisognerebbe mostrare in. particolare i presupposti di carattere psicologico, etico, storico-culturale necessari, affinchè l'appello all'impotenza venga percepito e seguito. Ma d'altra parte indicare anche quando l'appello perde la sua forza, quando diventa inautentico, irreale, nel falso senso idealistico o contraffatto in tecnica e astuzia.

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IL SERVIZIO AL PROSSIMO IN PERICOLO

Se si cercasse una proposizione, che esprimesse brevemente e chiaramente, su che cosa si fondano tutte le forme del soccorso, sia individuale sia organizzato, forse si perverrebbe alla seguente: « Ecco un uomo in bisogno; dunque io devo soccorrerlo ». Semplicemente così: « dunque io devo »; senza ulteriori motivazioni e dimostrazioni; come la conseguenza, che sorge dal bisogno stesso.

Forse vi domandate, perché ci sia bisogno di dirlo espressamente; ciò è pure evidente per se stesso. Ma lo è realmente?

Il giorno odierno 1 vi invita ad una riflessione; noi vogliamo tentarla in modo da lasciarci guidare dalla proposizione sopra enunciata. Vogliamo domandare, se essa è realmente per sé evidente, e in ciò faremo l'esperienza vitale di una storia. Una storia dell'umanità, che si è compiuta e si compie ancora in ciò che vi è di più vitale per essa, nel suo cuore, e che ri-

1 La conferenza è stata tenuta il 24 inaggio 1956 nella seduta annuale della « Lega delle case materne tedesche della Croce rossa » (Verband deutscher Mutterhauser vom Roten Kreuz] in Monaco.

Alcuni particolari sono stati meglio rielaborati per la stampa. Un pensiero, che nell'esposizione orale era stato solo brevemente accennato, è stato sviluppato nel paragrafo: « Una eccezione sociologica ».

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. guarda chiunque senta il grido del bisogno umano a sé rivolto.

È dunque per sé evidente la proposizione che abbiamo trovato sopra? Parecchi dicono di sì. Essi sono del parere, che appartenga alla natura dell'uomo di rispondere con un fattivo soccorso all'angustia dell'altro. Questa opinione è molto nobile e sembra esprimere l'essenza dell'uomo nel modo più bello. Ma io credo che sia illusoria. Domandiamoci in modo del tutto spassionato: l'« uomo naturale », del quale si parla, come si comporta veramente?

In verità il sentimento spontaneo non percepisce la privazione, i dolori, il pericolo dell'altro proprio in maniera che senz'altro ne venga l'impulso di andare da lui, di stargli vicino, di aiutarlo ad uscirne, ma piuttosto ne rifugge. Esso percepisce il bisogno estraneo come un disturbo del proprio benessere; come un appello al proprio portafoglio; come una richiesta di sforzo da parte sua. Uno sguardo risoluto nel proprio inferiore lo vede. E anche il più grande idealista deve constatarlo non appena viene nella situazione di dover pregare altri per collaborazione o per un aiuto in danaro in un qual-siasi bisogno. Sembiante e parole dell'interpellato gli insegnano verità molto amare.

Ma le radici di questo atteggiamento scendono molto più in profondità. Se diamo uno sguardo alle culture primitive, vedremo che la tribolazione dell'altro per lo più viene sentita come qualcosa di ostile al proprio benessere. Saremo indotti a ricordare il comportamento degli animali che vivono in società:

appena in un alveare o in un formicaio si ammala un membro, esso non viene affatto curato, ma ucciso. L'impulso, che con tanta sicurezza vien detto

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« sentimento naturale », risponde nell'uomo al bisogno dell'altro originariamente in maniera molto simile — ma si deve dire, anche peggiore, perché quel moto assume nell'uomo un carattere particolare. L'essere minacciato deve essere allontanato di là, perché non metta in pericolo anche gli altri.

Tuttavia, la questione del come e perché ci conduce ancora una volta più a fondo. Nei tempi primitivi ogni avvenimento è penetrato di sentimenti religiosi. Con ciò non vogliamo intendere qualcosa di cristiano connesso con l'annunzio divino biblico; ma piuttosto un sentimento immediato per il mistero in ogni ente. In ogni avvenimento vengono sperimentati poteri benefici o malefici. Il dolore, l'infelicità, la malattia e la morte si presentano alla coscienza parimenti in questa maniera. Perciò anche colui che non. ne è dapprima colpito, si sente minacciato da quelli. Nel bisogno estraneo, egli vede l'azione di potenze sdegnate o malvagio, e il suo sentimento gli dice: Tienti lontano; esso potrebbe assalire anche tè!

Così appaiono in realtà i sentimenti naturali. E basta guardare solo nel nostro immediato passato, per constatare come essi siano di nuovo emersi nella più moderna contemporaneità nella maniera più elementare. Ma di ciò riparleremo più ampiamente. Quando realmente all'angustia altrui risponde un impulso spontaneo al soccorso? Quando essa colpisce una persona, che appartiene a noi stessi. I genitori sentono così, quando il loro bambino si ammala;

gli sposi fra di loro; l'amico per l'amico; il padrone per i suoi servi...

Ma che cosa ha luogo realmente in questi casi? L'altro uomo allora non è il « prossimo », davanti al

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quale si desti la « naturale » solidarietà della comune umanità, ma ciò che agisce è l'immediato legame del sangue, dell'interesse, della simpatia, delle diverse relazioni di fedeltà, che legano gli uomini. Il sentimento per la propria vita e prosperità si estende all'altro e lo trae dentro la propria sféra. Nella misura in cui non esiste questo inserimento diretto, domina il contrario, cioè il rapporto di estraneità. E l'estraneo è per il sentimento immediato lo sconosciuto; ma, in quanto tale, il pericoloso.

Ora si potrebbe obiettare, che così poteva essere negli stadi primitivi della cultura; ma che l'uomo si sviluppa e progredisce. Il progresso rappresenta addirittura l'idea centrale della moderna visione della vita. Questa asserisce, che quanto più si dispiegano la scienza, la cultura generale, la vita economica e sociale, tanto più l'uomo stesso si nobilita. Egli sale ad una concezione sempre più alta dell'esistenza umana, ad un rapporto fra uomo e uomo sempre più pieno di significato. Così egli diventa anche sempre più sensibile per il bisogno dell'altro, e a poco a poco nasce appunto quel sentimento fondamentale, che abbiamo espresso nella proposizione:

« Ecco un uomo in bisogno, dunque io devo aiutarlo ».

È vero ciò? Io non credo. È un'ideologia. L'uomo moderno, a cui sfuggono sempre più i valori assoluti, cerca di sostituirli con l'illusione di un futuro perfetto, a cui egli continuamente si avvicina. Ciò è del tutto chiaro ad una considerazione realistica e schietta della realtà. Ormai abbiamo abbastanza esempi, che popoli molto elevati culturalmente, che hanno già dietro di sé una lunga storia di pensiero e

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disviluppo sociale, non accettano affatto questa proposizione; ma il tempo è troppo breve, per entrare in questo discorso. In ógni caso presso di noi in Occidente la cosa non è andata così. L'impulso decisivo presso di noi non è venuto da qualche interna tendenza di sviluppo, ma d'altronde.

Che cosa si richiede, perché quella proposizione sia ritenuta per vera?

L'ammonimento inferiore, che essa esprime, deve essere sentito di fronte ad ogni uomo. Dunque non solo di fronte a coloro che sono strettamente legati, ma anche di fronte all'estraneo; non solo di fronte al simpatico, ma anche a quello che non si sopporta; non solo di fronte al dotato e bello, ma anche all'uomo medio, anzi all'infelice; non solo davanti al ricco e al colto, ma anche al povero e al misero. Se la proposizione deve esser vera, allora l'ammonimento deve passare attraverso tutte le differenze e indirizzarsi verso qualcosa che determina l'uomo in quanto tale, comunque egli possa essere nel resto. Ma se devono essere percettibili anche differenze, allora la proposizione deve suonare cosi:

« Quanto più povero e misero è l'uomo, tanto più stringente è il dovere di soccorrerlo ».

Ma il sentimento naturale non pensa certo in questa maniera. Perché questo imperativo si faccia sentire, è necessario che sia accaduto qualcosa, che renda manifesto nell'altro uomo qualcosa al di là di tutti i moventi diretti di consanguineità, interessi comuni, valori di personalità e di cultura; qualcosa di incondizionato, che non rimanga più sotto i punti di vista di ciò che è utile, simpatico, degno di ammirazione, cioè la persona in quanto tale. Ma ciò

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non diventa chiaro per il solo sviluppo culturale. Lasciamo stare la questione, come stiano le cose in altri ambienti culturali, per esempio nelle culture asiatiche o africane; non ci è possibile porla in questa conferenza. Presso di noi, in Occidente, la chiarificazione non è comunque avvenuta in questa maniera.

Come è dunque avvenuto? La risposta non presenta dubbi per chi conosca il corso della nostra storia:

attraverso l'effetto del messaggio di Gesù. Voi conoscete la scena del Vangelo, in cui un dottore della legge vuole tentare il Signore e gli chiede, quale « sia il più grande comandamento » (Mt. 22, 37 ss.). Egli risponde con le parole dell'Antico Testamento: « Tu devi amare il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente » (Deuf. 6, 5) e soggiunge: « Questo è il primo e più grande comandamento; il secondo è simile ad esso: Tu devi amare i tuoi prossimi come tè stesso » (Lev. 19, 18).

Questi « prossimi » per l'Antico Testamento erano i mèmbri del proprio popolo; e anche fra di loro venivano fatte ulteriori distinzioni dalla casistica dei dottori della legge: fra libero e schiavo, fra periti nella legge e indotti e simili. Così vediamo anche che il Fariseo vuoi mostrarsi superiore e domanda ancora: « II mio prossimo — chi è? ». Gesù allora risponde con la parabola del buon Samaritano (Le. 10, 29). Con ciò egli spezza tutti i limiti di popolo e gruppi sociali, possedimenti e cultura e mostra come la prossimità si realizza fra il ferito, che è un giudeo, e il viandante, che è un samari-

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tano — dunque fra due gruppi di popoli, che si odiano e si disprezzano a vicenda. Ma ciò significa:

fra colui, il cui cuore si apre al grido del bisogno, e colui, che ha bisogno del soccorso. La risposta di Gesù alla domanda del dottore della legge è questa: il tuo prossimo è colui che necessita del tuo aiuto. Ma, poiché allora il precetto diventerebbe illimitato, il concetto di prossimo deve essere determinato ancor più precisamente, cioè praticamente, dagli avvenimenti concreti e quindi significa: II tuo prossimo è colui che ti è assegnato dalla situazione concreta. Quanto poi a questa stessa situazione, il suo significato è in strettissimo rapporto con l'annuncio di Gesù sulla Provvidenza: II Padre celeste è colui che nel corso della vita conduce a tè questo uomo, affinchè tu lo soccorra.

Ora quell'incondizionato, di cui si parlava prima, acquista la sua chiara espressione. Le differenze sono eliminate, e rimane solo l'essenziale: l'uomo, che ha bisogno di aiuto; l'altro che può aiutare; la situazione nella quale il primo è mostrato al secondo e in cui si esprime la disposizione di Colui che governa la storia di ogni uomo.

Dietro a tutto sta il fatto, che gli uomini non sono individui di una specie animale, ma persone, create da Dio con una chiamata e posti nel rapporto lo-Tu con Lui, rapporto che si continua in quello fra uomo e uomo. Ma la chiamata, che percepiscono quanti hanno il cuore disposto: « II tuo prossimo è in bisogno, quindi aiutalo! », rappresenta l'espressione di questo rapporto. In essa parla Colui, che ha fondato questo stesso rapporto.

Ma non abbiamo ancora raggiunto l'ultima profondità della parola di Gesù. Nel capitolo XXV del Vangelo di san Matteo egli dice: « Tutto ciò che avete

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fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete fatto a me » (v. 40). Le parole hanno un significato immenso. Esse spazzano via tutte le differenze, che il sentimento naturale avrebbe potuto fare. In primo luogo perché come destinatario del preteso comportamento viene considerato « il più piccolo » — quindi colui che non può far valere per sé nessuno degli interessi, che sono motivo naturale a soccorrere: ne ammirazione, ne simpatia, ne utilità. Ma poi perché là dove è l'altro uomo, appare Gesù stesso. L'essere umano è molto problematico. Nel suo apparire concreto sta in una grave e spesso insopportabile sproporzione con la pretesa avanzata dall'imperativo del soccorso e provoca tutte le forme dell'incomprensione e della ribellione. Questa sproporzione viene abolita col fatto che nella persona del bisognoso appare Gesù stesso. Secondo il suo messaggio, noi siamo fratelli fra di noi, perché Egli ci ha fatti suoi fratelli e sorelle, figli e figlie di suo Padre. Così Egli si avvicina ad ognuno di noi e con ciò dona alla persona umana il carattere dell'assoluto. Egli si costituisce l'ultima motivazione di ogni richiesta che si eleva da uomo a uomo. Per suo mezzo l'imperativo del soccorso diventa propriamente « categorico ».

Il capitolo XXV del vangelo di san Matteo sopra ricordato contiene l'annuncio da parte di Gesù del giudizio alla fine del tempo. In questo giudizio, l'uomo sarà giudicato sopra ciò, se e come egli deve aver parte con Dio. In esso l'essere umano — quello del singolo, come anche quello della collettività, cioè la storia — riceve la sua ultima definizione. Poiché la storia non si definisce da sola. Se lo facesse, se fosse il suo proprio giudizio, allora essa dovrebbe andare diversamente da come va. Il giudi-

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zio le viene da qualcosa che è al di là di essa stessa. Ma questo giudizio secondo la parola di Gesù avrà luogo conforme a come l'uomo ha adempiuto il comando della nuova fratellanza. È detto: « Allora il Rè dirà a quelli che sono alla sua destra: ' Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato preparato dall'origine del mondo! Poiché avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete alloggiato; ero nudo e mi avete vestito; ero malato e mi avete visitato; ero prigioniero e siete venuti da me. Allora i giusti gli risponderanno e diranno: « Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo nutrito? o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo alloggiato? o nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo veduto infermo o in prigione e siamo venuti da tè? ' E il Rè risponderà loro e dirà: ' In verità vi dico: tutte le volte che voi l'avete fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me ' » (Mf. 25, 34-40).

Il carattere assoluto dell'imperativo del soccorso non poteva essere espresso in maniera più grande.

Cristo porta la chiarezza nella storia del bisogno e del soccorso. Da Lui discende la luce sul disordine che pervade tutti i rapporti umani. Egli spezza tutti i cavilli dell'egoismo e le illusioni della saggezza autonoma. Poiché Giovanni dice ancora in tutta chiarezza, che il comandamento dell'amore è « un comandamento nuovo » (1 Io. 2, 8). Ed è « nuovo » non solo nel senso che prima non fosse conosciuto, ma dopo fosse divenuto familiare, di modo che sarebbe potuto entrare nella naturalezza ovvia di una

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visione della vita, ma « nuovo » essetttialmente, in generale e per sempre.

Questo comandamento è in posizione dissimmetrica rispetto tutto ciò, che sarebbe potuto emergere dai contesti naturali dei rapporti umani, di natura biologica, psicologica, sociale e culturale. Esso colpisce sempre l'uomo come qualcosa che non può essere dedotto da nessun presupposto naturale ne essere trasposto fra le nozioni culturali ovvie. Esso deriva dalla sapiente interiorità di Gesù, esige fede, domanda obbedienza e deve essere realizzato nel superamento della pura natura.

Ma allora accade qualcosa di strano — e io vi prego di prestare tutta la vostra attenzione a ciò che sto per dire, perché in esso diventerà chiaro qualcosa che qui ci riguarda molto da vicino.

La fede in Cristo, nella fratellanza dei redenti in Lui e nella vicendevole responsabilità, come si sviluppa sulla radice di questa comunità, era un possesso comune fino alla fine del medioevo. Naturalmente più o meno chiaramente cosciente, più o meno approfondito con coerenza, più o meno fedelmente e generosamente seguito — tuttavia rappresentava la visione, che era normativa nell'Occidente. All'inizio di quella che chiamiamo l'epoca moderna, gli spiriti si dividono. Larghe cerehie pervengono all'opinione che si possa vivere anche senza la fede cristiana. Forse ciò proveniva dalle concezioni, che l'uomo andava imparando a conoscere dallo studio degli antichi pagani; o dall'immediata esperienza dei rapporti umani; o dai risultati delle scienze che

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venivano sorgendo prepotentemente. E che vivere senza la fede cristiana non solo sia possibile, ma che soltanto in questa maniera si sarebbe sviluppata una vita genuina — e con dò anche un ethos autentico delle relazioni fra gli uomini.

Questo sembra poi anche confermarsi. Viene approfondito il concetto dei diritti dell'uomo, e ne vengono dedotte le conseguenze dal punto di vista giuridico, sociale, economico. Sorge così un'etica della stima diretta dell'altro e della responsabilità nei suoi confronti. La comunità si sente obbligata di porre rimedio al bisogno nelle sue diverse forme. Vengono create istituzioni ed organizzazioni di ogni specie, che si prendono cura dei poveri, dei malati, degli abbandonati. La lotta contro la sofferenza e l'indigenza umane diventa un dovere naturale della cosa pubblica, che da parte sua impegna a _ questo scopo gli strumenti della scienza, dell'ordine sociale, della tecnica dell'organizzazione. La proposizione, di cui abbiamo parlato al principio, sembra diventare realmente un elemento fondamentale dei rapporti degli uomini fra di loro.

Ma in questo stato di apparente sicurezza naturale-morale, cade come un fulmine la dottrina, che nei dodici anni del dominio nazionalsocialista viene proclamata e realizzata con la prassi corrispondente:

non ogni uomo in quanto tale ha diritto al soccorso e alla promozione, ma solo colui, che significa un valore per il popolo e lo Stato. Viene sostenuta la terribile misura per l'uomo degno o indegno di vivere: ha diritto di vivere solo colui che può presentare un tale valore. Lo Stato poi è autorizzato a giudicare quale sia a tale riguardo la posizione di ciascuno. Così si pretende il diritto di giudicare se un malato sia ancora degno di vivere,

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se debba essere serbato in vita o no. Si ha l'orribile coraggio di uccidere innumerevoli uomini, ai quali viene negato questo diritto alla vita: pazzi, minorati mentali, inguaribili, inabili al lavoro, vecchi. Anzi, si va anche tanto avanti da giudicare sul diritto alla vita di interi popoli, da dichiararne alcuni indegni di vivere e sterminarli con una freddezza di sentimento e una esattezza di tecnica, di cui non c'è esempio in tutta la storia, che pur non è povera di orrori.

E tutto ciò nel nome della prosperità del popolo, dell'utilità comune, dell'ascesa umana verso una sempre più alta perfezione corporea, spirituale, culturale.

È stato detto che ciò è stato la barbarie di alcuni pochi, nei quali si era effettuata la pericolosa combinazione di delinquenza e follia fantastica. Chi pensa così, non ha compreso nulla di ciò che è accaduto.

In primo luogo non erano solo pochi coloro che hanno pensato e agito in questo modo, ma grosse organizzazioni erano state costituite, in cui erano attivi moltissimi. Ma inoltre — e questo ci interessa qui — in quegli avvenimenti ha avuto compimento qualcosa che si preparava da lungo e che si chiama secolarizzazione del cristianesimo.

La dottrina cristiana della dignità divina e del valore eterno di ogni uomo, e quindi anche del dovere di soccorrerlo, era divenuta patrimonio pubblico, come abbiamo visto. Ma inoltre essa si era sempre più separata dal fondamento che le aveva dato Gesù — cioè dalla fede nell'unione, che il Figlio di Dio aveva creato col condurre gli uomini alla figliolanza del Padre suo. La coscienza di questa unione era sempre più impallidita e alla fine del

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tutto scomparsa. Era rimasta solo un'etica generale, che era molto pura, molto bella e appariva come il più alto sviluppo dell'atteggiamento umano. La concezione storica corrente afferma anche che la dottrina cristiana ha certamente agito in ciò come stimolante e promotrice, ma niente più. In realtà la natura umana da se stessa si sarebbe evoluta, nobilitata e avrebbe creato dal suo proprio un costume, che da allora apparterrebbe ad un possesso dell'umanità che non può andar perduto. Realmente le cose stanno in modo del tutto diverso.

La morale dell'obbligazione umana era cioè sostenuta dalla rivelazione. La proposizione: « Un uomo è in bisogno — dunque aiutalo! » aveva la sua evidenza dall'interpretazione cristiana della vita ed era vitale finché quell'interpretazione era sentita, Nella misura in cui questa impallidiva, si indeboliva anche l'evidenza deìl'eihos sociale che su di essa riposava — finché alla fine, come per un colpo di folgore, divenne chiaro che era possibile rigettare non solo la rivelazione, ma anche tutto questo ethos sociale. Cioè che era possibile sostenere e mandare ad effetto il principio che non deve essere soccorso chiunque, ma solo colui che ne è degno. Ma che ne è degno, colui che dichiarano degno l'istinto della razza, le esigenze del lavoro, i fini dello Stato. E di ciò sarebbero giudici coloro che lo Stato incarica di questo. La terribile proposizione: « È giusto ciò che giova al popolo » ricevette una seconda egualmente terribile forma: « Può vivere solo chi giova al popolo ». Ma il popolo — cioè: lo Stato e coloro che nello Stato hanno il potere — ha il diritto di decidere chi non deve essere aiutato, o anche chi deve esser messo da parte.

Questa visione delle cose umane non è solo, come

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scusando si suole dire, una rottura col passato, compiuta dall'uomo, che rappresenta una ricaduta nella rozzezza dello stadio primitivo, ma essa è sostenuta insieme da tutto lo sviluppo precedente. Positivismo, liberalismo, tutti gli sforzi per costruire una cultura senza Cristo, e addirittura senza alcuna idea di Dio, hanno collaborato al suo costituirsi. Neppure vogliamo dimenticare, come — per nominarne solo uno — Nietzsche, cresciuto nella scuola classica, aveva preteso che si debba liberarsi dalla compassione cri-tiana verso gli infelici, costruire una cultura della forza invitta e della bella natura, e « spingere ancora ciò che sta per cadere », per toglierlo dal cammino.

Queste sono connessioni che rendono molto pensosi. La nostra opera di soccorso — prendendo il termine nel senso più vasto —è in una situazione, che potrei illustrare con un piccolo aneddoto.

Alcuni anni fa nel duomo di Magonza accadde il seguente fatto: il sacrestano capo andava, senza preoccupazioni, sotto l'alta volta, quando all'improvviso cadde giù un blocco di pietra, che l'avrebbe quasi ucciso. Con molto spavento si cominciò a cercarne la causa. Si discese nelle fondamenta e si vide che la fabbrica posava su una palafitta di poderosi pali di quercia, che però erano in gran parte marciti. Finché erano rimasti circondati dall'acqua sotterranea, erano stati duri come pietra; ma in seguito alla regolamentazione del Reno l'acqua si era ritirata, i pali erano rimasti all'asciutto ed erano imputriditi. Il duomo stava ancora in piedi, ma le fondamenta erano in parte scomparse, e ci volle un

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lungo e faticoso lavoro finché il duomo fu dappertutto rinsaldato di sotto e il legno marcito sostituito con cemento... Ciò può essere una similitudine per la situazione dell'opera per il bisogno dell'altro. Vengono fatte cose immense. Ampie organizzazioni specializzate in modo articolato si indirizzano a tutti i possibili casi di bisogno. Grandi mezzi vengono impiegati per la loro eliminazione. Ma la gente dalla sensibilità più sveglia avverte che tutta questa compagine non sta più sicura. Si dubita se le sue fondamenta reggano ancora bene. I motivi minacciano di perdere di forza. La coscienza dell'obbligo di una persona verso l'altra persona diventa più debole.

E questo da tutte e due le parti. Anche la maniera con cui si pretende il soccorso diventa sempre più esigente e nello stesso tempo più spensierata. Diventa dominante il sentimento che lo Stato deve soccorrere — al posto dello « Stato » si può anche dire: l'assicurazione sociale, la cassa di malattia, l'ospedale, l'infermiera ... Tutto quel che s'è detto prova già a sufficienza, quanto fortemente noi approviamo il diritto al soccorso — ma sentiamo che qui c'è qualcosa di errato. Il soccorso non può essere fondato nella stessa maniera che un regolamento economico. Ciò che in esso accade, questa premura infinitamente diversificata, diretta agli uomini vivi, che si conforma a sempre nuove situazioni, non può attuarsi solamente per riferimento allo scopo e alla prescrizione, ma anche non soltanto alla ragione e al dovere — come neppure può essere pretesa solamente per il diritto e il pagamento. Deve esserci operante qualcosa d'altro: un appello alla libertà, un'apertura del cuore. Ma si sente il pericolo che al contrario tutto possa diventare una pretesa mec-

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conica, e che l'arte di rintracciare e sfruttare le diverse possibilità di soccorso statale, possa svilupparsi fino a divenire un elemento costitutivo della tecnica della vita.

Ma, a lungo andare, alla maniera con cui il soccorso viene richiesto, corrisponde la maniera con cui viene prestato. Anche al soccorso incombe il pencolo di tramutarsi in un funzionalismo generale; in un affare di uffici, organizzazioni, determinate prestazioni professionali, burocrazia. Non appena il soccorso viene richiesto in una maniera così chiaramente pretenziosa e abitudinaria, difficilmente esso può far altro che trasformarsi esso stesso in una pura prassi abitudinaria. Naturalmente, esso deve essere concreto e oggettivo. Corrisponde del tutto al nostro sentimento il dire: « Lascia da parte la sensibilità e procura che la terapia sia eseguita giustamente... ». Oppure: « I compiti sono così grandi, che solo una organizzazione corrispondente può essere all'altezza del bisogno; tu in essa sei al tuo posto, perciò fa tacere la sentimentalità, e compi il tuo servizio... ». Come anche è del tutto giusto dire: «Ogni lavoro è degno della sua mercede; perciò ho il diritto di domandare la corrispondente ricompensa... ». E ancora: « Ogni lavoro richiede di esse fatto nelle condizioni adatte; perciò io richiedo ragionevoli rapporti di lavoro... ». Tutto ciò è ovvio e deve essere approvato.

Ma è vero anche qualcos'altro: ciò di che si tratta, non può esser fatto solo con esperienza oggettiva, metodo scientifico, esattezza del servizio, ma alla fine solo in virtù di un'interna apertura di cuore, di una magnanimità di sentimenti, d'un disinteresse e prontezza al sacrificio, che devono venire altronde. Se essi non sono più attivi, allora va per-

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duta l'essenza di ciò che si chiama « soccorso ». Poiché questo riposa sul rapporto di persona a persona, nella libertà di chiamata e risposta, ed ha il suo ultimo significato in quella comunità, nella quale l'angustia dell'esistere unisce gli uomini da parte di Dio.

Contro ciò che abbiamo detto, però, si innalzano obiezioni, che devono essere considerate. E precisamente esse sorgono dal cambiamento della struttura sociale dell'epoca moderna. Soprattutto la straordinaria crescita della popolazione e il fattore di massa che entra in gioco in tutte le questioni relative agli uomini,

II numero di coloro che abbisognano di soccorso, cresce continuamente. Si potrebbe far valere il fatto che le condizioni generali di vita migliorano; quindi dovrebbe piuttosto diminuire la necessità del soccorso. Pure le distruzioni degli ultimi decenni sono così grandi e molteplici che già per motivo di esse si sarebbe dovuto attuare un compenso dal lato negativo. Ma, prescindendo da ciò, influisce anche il fatto che l'uomo diviene sempre più cosciente del suo diritto vitale e, per il suo senso democratico, sempre più sicuro del suo diritto al soccorso. Così propongono la loro istanza ed esigono soccorso molti stati di necessità, che nel tempo passato sarebbero stati sopportati semplicemente.

Perciò le istituzioni di soccorso si trovano di fronte ad una richiesta continuamente crescente. Ma ciò significa che le prestazioni di soccorso diventano sempre più numerose e con ciò anche il fatto del

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soccorrere prende il carattere di massa. La misura del tempo disponibile per ciascuno diventa sempre più piccola e minore diventa anche la capacità del soccorritore di soddisfare il suo bisogno; sicché non rimane altro che procedere secondo uno schema e vedere il proprio compito nel far corrispondere nel miglior modo possibile lo schema alla situazione generale. Con ciò sparisce sempre più il rapporto di persona a persona, e tutta la faccenda diventa sempre più chiaramente un « caso ».

Tuttavia in questo stato di cose non si deve vedere un semplice inconveniente, poiché in esso si esprime un autentico cambiamento di struttura. Il grande numero è ormai un fatto, ed è un fatto anche tutto ciò che ne segue dal punto di vista della psicologia sociale e di quella individuale. Perciò l'azione di soccorso non può avere più quel carattere di partecipazione personale, che è possibile solo nei piccoli numeri. Prescindiamo dal fatto che la situazione tenda ad assumere l'aspetto anche di condizioni in cui un rapporto personale sarebbe possibile; ma in ogni caso dovunque si ripercuote il carattere di massa, un comportamento realistico non può essere altro se non concretamente oggettivo.

La tragedia del soccorso sociale sta appunto in buona parte in ciò, che esso non valuta rettamente questo aspetto di massa e perciò si dedica al lavoro dapprima con una dedizione personale, che in senso stretto non è al suo vero posto e conduce poi ad amareggiamento e cinismo. Una preparazione realistica deve assumere fin dall'inizio il fatto della massa nell'atteggiamento del soccorrere. E ripensare i punti di vista sopra elaborati a questo proposito eventualmente trasformandoli nel senso che può essere donato personalmente solo ciò che può essere

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dato con autenticità; ma nel resto il rapporto con i molti deve essere sostenuto dalla coscienza che si tratta non di una massa di « casi », ma di un grande numero di persone. Da ciò risulterà un comportamento, che riposerà certo su di un'intcriore distanza, ma anche su una reale attenzione, che procede con tranquilla oggettività, ma anche con genuina amichevolezza. Colui che cerca il soccorso, forse sarà sulle prime deluso, perché egli, che per se stesso è il singolo, non viene preso come tale. Presto però si adatterà al procedimento oggettivo, perché esso appunto è giusto. Naturalmente con ciò non deve essere svalorizzata alcuna delle sollecitudini con cui si cerca di smembrare la moltitudine, per toglierle così il carattere di massa. Esse sono in rapporto agli studi per costruire le città più convenientemente; per creare dei vicinati; per rendere i centri del lavoro anche centri dove si prestino soccorsi e così via. Tutto ciò è non solo buono, ma anche necessario. Tuttavia ciò non toglierà il carattere di massa nella totalità; sicché il già detto rimane vero dovunque questo carattere è effettivo.

Un altro mutamento nella situazione sociologica e in genere culturale incide più profondamente. Esso si esprime nel sentimento che debba del tutto sparire il rapporto fra bisogno e soccorso, come esso è stato inteso finora; cioè che abbisognare di aiuto sia qualcosa di vergognoso, il soccorrere nel vecchio senso un'arroganza, e che le condizioni di bisogno debbano essere effettivamente del tutto eliminate. A questo proposito si manifesta un sentimento, che è pienamente lodevole, pur con tutte le asprezze nel singolo caso. Ciò ha diverse radici; da una parte è in rapporto con l'esigenza, propria del sentimento democratico, della considerazione per la persona

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propria, e d'altra parte con la coscienza della debolezza nell'atteggiamento personale dell'uomo d'oggi. Il soccorritore deve tener in considerazione questo sentimento. La sua condotta di fronte al bisognoso dovrebbe esprimersi forse nella seguente proposizione: « Tu sei in una condizione di necessità. A me la situazione non fa alcun piacere; ma io sono incaricato di aiutarti. Perciò noi vogliamo unirci affinchè sbrighiamo l'affare nel modo più decoroso possibile, cioè nel modo più oggettivo ». Il pericolo però, che dalla ritrosia verso il rapporto eccessivamente personale nasca un'indifferenza e dall'ogget-tività la meccanicità, potrà essere evitato tanto più — e insieme il significato del rapporto potrà essere colto con tatto tanto più sicuro —, quanto più chiaramente gli interessati conosceranno, in virtù del fattore cristiano, la dignità della persona.

Ma ancora più in profondità penetra ciò che segue. La naturalizzazione dell'esistenza continuamente crescente, il sentimento dell'auto-dominio da parte dell'uomo e inoltre l'idea del progresso conducono a considerare il bisogno come qualcosa che deve semplicemente scomparire.

Il cristiano vede nel bisogno un elemento dell'esistenza umana, come essa ormai è. Naturalmente egli si preoccupa di superarlo e gli riesce anche continuamente di farlo retrocedere; ma egli sa, che esso non sparirà mai del tutto, perché appartiene allo sconvolgimento in ultima istanza insanabile dell'esistenza umana. « I poveri li avrete sempre con voi », ha detto il Signore {Mt. 26, 11). Ma il bisogno ha acquistato un senso positivo attraverso l'intenzione e il destino redentivi di Cristo, cioè quello di essere espiazione della colpa dell'umanità. Così il credente ha il compito di entrare nella solidarietà di questa

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colpa ed espiazione, e da questa costituire la comunità nel bisogno e nel soccorso.

Il cristiano vede nel sofferente una figura degna di onore. Qui si rivela un'ultima profondità, che mette in guardia ogni cuore ben fatto, appena gli vengono presentati come misura propria dell'esistenza degna di esser vissuta salute, benessere, felicità. Egli sente che tale umanità sarebbe di necessità non solo superficiale, ma anche pericolosa, anzi inumana. Il soffrire è espressione di una verità suprema dell'esistenza umana, che conduce fino alle profondità del divino. La sorte di Cristo ne è testimonianza.

A tutto ciò contraddicono i princìpi dell'incredulità, che non solo dicono che il bisogno debba essere soccorso, ma anche che non debba esistere affatto. Da esso in definitiva non potrebbe venir fuori nessun vero valore. Sarebbe indegno dell'uomo stare in bisogno, chiedere soccorso e prestare soccorso. Ma anche esso non avrebbe bisogno di essere, poiché esso deriverebbe da un ordinamento sbagliato delle cose sociali, da idee pervertite sulla salute e malattia, da ingiusta ripartizione di possesso. Perciò il compito potrebbe consistere unicamente nelPelimi-nare il bisogno. Ogni soccorso dovrebbe essere considerato solo come qualcosa di provvisorio. Perciò anche non dovrebbe avere il carattere della spontaneità o della generosità, ma dovrebbe diventare una funzione dello Stato, che dovrebbe avvenire nella maniera più funzionale possibile e col dispendio minimo di compartecipazione personale.

Non si può negare che anche in questo modo di pensare ci siano alcuni elementi autentici. Dalla ricerca e dalla prestazione di soccorso può realmente venir fuori qualcosa di non buono e ciò avviene più spesso che non si possa pensare: un insieme di ignavia

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e pusillanimità da una parte, di autocompiacenza e di brama di dominio dall'altra. Con ciò si consolidano alcuni bisogni in uno stato, che potrebbe essere eliminato, se si prendesse un'energica iniziativa. Ma inoltre non si dovrebbe dimenticare, che l'orientamento descritto si fa una completa illusione sulla realtà della nostra esistenza e non vede la profondità dello scompiglio nelle cose umane. Come pure, che vengono distrutti valori essenziali dei rapporti umani e che l'esistenza si impoverisce in una misura non comprensibile. Ma alla fine l'esperienza degli ultimi decenni ci fa avvertiti, con quanta facilità la volontà di eliminare il dolore si trasformi in quella di eliminare gli uomini che soffrono e la cui sofferenza non può più essere superata o lo può essere solo con sincero disinteresse. Friedrich Wilhelm Forster ha attirato l'attenzione sul fatto che colui che soffre ha un importante compito nell'esistenza umana: quello di mettere in guardia coloro che non soffrono — sani, robusti, benestanti — contro i pericoli dell'egoismo, della spensieratezza, della durezza, anzi della crudeltà, che si nascondono nel suo stato. Non si comprende l'essere umano, se non si comprende quanto sia problematica la « sanità » — in tutte le sue forme, individuali e sociali, e quanto essa abbisogni di un costante correttivo.

Tutto ciò è detto per rendere visibili le complicazioni che sono implicate nel corso delle idee, di cui propriamente ci occupiamo.

Esso suona paradossalmente così: si può venir incontro realmente al bisogno, alla tribolazione, alla sofferenza in tutte le sue forme solo quando anzitutto si riconosce una buona volta al bisogno il « diritto » di essere. Il soccorso non deve consistere nella volontà di cancellare il fenomeno del bisogno,

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perché allora si genera uno stato, che non è altro che mascherato egoismo — cecità verso il reale, durezza verso gli uomini che sono in bisogno — e le cui conseguenze potrebbero essere peggiori dello stesso bisogno.

In questa breve ora abbiamo vissuto un lungo avvenimento: la storia dell'umanità occidentale nei suoi rapporti col bisogno.

Ci siamo chiariti, che cosa valga il preteso « sentimento naturale » della disposizione pronta al soccorso. Abbiamo visto che fu necessaria la rivelazione per aprire all'uomo gli occhi e risvegliarne la coscienza... Abbiamo riflettuto, come dalla fede nella rivelazione si sia sviluppato un atteggiamento d'amore umano, fondato sulla relazione con Cristo; tutto un costume dei doveri scambievoli di ognuno per gli altri, come pure della comunità per i singoli... Come poi le sue radici cominciarono ad atrofizzarsi. Gli impulsi, svegliati dalla rivelazione, certamente si ripercossero ampiamente e produssero sistemi di azione pratica ben ponderati e di grandi prestazioni, suscitando l'apparenza che tutto ciò rappresentasse un possesso dell'uomo progredito nella cultura, che non avrebbe potuto esser perduto... Ma abbiamo visto anche come improvvisamente, come un colpo di fulmine, la così celebrata natura umana sia venuta meno e abbia mostrato ciò di cui essa è capace dopo come prima...

Questo corso delle cose ci ha aperto gli occhi per qualcosa, che si compie dappertutto — certo non così violentemente, bensì senza rumore, ma per-

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ciò stesso in modo tanto più inquietante: l'erosione dei veri motivi, atteggiamenti, sentimenti, che soli possono sostenere il soccorso; il raffreddamento dei cuori e l'illanguidimento della generosità. Lo spirito del calcolo si fa avanti. Che cosa posso esigere, quando ho pagato? Come posso sfruttare nel miglior modo gli apparati sociali di soccorso? Che cosa posso pretendere quando io sono adeguatamente formato? Come posso restringere le mie prestazioni ed elevare la mia ricompensa? E così via, in tutte le riflessioni e le misure, che possono essere, a seconda dei casi, scusabili, vantaggiose, anzi perfino del tutto ragionevoli, ma con le quali viene sempre più offuscata quella proposizione originaria, su cui tutto riposa: « un uomo è in bisogno, dunque aiutalo! ». " Questa è la storia che abbiamo vissuta insieme. E lasciatemi dire con tutta l'energia, che essa vale non solo per noi, che abbiamo vissuto i dodici oscuri anni, ma per tutti.

Ciò che è accaduto in Germania dal 1933 al 1945 manifesta qualcosa, che si è compiuto in tutto il mondo occidentale e ancora si compie ed esercita la sua azione. Lasciate che siano passate alcune generazioni, che ancora hanno provato in qualche forma l'appello della coscienza cristiana di fronte al bisogno del prossimo; lasciate che l'uomo sia diventato del tutto terreno, che si sia enucleato l'uomo stabilito solo sulla sua natura e sulla sua forza, cosa per cui pure si lavora da ogni parte — e vedrete che ciò che è avvenuto in Germania in quegli anni, può in qualche maniera avvenire dappertutto. In maniera indiretta invece che diretta; più cautamente invece che più brutalmente; con fondamenti scientifici invece che fantastici; ma quanto al si-

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gnificato allo stesso modo — anzi forse anche più disastroso per il suo nascondersi sotto la razionalità e umanità.

La riflessione storica va in due direzioni. Nell'una, guarda indietro e chiede: Che cosa è avvenuto? Nell'altra, guarda in avanti e domanda: Che cosa avverrà?

Devo lasciare a voi di spingere lo sguardo nel futuro dopo le precedenti considerazioni sul passato. State però certi, che la conseguenzialità di ciò che l'uomo compie in ragione dei suoi orientamenti, è altrettanto inesorabile, quanto l'azione delle forze naturali. Appena il cuore dell'uomo abbandona il detto:

« Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete fatto a Me »; appena cerca il fondamento del soccorso puramente in motivi naturali di ragione o di umanità ciò si verificherà con la stessa conseguenzialità della rovina di un organo corporeo, contro la cui infermità non venga fatto nulla.

Colloqui con ascoltatori di questa conferenza1 mi hanno reso conscio, più chiaramente di quanto io stesso avevo già sentito nella sua preparazione, che in essa non vengono presi in considerazione importanti aspetti della questione. Ciò era inevitabile, poiché una conferenza — o più precisamente: un di-

1 II « Poscritto » è stato aggiunto di nuovo. Al conferenziere era stato a cuore spiegare un determinato corso di pensieri, che gli sembrava importante. Perciò non potè entrare a trattare di diversi punti di vista, come questi certo avrebbero dovuto essere esposti.

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scorso che si rivolge alla responsabilità degli ascoltatori, è diverso da un trattato, che sviluppa tutti gli elementi degni di considerazione e termina in un risultato ben sistemato. Quindi l'attenzione era stata diretta completamente su di una linea, che risalta nella storia del bisogno umano.

Ma la lealtà verso il problema esige un accenno ad aspetti, che possono essere utili per il suo approfondimento.

Prima di tutto: Ha la conferenza reso piena giustizia alle possibilità positive dell'uomo? Le forze naturali dell'altruismo, della simpatia, della prontezza al soccorso non sono forse più forti, di quanto in essa non sia apparso? Non c'è nell'uomo un'umanità essenziale, che si impone a poco a poco da sé — o almeno, una volta risvegliata da un grande esempio religioso, nonostante tutti i cambiamenti di concezioni rimane desta e continua ad operare?

Così il lettore può chiedersi scendendo con maggior precisione nel problema. Tuttavia a questo proposito egli deve tener davanti agli occhi un'origine di errore: cioè l'inclinazione ad ascrivere semplicemente all'ambito dell'uomo naturale atteggiamenti spirituali e motivazioni morali, che in realtà sono condizionati dalla fede cristiana. Come pure deve diffidare della retorica, che nelle occasioni quotidiane come in quelle solenni parla sempre di nuovo di questa umanità e con ciò nutre pericolose illusioni sulla realtà dell'uomo.

Inoltre: il numero di coloro che non sono più fermi nella convinzione cristiana, cresce sempre. E pa-rimenti il numero di coloro per i quali ciò già da generazioni è accaduto, sicché nella vita del loro spirito e del loro cuore gli elementi cristiani non sono più attivi neppure sotto forma di opposizione.

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Tuttavia quelli che la pensano così vivono insieme nella stessa comunità con coloro che hanno, in misura maggiore o minore, convinzioni cristiane. Pertanto deve essere trovata una base comune, sulla quale si possa ovviare insieme al problema del bisogno. Dov'è questa base? Quali motivi possono agire egualmente in menti così diverse? Non siamo costretti anche per questo a rifarci a qualcosa di universalmente umano? ad una razionalità e bontà che giace nel fondo dell'essere umano, che dovrebbe essere promosso mediante un'adeguata educazione del singolo come della collettività?

Questa è una questione capitale per noi, poiché essa sbocca in quella più vasta, se nel futuro ci sarà affatto un ordinamento, nel quale l'uomo possa esistere in onestà e libertà. Oppure se tutto debba ri-solversi in una trama di causalità psicologiche, socio-logiche, tecniche, politiche, che non abbia più alcun riguardo alla persona e alle sue esigenze. E se con ciò la nostra esistenza nello Stato non sarà destinata al totalitarismo, anche se a piccoli passi, sia al totalitarismo diretto, della specie del nazionalsocialismo e bolscevismo, sia a quello indiretto, come esso risulta da tutti gli apparati che tendono a influenzarci e a dirigerei, operanti anche nelle regioni di un regime liberale apparentemente indubitabile. Qui è difficile rispondere. Tanto più difficile, in quanto la risposta dipende alla fine dall'inferiore presa di posizione di ciascuno: dalle sue esperienze, dalla sua indole, dall'atteggiamento ch'egli assume riguardo alle possibilità dell'esistenza — finalmente dal fatto, se egli nel cristianesimo vede solo una forma di religione fra altre, oppure quella semplicemente decisiva.

Infine: si potrebbe andare ancora più avanti nel ri-

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condurre la cosa al fattore naturale e dire che la semplice ragione dell'uomo giungerà da se stessa al risultato che è nell'interesse di tutti il soccorrere nel bisogno. L'uomo vedrà sempre più chiaramente che il bisogno non lede solo chi ne è colpito direttamente, ma coinvolge anche la generalità. Egli imparerà che l'amabilità verso l'altro non è solo un atteggiamento di simpatia, ma anche una condotta dalla quale deriva per tutti la misura maggiore possibile di benessere. Da ciò deriverà un immediato e generale impulso, simile a quello che induce colui che è educato socialmente a comportarsi rettamente nel traffico o intervenire negli infortuni. Lo studio soprattutto delle condizioni americane potrebbe convalidare questa opinione.

Anche un'altra riflessione sembra raccomandarsi: si potrebbe a stento dubitare, che la vita dei sentimenti perda in intensità dappertutto. II processo è in rapporto con l'aumento dei numeri che si compie dovunque in conseguenza della crescita della popolazione e della democratizzazione dell'esistenza. Quanto più spesso si presenta una situazione, tanto minore impressione fa; quanto più spesso vengono pronunziate delle parole, tanto più diventano logore; quante più azioni si compiono, quante più cose si maneggiano, quante più organizzazioni entrano in movimento, tanto più tutte diventano schematiche. Detto in modo del tutto generale; quanto più la vita umana si svolge per grandi numeri, tanto minore diventa la partecipazione intcriore ad essa, l'intensità e la profondità dell'attuazione. Questo potrebbe condurre al giudizio che sofferenza, bisogno, miseria da una parte, egoismo, durezza, crudeltà dall'altra hanno sciupato troppe forze, hanno occupato sfere troppo profonde della vita. Perciò bisognerebbe ren-

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clere tutto più semplice ed economico, e a ciò apparterrebbe anche aiutarsi a vicenda. Un articolo della « Frankfurter Allgemeine Zeitung » del 9 giugno 1956 sulle condizioni americane sotto il titolo lir-conditioned Wonderland (terra delle meraviglie ad aria condizionata) indica simili tendenze. Una forma di vita e di cultura, nella quale la temperatura è dappertutto pareggiata, evita conflitti, risparmia le forze, aumenta i proventi. Così il pensiero va avanti e chiede: sotto l'influsso della moltitudine e della sua espressione strumentale, cioè la tecnica, l'emo-zionalità non oscillerà dappertutto su una posizione mediana, in cui la generale prontezza a soccorrere non si configurerà da se stessa come la migliore forma possibile della convivenza?

Questo punto di vista sarebbe significativo anche per il nostro problema. Tuttavia bisognerebbe far valere qualcosa di importante di fronte ad esso. Prima di tutto che la stessa freddezza di sentimento agirebbe anche in modo negativo. Chi sente così, potrebbe con la stessa calma distruggere una grande città piena di profughi o estinguere la popolazione di tutto un paese per mezzo di raggi e batteri qualora il giudizio degli specialisti competenti lo ritenesse « necessario ».

Con la stessa oggettività, potrebbe giungere al risultato, che la sanità di tutti richiede la constatazione di quali persone siano inadatte a procreare e perciò debbano essere sterilizzate; quali malati aggravino troppo la società e perciò debbano esser messi da parte con modi delicati — e così sempre oltre sul terribile cammino, che minaccia di diventare il cammino dell'umanità. E perché no, se in questo senso parlano motivi tanto perfettamente « umani »? se l'emozionalità resa equilibrata è così ricettiva di

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tutto ciò che è « ragionevole », e al contrario così insensibile per quegli avvertimenti, che vengono dalle profondità della vita e che sono sentiti solo da chi può essere scosso? così insensibile per l'inter-pretazione della vita data da Cristo?

In altre parole: questa « umanità » sarebbe ambivalente, come ogni atteggiamento che non è determinato dall'assoluto, potrebbe giungere a risultati negativi, così come a risultati positivi.

In ogni caso dovrebbe esser chiaro che un tale atteggiamento non è ciò che è inteso dal sincero rapporto umano tra il bisognoso e il soccorritore. Il lettore, che entra nella discussione di questa questione, farà perciò bene a tenere in considerazione anche le possibilità indicate e a non dimenticare il loro significato specifico nell'uso così svariato delle parole « bisogno » e « soccorso ».

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VI

SIGMUND FREUD E LA CONOSCENZA DELLA REALTÀ UMANA

Circa l'opera di Sigmund Freud si riscontra non di rado un consenso che ha della fede religiosa e insieme una ostilità che ricorda l'interdetto, senza parlare dei malintesi e delle semplificazioni. Tutto ciò è un segno che la sua opera non è ancora vista nella sua vera importanza.

Se dunque io tento qui una valutazione filosofica del pensiero freudiano, chiedo anzitutto di non attendersi che delle indicazioni assai semplificanti. Il punto di vista di questo tentativo è il problema circa il significato delle teorie di Freud per la conoscenza della natura umana \

Mi sia consentito di iniziare con l'impressione che i suoi scritti hanno fatto su di me trent'anni fa quando li lessi la prima volta. Un'impressione duplice.

Anzitutto quella d'un grande ampliamento dello sguardo sull'uomo. Più esattamente, su ciò che si può chiamare « il profondo » dell'uomo.

' II testo di questo contributo in tutto l'essenziale è rimasto identico a quello della conferenza. Alcuni pensieri che nella conferenza si dovettero omettere in considerazione del tempo disponibile, qui sono stati ripresi.

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D'un tale « profondo » si sapeva naturalmente da sempre. La stessa esperienza quotidiana, per esempio, distingueva un uomo il cui comportamento fa presagire una dimensione d'interiorità da un uomo superficiale, per il quale tutto « sta come in palmo di mano ». Oppure la valutazione etica d'un'azione collocava una motivazione di carattere autentico al di sopra di quelle che venivano dagli strati superficiali. Mancava tuttavia, se ben ritengo, la concezione d'un cosmo dell'anima, che per essere tale debba estendersi anche verso il basso ed avere fondamento (Fundament), segretezza (Verborgenheit), abis-salità (Abgrùndigkeit). In forma extrascientifica si sapeva certo qualcosa; basti pensare al mondo della poesia o della religione. Ma nella concezione scientifica mancava il momento della profondità. La scienza vedeva le strutture e i processi psicologici, le loro stratificazioni e complicazioni; ma tutto ciò rimaneva, se mi si consente la metafora, sulla faccia della terra, rimaneva sovrastruttura. Di quanto giaceva più sotto, mancava un concetto chiaro — fatta eccezione, forse, per la psicologia romantica, che può darsi abbia anche qui visto o anche presagito l'avvenire.

Con le teorie freudiane, l'uomo divenne un cosmo che si estende non soltanto nelle dimensioni orizzontali e verticali del conscio, ma anche in quelle di profondità dell'inconscio. La sua immagine divenne più completa in dirczione del profondo, cioè dell'intimo.

Tutto ciò, però, importava non soltanto un complemento, ma anche un cambiamento della zona superiore, poiché vennero spostati così i rapporti di importanza dell'insieme. Fino allora il carattere di rilevanza psicologica era strettamente legato con la

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consapevolezza, cioè con la possibilità di sapere in modo immediato; ora divenne chiaro che esistono realtà dell'anima non direttamente raggiungibili, e tuttavia di grande, anzi talvolta di decisiva importanza. La vita ulteriore immediatamente accessibile non si svolge affatto tutta in modo autarchico, ma resta influenzata da istanze che non si trovano nella zona semplicemente raggiungibile.

Freud trovò anche una via verso tale profondità. Essa non era più rimessa soltanto al presentimento del veggente o all'intuizione del poeta dallo sguardo potentemente penetrante, ma fu possibile rivelarla con un metodo scientificamente responsabile. E precisamente egli riconobbe che essa poteva essere raggiunta passando per processi che finora erano stati considerati elementi non essenziali della psiche, cioè il sogno, i lapsus e il sintomo nevrotico. Dimostrò che tali processi sono in realtà fenomeni espressivi, in cui ciò che è nascosto diventa dato verificabile, ed elaborò un metodo per poter rendere conto di tali dati.

Un altro nesso concettuale rese intelligibile come e che cosa avviene, quando qualcosa d'appartenente alla zona dell'immediato si trasferisce in quella dell'inconscio, ma là non si annulla, bensì resta attivo;

attivo addirittura in un modo particolarmente ricco di conseguenze: la teoria della « rimozione ».

Freud indicò infatti che il fenomeno della dimenticanza non era stato ancora visto in piena luce. Si da, in realtà, non soltanto la cosiddetta dimenticanza neutra, in cui la vivacità del possesso attuale di coscienza si logora, ma anche una dimenticanza specifica, in cui incide un qualche motivo personale. Il fenomeno può essere descritto in questo modo:

«È avvenuto questo e questo. Mi procura delle dif-

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ficoltà. Ma non posso far sì che non sia avvenuto;

e allora lo espello almeno dal mio patrimonio di immediatamente cosciente o che può affiorare alla coscienza. Allora è uscito dalla mia vita ». Ma in realtà l'avvenimento è ancora presente nel contesto del complesso della vita cui si riferisce, ed anzi come elemento operante. Operante perfino in forma assai intensiva, benché segretamente. Ed incide anche sulla vita consapevole. Esso determina i rapporti verso le persone, le cose, gli accadimenti, anzi verso l'esistenza in genere, e crea in tal modo schemi preordinati per il comportamento particolare della personalità in questione. Questa incidenza può farsi forte a tal punto da assumere il carattere dell'azione costrittiva [anancastica], apparendo allora in forma di malattia, di nevrosi.

Così nacque una concezione più completa e più chiara della totalità dell'uomo.

Ma ciò si verificò in un senso ancora più profondo. La concezione corrente era solita distinguere nell'uomo una sfera spirituale ed una corporea. Se si interrogava circa la natura esatta di questa distinzione, sorgeva una visione dell'uomo in cui gli atti detti « spirituali », e dunque il pensare, il valutare, il decidere etico, il creare artistico da una parte e i processi della crescita, del ricambio, degli impulsi istintuali dall'altra, stavano gli uni di fronte agli altri come due sistemi più o meno chiusi. Pensiamo al parallelismo psicofisico di Wundt come alla forma estrema di tale concezione. Essa venne superata

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dai risultati di Freud. Questi misero in luce che tutti gli atti, anche quelli spirituali, vengono non soltanto sostenuti da processi fisiologici e accompagnati da emozioni, ma anche sono determinati da elementi psichici che, per parte loro, .restano inconsci. Allo stesso modo che, viceversa, la vita biopsichica dell'uomo sta sempre nella sfera dello spirito e dallo spirito subisce influssi, anzi per questo essa può entrare in crisi, che caratterizzano l'uomo in quanto tale. Di fronte al fatto che il biopsichi-smo di Freud sembra non volerne sapere di elementi propriamente spirituali, la seconda affermazione può suonare forse strana; ma sarà subito chiaro, quale sia il suo senso. In ogni caso non si tratta mai, in campo antropologico, d'uno spirito isolato — allo stesso modo che non si tratta mai d'un corpo fisico isolato — ma sempre dell'uomo.

Ma con tutto ciò si apriva un nuovo accesso verso la comprensione di ciò che — con determinati presupposti — si chiama « malattia », e appunto perciò una nuova chance per una guarigione. Nelle scoperte di Freud c'è una prima radice per la chiarificazione di quel fenomeno che oggi viene riconosciuto come psicogenesi dei fenomeni patologici e che viene utilizzato anche in senso terapeutico.

Allo stesso modo, da tali scoperte, è possibile una diagnosi più acuta di quei fenomeni che possiamo chiamare dello spirito inautentico: che cioè processi istintivi risultano coperti da attitudini pseudo spirituali; che la volontà dello spirito si irrigidisce e diviene perciò infeconda; che « spirito » sia scambiato con la ratto e altre cose di simil genere. Anche di questo diremo subito qualcosa di più preciso \

1 L'intricatezza dell'oggetto porta con sé la necessità di toc-

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Non appena i tentativi e i risultati di Freud vengono ripensati con una corrispondente apertura di sguardo, benché anche con la doverosa indipendenza di giudizio, certe idee circa l'uomo diventano impossibili: per esempio, quella d'un essere parallelo composto di due ambiti o sfere chiuse in se stesse;

quella dell'essere spirituale idealistico, a cui l'elemento corporeo aderisce come residuo deprimente. e insozzante; ma anche — e ciò a dispetto di Freud, e tuttavia, come subito mostreremo, per derivazione dal suo stesso punto di partenza — l'animale umano puramente biopsichico in cui i processi cosiddetti « spirituali », diventati ormai paradossi incomprensibili, emergono come larve. Al posto di simili immagini costruite sulla base di determinate dottrine s'impone l'uomo nella sua realtà originaria, e. certo anche, proprio perciò, nella sua problematica. Nello stesso contesto viene in luce una singolare logica della vita istintiva. S'intende con questo non soltanto la circostanza ovvia per cui ogni fatto istintivo ha cause e d'altra parte produce effetti. Un ordine, invece, in cui ognuno di questi fatti si rapporta al cammino, detto più giustamente, alla dirczione della vita umana in questione e con ciò al suo significato etico. Diciamo con più precisione fi-losofica: che questa vita ha in modo decisivo non il carattere della determinazione di tipo naturale, ma quello della personale responsabilità.

L'istinto — Freud intende primariamente quello sessuale — appare come energia radicale della vita

care sempre nuovamente momenti che possono esperire solo più tardi la pienezza della loro illuminazione; o nell'andamento delle riflessioni, il bisogno di dire cose che contengono più esattamente o più rottamente ciò che precede.

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nella sua totalità. Esso è rivolto alla propagazione della specie, ma oltre ciò al dispiegamento generale della individualità, quale si attua nelle relazioni verso l'altro, rrienre il suo compimento giunge alla coscienza come piacere. Questo compimento viene ricercato di continuo dall'istinto, secondo diversi gradi di completezza, come pure secondo diversi modi di immediatezza o di mediazione. La serie delle situazioni, che nascono da ciò, costituisce la sintesi della vita individuale, e il modo con cui esse vengono dominate dalla personalità, è ciò che vogliamo chiamare la condotta di vita.

L'esigenza dell'istinto nelle varie situazioni può trovare soddisfazione in quanto giunge al compimento diretto di volta in volta inteso. Allora la compensazione psicologica si realizza senz'altro. Ma può succedere che si ergano ostacoli contro tale compimento — ostacoli d'ordine fisico, sociale, etico. Allora può insorgere un conflitto. Questo viene evitato, oppure risolto se la persona in questione vuole la verità e si adegua al significato della situazione. Ciò vuoi dire, se egli compie la rinuncia all'immediato adempimento dell'istinto, richiesta dalla realtà, e in tal modo supera la pura impossibilità attingendo la libertà — ma nello stesso tempo dirige l'energia istintiva, rimasta così priva d'obiettivo, verso un altro oggetto che sia però psicologicamente persuasivo. Tutto ciò costituisce il processo della « sublimazione », di cui tra poco parleremo.

Se questo processo non si verifica, se la situazione rimane oscura, perché la persona in questione non è all'altezza di essa, oppure la sua condotta di vita cede di fronte alla fatiche che tutto questo comprendere, rinunciare e trasformare costa; se dunque egli rimuove il conflitto in luogo di risolverlo: al-

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lora dalla inadempiuta esigenza dell'istinto nasce una perturbazione.

La logica che viene in luce in tale contesto o, per meglio dire, l'istanza che impone tale logica, vogliamo chiamarla coscienza vitale. Essa sorveglia il cammino dell'esperienza e controlla l'agire che ne emerge in rapporto alla compagine o struttura significativa della vita individuale. Tutto ciò non arriva di regola alla coscienza psicologica, benché vi si diano pure interessanti fenomeni intermedi, come, per esempio, la singolare chiaroveggenza nel dormiveglia, in modo particolare immediatamente prima del risveglio, dove, come in una illuminazio-ne, si rende chiaro il senso di certi avvenimenti, azioni od omissioni e delle loro conseguenze. Ma la coscienza vitale si esplica anche nel corso dell'accadere intcriore stesso; esige che la situazione istintuale di volta in volta verificantesi venga padroneggiata in modo giusto e si vendica se ciò non avviene.

Tutto ciò significa che i perturbamenti psichici — ma anche i perturbamenti di quelle funzioni fisiche che sono determinate dall'inconscio — stanno in connessione con le lesioni di questa coscienza vitale. In tal modo il fenomeno della malattia assume una profondità nuova, e precisamente, etica. Da questo punto di vista essa non è la semplice conseguenza d'una insufficienza orgànica o di negative incidenze esteriori, ma è un processo in cui influisce ciò che l'uomo è, fino alle sue prese di posizione verso la vita e le sue esigenze.

Una profondità nuova acquista, attraverso queste concezioni, anche ciò che si chiama « destino ». Esso non significa soltanto il tessuto dei rapporti esterni e gli influssi che ne risultano. E neppure soltan-

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to eredità, attitudini, deficienze innate, ecc. E ancora non soltanto il fatto che le azioni compiute nel contesto del divenire naturale hanno conseguenze che si ripercuotono sull'agente. Oltre tutto ciò « destino » significa che il fare dell'uomo diviene direttamente un momento attivo nel profondo della sua propria realtà inconscia, e di lì influisce su tutta la sua vita. Freud ha trovato nella poesia — soprattutto in quella greca con il suo concetto di destino inesorabile — immagini esemplari per esprimere come questo corso della vita venga determinato dalle profondità inferiori.

Ritorno qui a quel punto di partenza personale di cui ho parlato all'inizio di questa esposizione. La prima impressione che la psicologia freudiana ha fatto su di me, è stata quella, come ho detto, di una dilatazione e d'una integrazione dell'immagine dell'uomo; la seconda quella d'una subordinazione dell'esistenza all'istinto.

Si fa a Freud l'accusa d'avere sessualizzato l'esistenza. C'è del giusto in tale accusa -— almeno può portare a ciò. Egli ha visto l'istinto sessuale (da lui chiamato libido) così forte, la sua influenza così universale e il comportamento umano nei suoi riguardi così ricco di conseguenze da farne la chiave per la comprensione della vita in assoluto. E mentre il maestro stesso era un grande realista e s'imponeva continui limiti, il rischio della pansessualizza-zione divenne acuto presso non pochi dei suoi discepoli. Senza parlare di coloro per i quali, per il

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difetto di reale intelligenza, le idee di Freud diventano una routine sconfortante e non di rado

infausta.

A questo riguardo c'è da considerare che la psicologia del profondo nei suoi progressi ha enucleato una pluralità di istinti fondamentali: quello della affermazione e della potenza, quello del possesso, o l'impulso aggressivo che Freud stesso nei suoi ultimi tempi ha considerato come un fattore istintuale a se stante.

Ma sono necessarie anche riserve di natura più profonda. Freud sta in una ben precisa tradizione, quella del materialismo. Riconosce quale fenomeno scientificamente afferrabile unicamente la psiche, del tutto vincolata alla physis. Nella sua visione non ha posto alcuno lo spirito con la sua libertà, la sua capacità di superamento dell'immediatamente istintivo e la sua relazione all'Assoluto. Ciò è stato sottolineato anche dal lato psichiatrico.

Ora però Freud non può dimenticare che nell'uomo si danno fenomeni tradizionalmente chiamati « spirituali »: dunque, ad esempio, le attività della ricerca scientifica, della creazione artistica, dell'ordine e della collaborazione sociale, dell'impegno morale. Non posso discutere fino a qual punto Freud veda l'autonomia del loro significato; in ogni caso è caratteristica in lui la concezione che simili comportamenti umani dipendano in ultima istanza dall'impulso verso la soddisfazione libidinosa; e precisamente attraverso quel processo che abbiamo già accennato e che egli chiama « sublimazione ».

Può, cioè, avvenire che la soddisfazione immediata dell'istinto fallisca, a causa di qualche ostacolo o anche per decisione dell'interessato stesso. Ma ciò in modo che l'energia istintiva, deviata dall'oggetto

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primo, viene diretta verso un altro il quale, di natura sua, non è in grado di vincolarla a sé. Allora tale energia produce qualcosa che a tutta prima non ha nulla a che fare con il senso immediato dell'istinto, ma che, sulla base di rapporti d'analogia ora esteriori ora più profondi, rappresenta per esso una sod--disfazione di compenso: l'istinto viene « sublimato ». Nasce qualcosa di prezioso per l'esistenza: poesia, arte plastica, azione sociale, attività pedagogica. In altre parole, il mondo degli atti e delle strutture « spirituali », la cultura. Tale risultato appare dapprima, e visto dal di fuori, come fondato in se stesso: la poesia come espressione dell'esistenza, il diritto come ordine delle relazioni umane, il lavoro sociale come aiuto al bisognoso, ecc. Ma non appena lo psicologo considera la configurazione culturale dal punto di vista delle sue radici psicologiche, egli vi riconosce una applicazione e una trasformazione del-, l'istinto.

Qui s'inserisce una critica, che porta oltre quanto è stato già esposto. Essa dice: c'è nell'uomo la physis e la psiche, ma anche Io spirito. Non quello isolato che agisce da se stesso e per se stesso. Esso è sempre lo spirito dell'uomo, legato in ogni suo atto e in ogni suo risultato con la sfera psicofisica. È sem-ore la realtà umana quella con cui abbiamo a che fare. Ma in essa noi incontriamo distinzioni che non consentono riduzione alcuna.

Fenomeni come — indichiamoli a casaccio — la scultura greca, il diritto romano, la cattedrale gotica, la Divina Commedia, la musica di T.S. Bach, la teoria della relatività, la decisione etica che si compie nella solitudine della coscienza: tutti questi dati, le opere come gli atti che le creano, contengono qualcosa d'altro oltre il contenuto d'un semplice processo psi-

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cologico. Qualcosa di qualitativamente altro. Non vedere tutto ciò, significa cecità nei riguardi del fenomeno.

Questo altro, questo diverso, sta anzitutto nel contenuto essenziale di ciò che in quelle opere viene creato: nella validità del vero, nel carattere obbligante del bene, nella autorità della legge, nella in-teriore libertà della forma artistica. Là dentro si attesta qualcosa che si fonda nel suo proprio significato, eleva una pretesa assoluta e non può mai essere derivato da funzioni di qualsiasi genere, siano psichiche o fisiche. Il senso di quelle realtà sta nella loro propria altezza; e mai nei loro meccanismi fisiopsichici che entrano in corso nel loro generarsi, oppure nelle funzioni economiche, igieniche, sociali, che vengono in esse esplicate.

La diversità dello spirito consiste in secondo luogo nella natura propria del processo come tale. Gli atti che generano la conoscenza scientifica, l'opera artistica, l'ordine giuridico, la relazione personale, la presa di posizione etica, hanno quel carattere che Kant chiama « apriorico »; ma che nel modo più preciso viene designato come una chiamata da parte dell'Assoluto e che soltanto nella libertà della persona può essere realizzato. Non appena i concetti dell'Assoluto e della libertà vengono pensati onestamente, appare evidente che essi superano per principio il piano psicofisico.

Soprattutto la filosofia fenomenologica e l'analisi culturale hanno mostrato — ricordo Edmund Husseri, Max Scheler, Adolf Reinach, Frederick Buvtendrjk, Lud-wig Bins-wanger e altri — che la validità dell'opera culturale, come pure l'obbligazione normativa dell'atto culturale non possono mai essere ricondotte alla loro genesi psicologica o a una funzione da

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essa esercitata. Sapendo quali sono i centri cerebrali attivi nell'elaborazione di una teoria scientifica, si sa tanto poco circa il senso di quest'ultima quanto, nel caso di una creazione artistica, si sa della qualità estetica di essa con la conoscenza dei processi psicologici. E quando si sia stabilito che l'ordine giuridico infonde sicurezza e un'opera musicale distensione, non si è conosciuto ancora nulla dell'essenza del diritto e della musica, e ciò in linea di principio, non solo quantitativamente.

Questa realtà valida in sé, non riconducibile a qual-cos'altro e che si impone nell'opera culturale come nell'atto culturale, noi la chiamiamo spirito.

Domandiamoci ora: la concezione freudiana è tale soltanto da prescindere dallo spirito, ovvero da fallire di fronte alla sua problematica, oppure esclude lo spirito senz'altro?

Freud si è sempre sforzato di essere leale con la realtà come essa gli si mostrava. Si rinvengono così nel suo sistema passi da cui può iniziare la critica, poiché in essi assume valore qualcosa che non è semplicemente un contesto fisio-psichico. Di tali passi vorrei ricordarne due, senza con ciò escluderne altri, come ad esempio la sua teoria dell'io e del super-io.

L'attenzione sul primo passo è stata richiamata dallo psichiatra friburgese Hanns Ruffin, sul fatto cioè che nella sfera psicologica si da l'autentica contraddizione. Se l'uomo fosse soltanto un essere naturale fisiopsichico, questa sarebbe impossibile. Se da una de-

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cisione vitale errata insorge non soltanto un danno fisico o un conflitto con l'ambiente, ma un trauma, un impulso che nuoce da dentro alla propria stessa vita;

una tendenza punitrice che genera malattia: se dunque nella stessa sfera degli istinti un impulso si rivolge contro l'altro, tutto ciò non è comprensibile secondo un puro gioco degli istinti. Si può comprendere soltanto se nell'uomo agisce una istanza che si esplica bensì nella sfera degli istinti, ma che per il suo significato come per la sua economia è di altra natura. Per quanto so, non esistono nevrosi presso gli animali selvaggi. E a riguardo dei tentativi per indicarne presso gli animali domestici, non si deve dimenticare che l'animale domestico non è semplicemente un animale, ma sempre un animale più l'influsso dell'uomo, alla cui sfera vitale appartiene. Se nell'uomo non solo si svolgono conflitti vitali, -ma si condensano in centri di autodistruzione, ne segue che qui non si tratta soltanto di processi di regolazione della vita biopsichica, i quali sarebbero in tal caso strutturati in vista d'una crescita ottimale, ma viene alla luce in essi un carattere del tutto particolare, quello cioè del costituirsi di un destino. Sul terreno biologico vengono a incidere momenti transbiologici. Qui non soltanto un istinto naturale vigila sui presupposti dell'evoluzione immediata, ma entrano in vigore norme di giustizia, che portano carattere morale; e la loro violazione viene vendicata in un modo che trascende radicalmente ogni pura conseguenza biopsichica.

Questo « altro », contrapposto alla natura, che qui entra in azione, è lo spirito o, rispettivamente, il mondo di quei valori e di quelle norme che possono affermarsi soltanto nella sfera dello spirito. Solo nella sfera dello spirito l'istinto può diventare una

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potenza pericolosa, fatale quale Freud la dimostra. Ci sarebbe molto da dire sull'argomento.

Questo « altro » ci risulta anche nel modo seguente. Una delle più importanti scoperte di Freud è la teoria della sublimazione. Cioè l'istinto, come già si disse, non è fissato in forma univoca. A tutta prima esso tende al suo adempimento immediato. Ma gli è propria una orientabilità, una malleabilità, in forza della quale esso può essere sganciato dal suo oggetto immediato, avviato verso un altro e con ciò appunto trasformato. In questa trasformazione esso produce atti di personale disinteresse, opere d'arte, idee metafisico-religiose, in una parola, la cultura — detto più esattamente — l'istinto si inserisce negli atti sopraddetti, rafforza la loro dinamica e trova in essi l'equilibrio alla propria tensione.

Ora l'istinto non potrebbe mai sganciarsi dal proprio oggetto immediato, volgersi a un altro e produrre con la rinuncia e con l'autotrasformazione qualcosa che in prima istanza è estraneo a sé, se esso dovesse realizzare tutto ciò da se stesso. Il significato dell'opera culturale è non solo gradualmente ma essenzialmente diverso da quello dell'autoevoluzione biopsichica. Il movimento verso tale dirczione importa, in confronto a tale evoluzione, non un semplice « sviluppo » continuo, ma un trapasso, un salto qualitativo, il quale è non soltanto impegnativo e difficile, ma può risultare deleterio per la sfera immediata della realtà, come dimostra ogni analisi proba dell'atto creatore di cultura. Non esiste nessuna logica propria dell'istinto in quanto tale, secondo la quale questo possa compiere da se stesso il passo verso l'opera culturale. Gli aspetti d'analogia, che emergono fra il primo oggetto di soddisfacimento e il secondo, non sono assolutamente suffi-

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denti per suscitare e per reggere un distacco sinule, cioè una simile rinuncia.

L'istinto può sciogliersi dall'oggetto del suo immediato adempimento e trasferirsi nella creatività culturale solo perché viene da quest'altro lato chiamato, richiesto, assunto in servizio. Non esistono relazioni unilaterali, dotate solo del punto di partenza; assolutamente nessuna che comporti l'autosacrificio della energia di partenza. E sempre necessario che « si mostri » ciò che sta dall'altra parte e che attesti la sua validità. Ma se esso dev'essere veduto, se il suo richiamo dev'essere sentito e poi seguito, ciò significa che in tutto ciò c'è un momento in azione che non si identifica con l'istinto, ma gli sta sopra, e questo è lo spirito.

Ma tutto ciò vuoi dire un'altra volta che la teoria freudiana porta in sé gli addentellati per il superamento delle sue unilateralità, perché la realtà glieli impone.

Un'ultima cosa ancora. Il pensiero occidentale si muove in vario modo fra estremi fatali: fra uno Spiritualismo che vede i fondamenti dell'intelligenza dell'essere nel puro spirito e un materialismo che li vede nella pura materia. Ciò inizia già con Fiatone, per il quale la via dell'uomo autentico, cioè del filosofo, consiste nella liberazione dello spirito dal corpo. Ma le due posizioni non sono affatto possibilità di genuina decisione, bensì antivalenza, inau-tentiche entrambe sia pure in opposta dirczione. La storia mostra pure come l'una si inverte di con-

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tìnuo nell'altra. Questo perché si è dimenticato dò che realmente importa: l'uomo.

Questo problema è oggi più importante che mai, perché l'uomo è posto oggi in questione da forze quanto mai potenti: della massa, della tecnica, dello Stato. Vista da tale angolo, un significato particolare della psicologia freudiana — ma ora bisogna ormai dire: della psicologia del profondo in genere — potrebbe consistere nel fatto che essa convoglia l'attenzione su colui che è a tal punto minacciato. Tale indicazione potrebbe, tra l'altro, svolgersi nel senso di mostrare quanto sia spesso inautentico ciò che viene chiamato semplicemente « spirito »;

inautentico e perciò infecondo per ciò che ha verità sostanziale.

Inautentico è anzitutto quello spirito che appare nello scambio tra spirito e logica. Ciò dovrebbe risultare chiaro a chiunque sia in grado di vedere, dopo che si sono diffuse, ormai dappertutto, le macchine cui vengono trasferiti, in maniera così irresponsabile, concetti di atti spirituali come quelli del pensiero. In realtà nulla c'è di spirituale in esse. Spirituale è soltanto la prestazione di coloro che le hanno escogitate e di coloro che le adoperano. Esse stesse non sono che oggettive possibilità di tale uso, nul-l'altro.

Uno spirito inautentico si può incontrare nell'etica, e precisamente dovunque esso viene concepito in contraddizione col corpo. Quanto poco lo spirito possa essere voluto per se stesso, l'ha dimostrato l'oscura e disorientante storia della gnosis che attraversa tutta la storia dell'Occidente. Con la identificazione dello spirito con il bene o la luce e con la contrapposizione ad esso della materia o del male o della tenebra, la gnosis proclama un mito contro la cui

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falsità distruttiva già il cristianesimo dei primi secoli ha combattuto. Ogni etica o ascetica, che contrapponga dualisticamente lo spirito in quanto bene al corpo in quanto male, è in realtà sostenuta da un risentimento che non è in grado di inserire le forze vitali in un ordine fecondo. Il presunto spirito puro, di cui colà si parla, è in realtà istinto represso, e il ricordo va alla famosa frase di Pascal: « Chi vuoi diventare angelo », cioè puro spirito, « diventa bestia ».

Inautentico è il modo con cui l'idealismo colloca ogni significato nello spirito assoluto e vede nella materia unicamente l'antitesi in cui lo spirito si fa consapevole di sé, la quale materia però, dato che lo spirito la pone fuori di sé, non costituisce in fondo che una modificazione dello spirito. È un fatto estremamente rivelante, attorno a cui tuttavia si continua ostinatamente a girare, che il più « spirituale » filosofo, l'idealista Hegel, sia diventato l'origine del materialismo « marxista ». Ciò rivela che lo « spirito » di costui è nel profondo altrettanto inautentico della « materia » di Marx, e che i due concetti non sono in realtà che simboli di una decisione della volontà, posizioni opposte in una competizione metafisica.

Lo spirito autentico è incorporato. Non esiste nella nostra sfera esistenziale il puro spirito. La Rivelazione ci dice che esso esiste nell'angelo il quale possiede una realtà del tutto diversa da quella che le correnti rappresentazioni popolari e artistiche ma anche quelle correnti della scienza delle religioni si raffigurano. Noi non possiamo realizzare mentalmente che cosa propriamente l'angelo sia. La sua esistenza, rispetto alla nostra, sta in un rapporto di contiguità, della cui importanza religiosa non possiamo qui parlare.

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La stessa Rivela2Ìone d dice che Dio è puro spirito. Ma noi facciamo bene ad aggiungere subito che il termine, adoperato a riguardo di Dio, ha un altro significato che adoperato a riguardo delie realtà li-ulte. La corrività, con cui la filosofia idealistica discorre in ogni possibile contesto di « spirito assoluto », mostra quanto poco essa si renda conto reale di ciò di cui si tratta. Quando la Rivelazione — come pure l'esperienza religiosa autentica — parla di Dio come spirito, non intende affatto la spiritualità. Nel passo, spesso citato, di Giovanni (4, 24) « Dio è spirito e coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità », il termine pneuma significa Spirito Santo.

Lo spirito autentico ha il suo luogo nell'uomo, e l'uomo il suo luogo nella storia. Ma « storia » è altra cosa da quel che s'intende con autoespansione dello spirito assoluto nell'idealismo, che trova un'eco così traditrice nella dialettica marxista delle forme economiche. Storia autentica non è essenzialmente un « processo » — benché in essa naturalmente si diano anche processi — ma è una serie di decisioni personali che, ogni volta inderivabili, nascono dalla libertà d'ogni singolo uomo. In tal modo essa ha il carattere della responsabilità e porta con sé la possibilità del tragico, il quale è altra cosa della fatalità e della distruzione. L'uomo è libero perché è spirito e di conseguenza capace di storia; egli sta nel contesto delle cose, dello spazio e del tempo, perché è incarnato in un corpo e perciò storicamente vincolato.

Solo da questa tensione — fra la libertà spirituale da una parte e la vincolazione alla storia attraverso il corpo dall'altra — sorge quella forma d'esistenza che si chiama umana. Essa non può essere pensata

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con concetti di scienza naturale ma soltanto di personalismo storico.

Se ora la psicologia analitica mostra quanto indissolubilmente ogni atto spirituale sia legato al corpo e all'istinto, ma d'altra parte pure quanto inelimina-bilmente ogni atto istintivo dell'uomo si distingua, grazie allo spirito, da quello dell'animale, essa riporta a colui, di cui in tutto ciò davvero importa, cioè all'uomo, alla sua opera e alla sua storia 1.

Se si cerca di considerare la psicologia freudiana nella sua totalità, vi si nota un carattere che si rivela anche altrove nella storia della ricerca scientifica e che è importante per la valutazione delle conquiste di Freud. Non appena, cioè, viene scoperto un settore nuovo e la ricerca se ne impadronisce e un metodo viene elaborato e tentata una prima sintesi, tutto questo assume facilmente un carattere unilateralmente razionalistico. Di fronte alla incognita dell'oggetto, alla complessità intricata dei fenomeni e alle difficoltà nella ricerca del metodo, questo razionalismo ha un effetto di semplificazione e d'ordine. Esso determina la forma primitiva della scienza in questione e ha l'impronta del classico. Basti ricordare, ad esempio, al modo come la prima scienza dell'economia con Adam Smith riconduceva tutti i fenomeni della vita economica agli elementi razionalistici del mercato, domanda, offerta e loro compensazione meccanica. Questa prima teoria è unilaterale; ma proprio in ciò sta la sua forza, di avviare cioè la ri-

1 Si consentirà al teologo di alludere alla dottrina della Rivelazione, così mal capita dall'età moderna, secondo la quale l'uomo e la storia umana camminano non verso la trascendenza puramente spirituale e ancor meno verso l'andvalenza di questa, cioè verso una risoluzione nella materia del mondo, ma verso la resurrezione del corpo, verso l'uomo dell'eternità.

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cerca. Nella discussione, nella critica e nella sua ulteriore evoluzione, si afferma la scienza più matura. In questo senso Freud è il classico della psicologia del profondo. Ciò non vuoi dire, come s'è detto, che egli abbia visto il fenomeno sempre correttamente e meno ancora che l'abbia visto completamente. Varie cose nei particolari e cose essenziali nei fondamenti delle sue vedute sono false; allo stesso modo che il complesso del fenomeno contiene fatti e rapporti importanti che gli sono sfuggiti. Egli rappresenta tuttavia la forma primitiva sulla quale poi la critica ha trovato spunto e si è avviata la ricerca successiva.

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VII UN IDOLO IN FORMAZIONE

Riflessioni non sistematiche

Alla domanda, che cosa sia un idolo1, risponde il libro lìeIVEsodo al capitolo vemesimo, versetti 4 e 5: « Non devi fare nessun'immagine di Dio, nessun ritratto di alcuna specie, ne di ciò che è sopra il cielo, ne di ciò che è giù in terra, ne di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non devi adorarli ne servire loro ».

Secondo la Scrittura un idolo è un'opera d'arte, che trae il suo oggetto immediato dalla realtà del mondo; ma che rappresenta questo oggetto in modo che sia sentito come una potenza numinosa, religiosa e inviti ad una venerazione religiosa — una venerazione, che ha il carattere del servizio, reso cioè dalla persona dell'uomo.

Nelle religioni mitiche politeistiche la potenza che si rivela è una potenza della natura — per esempio il sole che elargisce la luce e genera la vita —, che poi, nel progresso dello sviluppo culturale, a partire dagli immediati fenomeni naturali si approfondisce e — come nel caso del sole — può innalzarsi alla rappresentazione di un potere spirituale luminoso e creatore.

La potenza, che è oggetto di esperienza, dalle forze

1 L'articolo apparve la prima volta in Speculum Historiae, Festschrift fur Johanncs Spori, Munchen, Alber, 1965.

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figurative della fantasia artistico-religiosa viene condensata in una forma concreta (Apollo) e il suo essere va dispiegandosi nei riverenti racconti della sua origine, delle sue gesta e vicende (miti).

La forma del Nume è presa dai più diversi ambiti del mondo: di quello inanimato (vedi per esempio la forma conica delle più antiche immagini di Afro-dite); di quello animale (per esempio la civetta per Atena); di un mondo misto animale e umano (per esempio il capo di sparviero del dio dei morti egiziano); finalmente dal mondo totalmente umano (così le immagini degli dèi della religione superiore greca). Questa rappresentazione è vissuta nel culto in modo che la corrispondente potenza mitica è sperimentata come presente in essa e come Nume, che riceve il « servizio »: adorazione, lode, offerta sacrificale.

Sembra che la capacità di una vera esperienza nu-minosa della natura svanisca sempre più coll'avvento dell'atteggiamento razionale e scientifico e col dominio tecnico della natura. Ma non si presenta qui un paradosso: che cioè quelle forze, che hanno causato questa sparizione, cioè scienza e tecnica nella loro unità vicendevolmente determinante, acquistino una potenza, che da sua parte spinge verso una specie di idolo?

Dal punto di vista esistenziale nell'idolo-Natura si esprime un atteggiamento, nel quale l'uomo non solo utilizza le realtà naturali nell'economia della sua vita, le scruta speculativamente e le ammira esteticamente, ma soggiace ad esse religiosamente, cioè le « serve ». Questo soggiacere, come anche il servizio in cui si esprime quest'attegiamento, è abolito dalla scienza e tecnica. L'uomo diventa libero di fronte alla natura, anzi consegue un dominio sempre crescente su di essa. Ma in compenso egli sembra in-

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chinarsi all'avvenimento dello stesso dominio, come pure all'insieme di quei mezzi, coi quali si acquista ed esercita questo dominio, cioè la scienza esatta e la tecnica su di essa basata. Il paradosso consiste in questo, che l'uomo diventa soggetto appunto a ciò, con cui ha acquistato ed esercita il suo dominio.

È un fatto che l'uomo odierno non è più libero di fronte al complesso: scienza, tecnica, dominio della natura; che egli è da esso « incantato » e quanto più a lungo, tanto più profondamente.

Alla fine diventa sempre più chiaramente conscio che non potrebbe vivere senza di esso. In maniera fatale l'elemento dell'aumento della popolazione si congiunge col fatto della scienza e della tecnica. Ma ciò significa più di questo, che tanti uomini possano rimanere in vita solo perché scienza e tecnica lo rendono possibile; si impone invece il pensiero, che i due elementi siano fra loro connessi da una radice che non può essere illuminata razionalmente.

A ciò si aggiunge un altro elemento, che appartiene egualmente all'essenza della coscienza moderna. In modo approssimativo si può dire che il senso del mondo dell'uomo medievale sia stato statico. Gli ordinamenti del vivere come anche quelli del mondo erano veduti certo come mobili, ma questo movimento era quello del ritmo — vedi per esempio il muoversi in circolo della Divina Commedia di Dante o la comunicazione di sé nei gradi dell'essere di Bona-ventura.

Qui ha avuto luogo un cambiamento. L'epoca moderna ha visto il mondo, la natura come la storia, presi in un movimento che si spinge in avanti: ambedue si « evolvono ». E precisamente questo sviluppò è stato sentito come un processo verso sempre il meglio, come « progresso ».

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Ma questo progresso si esprime appunto nell'unità di scienza e tecnica, unita al fatto biologico-politico della crescita della popolazione come presupposto della società e della politica moderne. In conseguenza, lo sviluppo della scienza e della tecnica significava senz'altro progresso, crescita del senso dell'esistenza, e ogni dubbio su ciò era un dubbio sul senso dell'esistenza.

Perciò anche non c'è in fondo alcuna critica su questa unità di potenze fondamentali che tutto determina — fatto in cui si manifesta una specie di incantesimo nel senso del rapporto con l'idolo. Poiché primo presupposto della libertà sarebbe la critica;

ma questa non viene esercitata, bensì il complesso citato viene preso come semplicemente dato e normativo.

Si potrebbe subito obiettare che c'è pure critica abbastanza; che anzi si potrebbe semplicemente designare come critica l'epoca, la cui coscienza viene caratterizzata dalla scienza. Tuttavia questa critica è solamente metodologica: star in guardia contro gli errori nelle teorie scientifiche e nel processo tecnico;

di fronte a problemi economici e sociologici. Ma l'uomo moderno non pone in questione in linea di principio scienza e tecnica.

Parlando con più precisione: certamente si esercita una critica molteplice e sottile su questioni di principio, ma con Io scopo di dissolvere le antiche convinzioni religioso-filosofiche, il cui senso andrebbe appunto verso la messa in dubbio della pretesa innalzata dal complesso di scienza, tecnica e massa umana di cui si parla. Perciò questa « critica » contribuisce alla mancanza di critica di cui stiamo parlando, giacché non pone in questione il dominio di anello stesso complesso. Per principio l'uomo odier-

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no gli da il suo assenso chiaramente come all'ordinamento dell'esistenza e alla misura di ogni valore 1. Quanto si è detto si manifesta anche nella naturalezza con cui ogni vittima viene sacrificata al dominio di questo ordinamento. Che la campagna sia devastata da imprese tecniche; che antichi edifici insostituibili siano annientati da costruzioni utilitarie;

che il silenzio, fattore indispensabile dell'esistenza personale, sia eliminato dal rumore delle macchine del traffico; che l'atteggiamento di venerazione, il più essenziale per l'uomo, sia distrutto con i dispositivi tecnici razionali (per esempio i mezzi di comunicazione) — tutti questi attentati all'esistenza umanamente preziosa vengono sentiti come effetto di un potere, protestare contro il quale appare come retrivo, irragionevole, nemico della storia, anzi alla fine come empio.

Scienza e tecnica si fanno valere come un superpo-tere e un supervalore, che non ha bisogno di alcuna fondazione, ma che viene semplicemente considerato come dominante e valido — sicché di fronte ad esso le più enormi perdite della persona e della cultura vengono considerate come fatali. Che si elevino proteste dei danneggiati; che individui eminenti si preoccupino di scongiurare la distruzione di valori naturali o culturali; che si facciano sforzi, per cercare di far prevalere un concetto di cultura più libera e più elevata — tutto ciò non elimina quanto si è già detto. Ciò riesce a prevalere solo là dove non sono operanti i vincoli immediati di quei poteri. In

1 Da questo punto di vista, la rimozione dei « tabù », sollecitata con così sospetto fervore, si rivela come distrzione della protezione, che determinate idee e sentimenti di difesa danno all'uomo contro la dittatura di quel criterio, avanzante dappertutto.

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fondo queste premure sono considerate come un lusso romantico, a cui ci si può lasciar andare, quando è garantito l'essenziale, scienza, tecnica e numero della popolazione; ma dei danni cagionati ci si consola presto.

Il fenomeno si verifica in generale: in tutte le età della vita, in tutti gli strati sociali, in tutti i popoli, anche quelli che hanno il passato culturale più antico e altamente sviluppato — come ad esempio la odierna Cina. È all'opera un elemento del superpote-re, anzi dell'incantesimo, che paralizza gli istinti della propria difesa spirituale e delle più nobili tradizioni vitali.

Il sentimento giunge ad un'espressione immediata di ammirazione, anzi di venerazione, non appena il fenomeno della tecnica scientificamente fondata si condensa in qualche luogo in una figura concreta ed "espressiva — forse bisognerebbe ricordare come nella Russia bolscevica fu innalzato un monumento con un trattore, che suscitava nello spettatore non solo sentimenti di ammirazione culturale, ma anche di venerazione religiosa.

Una religiosità stranamente fredda, senza anima. Si ha l'impressione che qui sorga un idolo, anche se su di un nuovo campo e con carattere nuovo. In alcune opere di arte astratta, specialmente della scultura, ciò può prendere talmente corpo che l'uomo moderno giunge all'atteggiamento, contro cui mette in guardia il divieto dell'Antico Testamento: che egli « serva » — è da ricordare forse la solitària troneg-giante « coppia di rè » di Henry Moore e la configurazione non umana della testa dei due esseri.

L'osservatore che sente e giudica con precisione scopre nel fenomeno un elemento assai pericoloso. Molte cose contribuiscono a questo pericolo: le energie

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che si mettono in movimento sono straordinariamente grandi, e il loro campo d'azione non lascia ne riserve ne rifugi. Le energie afferrano l'uomo stesso e

10 cambiano. Esse si uniscono con la volontà di autonomia dell'uomo moderno e, per usare una parola di Thomas Mann, producono una « fredda estasi », in cui l'uomo sacrifica se stesso a questi poteri. La situazione apparentemente si conforma alla suprema razionalità; in verità conduce all'autodistruzione, come viene espresso oggi così stranamente nella letteratura, nelle arti figurative, nella musica, per mezzo del sentimento dell'angoscia, della nausea, dell'assurdità, della pazzia. L'idea del progresso riceve il carattere di un inevitabile esser trascinati e domina non solo l'opinione pubblica, ma anche il giudizio individuale.

11 nuovo mito si cambia in una costrizione formale, che si manifesta per esempio nella naturalezza con cui viene accettato che ciò che è tecnicamente possibile sia anche moralmente permesso, anzi obbligante, perché elemento del progresso — ricordiamo tutti gli apparati e misure, con cui la tecnica moderna di osservazione e comunicazione penetra nella vita privata dell'uomo, il che però significa che distrugge la sua libertà. Tuttavia il dire ad un tecnico, che avesse costruito un apparecchio con cui si potessero osservare e render noti i più nascosti eventi in una casa, che egli non dovrebbe costruire questo apparecchio, sarebbe giudicato non solo come arretratezza o stoltezza, ma in fondo come ostilità contro il senso dell'esistenza. Con che cosa potrebbe essere infranto questo complesso e il suo significato metafisico-religioso?

Certo non con un atteggiamento reazionario, romantico, che respinga per principio scienza e tecnica e

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che aspiri di nuovo ad uno stato naturale, che non potrebbe mai realizzarsi, ma solo — e così anche effettivamente — con l'atto di rifiutarsi di realizzare possibilità dello sviluppo tecnico, della costruzione e del funzionamento, dell'utilizzazione e dell'esercizio di potere, qualora esse distruggano valori essenziali della natura e dell'opera dell'uomo, del rispetto alla persona e al passato.

Ma certamente, chi agisce così, arrischia molto: interessi economici, sociali, politici, prestigio personale, e altro ancora di questo genere.

Tutta questa resistenza assume facilmente il carattere della stranezza, incorre nell'apparenza di comportamento asociale, anzi si risolve nel sacrificio di se stesso — proprio come una volta accadeva a chi si rifiutava di sacrificare agli idoli. L'oppositore diventa « nemico degli dèi e degli uomini ». Tuttavia è necessario un tale atto per rovesciare il nuovo idolo — per Io meno per porre un freno alla sua dittatura. Non basta parlare solo di moderazione e di riguardo. È necessaria un'ascosi, cioè una prontezza a rinunciare alle conquiste tecniche per preservare valori più alti. E in qualche senso, seppure ancora così modesto, è un segno di speranza il fatto che questa parola già sia emersa nella discussione.

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Vili

RIFLESSIONI SUL PROBLEMA DEL CINEMA

II cinema1 ha raggiunto un'estensione così enorme, ha l'aspetto d'una realtà ormai così stabilita e di continuo crescente, penetra così a fondo nell? vita dell'intera popolazione provocando danni a volte così gravi da obbligare a un'attenzione particolarmente seria nei suoi riguardi.

Le persone moralmente e artisticamente vigili sono molto spesso urtate dal cinema, a tal punto che vanno a rischio di misconoscere a suo riguardo l'urgenza con cui qualcosa cerca in esso il proprio diritto. Ma è necessario che tali persone si rammentino della propria responsabilità.

Qualcuno potrebbe cercare di risolvere il problema col dire: non intendo prendere il cinema sul serio. È cosa di valore inferiore e tale rimarrà. Da esso mi aspetto soltanto quell'aiuto che il nostro tempo m'offre per attenuare un poco la propria inquietudine. Mi aspetto soltanto che il cinema mi dia ciò che può darmi in una forma in qualche modo piacevole e che non si arroghi le arie d'una significanza culturale che non gli compete.

Dal fenomeno del cinema può nascere del buono:

del giusto in senso ideologico, del forte in senso etico, del piacevole in senso estetico. Ma unicamente come fenomeno marginale. Sarebbe una grande stor-

1 Quanto segue riproduce una conferenza tenuta all'Università di Monaco di Baviera 'nella sede del « Seminario d'arte cinematografica » nel 1953.

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tura, se da simili risultati si dovesse dedurre un criterio d'ordine generale.

Questo modo di concepire è chiaro, ed è presumibile che a volte anche un apologeta d'un compito artistico del cinema ne rimanga inquietato. Ma fa pensare in questo modo la circostanza che il cinema è diventato molto presto un affare di massa. Il dramma, che, in quanto spettacolo, il cinema imita, è nato -da una sfera originaria molto esclusiva, cioè dal culto; il dramma ha un'antica storia ricca di grandi creazioni e rimane, anche dopo il suo trapasso al teatro profano, ancora per lungo tempo legato alle classi sociali superiori. Il cinema invece è un « arrivato » e sta fin dal principio al livello delle grandi masse. Assai presto la tecnica e il commercio s'accorgono che si tratta di qualcosa che risponde ad istinti universalmente operanti e che perciò implica grandi possibilità. S'aggiungono poi subito i punti di vista della pubblicità e della propaganda politica, cioè la chance dell'azione sulle masse mediante tale strumento.

Il cinema ha pure molto presto eliminato ogni pretesa di misura e di riserbo e si è dedicato al grande numero: molte proiezioni, ogni giorno, anzi più volte al giorno; molte sale di proiezione di tutte le grandezze e le qualità; giganteschi capitali; tutto un mondo di persone, di organizzazioni, di apparecchiature, di tecniche. Come conseguenza di tutto ciò una produzione di massa, con tutti gli effetti che le sono propri.

Così chi possiede qualche esigenza di cultura ha l'impressione che il cinema non si meriti una particolare stima. Ciò si rivela anche in sintomi che non ingannano. Mentre il teatro esige dai suoi frequentatori una « forma » — abito scelto, atteggiamento in qual-

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che modo solenne-—il frequentatore delle sale cine-matogratiche si sente libero da simili obblighi. Vi entra con il vestito della strada, entrando si tiene spesso il cappello in testa; nei Paesi latini perfino si fuma durante la proiezione. In tutto ciò si tradisce una disistima che deriva non da princìpi e da intenzioni, ma dalla sicurezza che è propria del sentimento involontario del rango che il cinema occupa.

In una riflessione di principio come questa, dobbiamo anzitutto interrogarci circa il nucleo essenziale del fenomeno.

E per prima cosa, in vista d'una sua comprensione da dentro, donde derivi il suo « valore scadente ». Sarà una buona occasione per mettere in luce con tutto rigore i suoi aspetti negativi. Ed io vorrei pregare di concedermi lealmente spazio per tale critica. La sua intenzione vuoi essere positiva, non vuoi essere critica per amor di critica. Bisognerà allora, partendo dallo stesso punto, interrogarci se non ci siano nel cinema possibilità di prestazioni autentiche e, se sì, di qual genere siano.

Il punto critico sembra consistere nel rapporto fra la realtà e la sua trasformazione fantastico-artistica, quale si ritrova fin dal principio nel cinema.

Arte non è realtà1. L'arte afferra un aspetto del mondo, lo elabora per attingere la sua essenza — qualcosa d'essenziale in essa — e ce lo rende nello spazio irreale della rappresentazione. Ci sono naturalmente nell'opera d'arte elementi di realtà; il co-

1 Cfr. a tal proposito R. guardimi, Vber das Wesen des Kunstwerks, Tubingen 1952, p. 41 ss.

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lore, la pietra, il suono, la parola parlata o stampata. Ma ciò che veramente vi si intende sta dietro, nella fantasia, e colui che guarda, legge o sente l'opera deve trarselo fuori con lo sguardo o l'udito.

Prendiamo, per esempio, l'arte teatrale, la più vicina al cinema. Sulla scena sta l'attore, poniamo Joseph Kainz. Egli è un uomo reale e nella valutazio-ne a suo riguardo è ritenuto per tale. Ma ciò che veramente vi si intende è Amieto, e costui esiste soltanto nella rappresentazione. Quanto più grande è l'attore, tanto più egli farà della propria personale realtà uno strumento, attraverso cui possano essere visti il carattere e il destino della figura poetica.

Naturalmente resta sempre qualcosa della persona reale, qualcosa a volte di assai considerevole; per esempio, quando si tratta di artisti che, nella figura poetica da essi rappresentata, rappresentano sempre se stessi. Pensiamo a Eleonora Duse o, con la dovuta distanza, a Paula Wessely. Lasciamo stare qui il problema se in tal caso esse rappresentino la propria esistenza empirica o la sua idea, sempre posta come compito, mai realizzata. In ogni caso la tensione fra realtà e rappresentazione resta circoscritta alla persona dell'attore o dell'attrice. Anche la scena come tale ha i suoi elementi di realtà: lo spazio, le apparecchiature usate, ecc. Il numero delle quali è però relativamente piccolo. L'intero arrangiamento scenico è tanto migliore, quanto più sobri sono i mezzi con cui si rende visibile l'irreale sfera del gioco drammatico. Basti pensare che le più eccelse realizzazioni teatrali, create dagli artisti massimi e accolte dal più compartecipe dei pubblici, cioè il teatro greco e shakesperiano — ma anche il teatro classico dei Francesi e dei Tedeschi — hanno lavorato con un minimo di accessori. Chi voleva davvero

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vedere, doveva essere in grado di evocare dentro di sé il contenuto drammatico.

Nel cinema le cose stanno al contrario: c'è in esso per principio un massimo di realtà.

Lo spazio che vi viene mostrato non è la scena artefatta, ma sono gli esterni reali: della natura, della città, degli edifici. Grande successo hanno sempre i films che portano attraverso monti e campagne, selve e deserti, sul mare e nel cielo; che ci conducono in città, castelli, abitazioni e giardini; in fabbriche, ospedali, ristoranti, prigioni, ecc. In tutto ciò si realizzano i moti egualmente reali del viaggiare, cavalcare, volare, tuffarsi; appaiono uomini in tutte le forme della vita personale e sociale; realizzano le loro prestazioni culturali; si rivelano le situazioni della società: insomma una immensa massa di realtà. Senza dubbio vi operano anche delle alterazioni: con il modo in cui paesaggi e luoghi vengono scelti e collegati all'azione, con la logica secondo cui le persone e i fatti vengono diretti, ecc. Il regista ha il compito di disporre la materia della realtà in modo che lo spettatore possa cogliervi quel carattere e quel destino di cui si tratta. Ma tale trasformazione viene di regola realizzata in forma assai imperfetta. Per lo più c'è là una vasta massa di realtà immediata in cui, come una tenue macchia, gioca qualcosa di artìstico.

In verità questa frazione artistica viene a stento notata. Ciò che il pubblico cerca nel cinema è la vita reale, solo un po' « migliore »: la vastità del mondo in luogo dell'angustia della propria esistenza;

gente vestita bene invece che miseramente; ricchezza al posto delle proprie restrizioni ed emozioni vivaci al posto della monotonia quotidiana. Il contenuto più profondo dell'avvenimento rappresentato vie-

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ne solo raramente afferrato; lo si nota dall'apatia spirituale del pubblico, dalle sue risate fuori posto, ecc. La dimensione veramente artistica — la costruzione dei fatti, la condensazione degli eventi, le allusioni e gli intrecci, il rivelarsi dell'uomo e delle cose — viene appena e spesso non viene affatto avvertita dal pubblico, che normalmente frequenta il cinema, Esso vuole vedere semplicemente la realtà immediata: il più possibile abbondante, forte, eccitante e indiscreta.

Di conseguenza si ebbe un molto discutibile progresso, quando il parlato si aggiunse all'ancora severo film muto. Poi venne il colore, poi la terza dimensione e il cinerama. Cosicché ora lo spettatore ha l'impressione di trovarsi proprio in mezzo alle cose e alle persone rappresentate.

Quanto grande sia il peso della realtà nel cinema, si rivela paradossalmente proprio quando le cose proiettate non sono reali. Per esempio, si costruisce un edificio di carta in miniatura e si fotografa in modo che appaia come un vero castello. Ciò che vi si mostra, è dunque proprio il contrario d'uno scenario teatrale. Quest'ultimo non intende illudere, ma offrire un segnale alla facoltà immaginativa dello spettatore. La cosa è quanto mai chiara nel teatro di Shakespeare, dove, per esempio, sulla sinistra della scena sta un cartello con su scritto; « Qui è la selva ». Il cartello esige dallo spettatore che con la sua fantasia si crei l'immagine d'una selva; invece il modello di carta deve suscitare l'impressione che là ci sia un reale castello. Dunque realtà illusionistica.

La stessa cosa vale per Io più a riguardo dei trucchi. Se vedo bene, essi non hanno il significato di

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mezzi per stimolare l'evocazione, ma illusorie intensificazioni della realtà.

Da qui dipende la incapacità del cinema di suscitare il senso del mistero. Quando Amieto vede sulla scena lo spirito di suo padre, si sente l'arcano inquietante. Ma non perché vi avviene qualcosa di orripilante, bensì il senso di arcano timore emerge dall'elemento poetico della lingua, dai gesti degli attori, dalla situazione angustiante, cioè da genuine sorgenti artistiche. Quando invece nel cinema occorre creare l'atmosfera dell'arcano sinistro, ciò si fa per mezzo di trucchi, i quali simulano lo sconvolgimento delle dimensioni. Dunque non un vero mistero evocato, ma realtà che simula un falso mistero. Par-ticolarmente istruttivo in questo senso è il film Or-feo del regista Jean Cocteau, in cui dovrebbe emergere il mistero della morte. In verità egli aggiunge intellettualisticamente effetti sinistri alla realtà immediata dopoché a tale realtà ha anteriormente levato la serietà della verità per mezzo d'uno scetticismo che tutto pervade. Perciò un film riempito da una tale artificiosa realtà non è neppure favola.

La favola sta immersa tutta quanta nella fantasia contemplativa. E precisamente in una speciale tanta' sia; in una fantasia toccata dal mistero dell'esistenza, fidente, in qualche modo credula, la fantasia del bambino, o del « fanciullino » nell'adulto. La favola erige un mondo che, in altri rapporti, si profila come quello reale. In esso il bene è non soltanto la norma del dovere, ma anche, anzi direttamente, la legge dell'essere: l'uomo buono è anche quello bello o lo sarà; l'uomo nobile riceve onore; il cuore religioso ha potere sull'esistenza; e se anche le cose vanno a volte così male per la principessa, essa arriva un bei giorno senz'altro allo splendore. Ma tut-

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to ciò non è illusione, bensì promessa e fede. Non deforma la realtà, ma aiuta, attingendo al regno del sogno, a sostenerla. Invece il cinema scompiglia i criteri. Cuoce realtà e fantasia in un cattivo miscuglio dove l'una e l'altra si corrompono. In tal modo Io spettatore medio esce regolarmente insoddisfatto dalla sala, critico contro l'esistenza, perché, sotto l'influsso del film, che ha visto, non si ritrova giustamente in nessuno dei due ordini.

Quanto sia estraneo al cinema il mondo della vera favola, lo si esperisce ogniqualvolta ci si lascia indurre a vedere un film che ha per contenuto appunto una favola. È ogni volta una distruzione; poiché, al posto del mistero in cui si muove il sogno del bambino, o al posto del mito in cui, inconsapevolmente, si trasferisce il sogno dell'adulto, subentra il trucco, cioè la realtà contraffatta. Qui non fanno eccezione cose graziose e ricche d'invenzione come i films di Walt Disney. Anch'esse distruggono l'elemento di cui vive la favola.

Da tutto ciò deriva il massimo pericolo morale del cinema: non cioè la sua immoralità, ma la sua falsità.

Non è la irrealtà, che sarebbe in ordine. Amieto non è una figura reale ma poetica: è quello strano uomo con il suo destino così tragico e così commovente che il genio di Shakespeare ha creato. Egli è però « vero » perché rivela l'esistenza; ed egli lo fa in modo tanto più profondo quanto meno lo spettatore viene indotto nella tentazione di identificarlo con qualche personalità empirica, meno che tutte con la propria. Ma proprio questo effettua il cinema. Esso offre realtà, ma realtà corretta e adattata secondo i gusti del pubblico.

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Qualcosa di proprio brutto dunque: realtà senza verità. Mondo fatto di materia reale ma senza ordine in se stesso. Un mondo che fa così pensare:

Così sarebbe se ti fosse permesso quello che desideri..., se arrivassero le persone che ci vogliono e ti prendessero con sé..., se si presentasse la chance giusta...

Nel mondo del cinema oggi corrente tutto è inautentico. Il sentimento diventa sentimentalismo; il tragico disgrazia. La felicità non è più un dono della grazia, ma una vincita al lotto della vita. La sua logica non è quella della genuina realtà, ma non è neppure quella della vera rivelazione poetica, bensì quella dei più banali desideri, non controllati ne dall'onestà ne dal coraggio. E tutto ciò deve produrre conseguenze ben cattive, se si pensa quanti sono coloro che derivano il proprio ideale umano e i propri concetti del significato dell'esistenza dalle vicende cinematografiche.

Solo in questa atmosfera di non-verità anche le seduzioni sessuali del cinema acquistano il loro carattere deleterio. Il fondamento d'ogni etica è la verità. In essa trova il suo orientamento il giudizio morale. Ma qui non c'è verità, bensì inautenticità in tutto. Pensieri, sentimenti, bellezza, coraggio, successo, passione, svolgimento dei fatti, tutto nel film corrente è inautentico. Così la coscienza perde i suoi fondamenti e diviene incapace di giudizio.

Un altro problema nasce dal rapporto del cinema con la tecnica. Ripeto che noi dobbiamo prima porre in rilievo i lati negativi del films affinchè una

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sua eventuale valutazione positiva non abbia ad essere vaniloquio idealistico.

Nel teatro la recitazione è ogni volta nuova grazie all'azione dell'attore. Naturalmente essa è pure preparata con lo studio e l'esercizio. Inoltre la ripetizione del dramma reca con sé il pericolo della routine, allo stesso modo che il singolo attore stesso elabora nel corso della sua vita tutta una serie di modi di dire, di movimenti e di effetti che egli di continuo applica recitando. Ciononostante ad ogni recita è possibile che l'ispirazione si rinnovi e che la forma espressiva riesca diversa. Se si vede più volte lo stesso dramma, quanto più l'attore è grande, tanto più forte è ogni volta l'impressione che il gioco drammatico abbia luogo questa sola volta.

Nel cinema invece la meccanicizzazione è essenziale. Nulla è qui affidato all'ispirazione, giacché l'immagine viene appunto fissata meccanicamente e poi sempre in eguai modo meccanicamente proiettata. Perciò tutto deve essere elaborato fino nei minimi particolari. Bisogna ogni volta raggiungere idealmente lo stato d'una perfezione definitiva. Di conseguenza la sua originalità si fa discutibile. Da aggiungere ancora il fatto che la ripresa cinematografica si attua solo per frazioni minime d'immagine e perciò la grande unità dell'azione può imporsi con più difficoltà che non nel teatro.

Se si va più volte a vedere un film, si contempla al solito punto esattamente il solito gesto, si sente l'identico suono, si resta colpiti dallo stesso fatto sentimentale, un fatto che forse per sua stessa natura è qualcosa che si può verificare solo una volta. Allora si tradisce quanto qui venga bloccata quella che per sua essenza dovrebbe invece sempre sgorgare dalla libertà: la vita. Tutto ciò diviene ben

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presto insopportabile; e così nel cinema risulta impossibile fare ciò che solo negli altri casi introduce davvero in un'opera d'arte: vedere e sentire a più riprese, familiarizzarsi. Sembra che esso sia essenzialmente di carattere eccitante, impostato sull'effetto e sul sensazionale. Quanto penetri in profondo la tecnica nel nucleo del processo è dimostrato in modo particolarmente imbarazzante dalla sincronizzazione. Nell'uomo la parola viene dallo stesso centro vivente come l'aspetto del volto, il gesto e l'azione. Il parlare e il fare sono nell'uomo « sincronizzati », ma l'identico impulso di fondo — una gioia, la gioia di quest'uomo in quest'ora della sua vita che non ricorrerà più —. Nella sincronizzazione invece agiscono due centri: quello dell'attore da cui deriva l'azione, e quello del parlatore che pronuncia le parole. Il secondo viene sovrapposto al primo, cosicché i due centri non possono mai diventare uno. Perciò si ha, anche nella più abile delle prestazioni, l'impressione d'un dire che scorre parallelo a un gesto o a un suono, ossia l'impressione di una declamazione.

Senza parlare poi della penosa impressione che nasce quando una parola, per esempio, tedesca contrasta con l'impostazione della bocca nell'espressione inglese o francese; o quando le proposizioni vengono rabberciate in modo tale che le cose in qualche modo vi corrispondano.

Chi si pone in fase critica davanti a simili films è sempre tentato di dire: Qui si rivela l'inferiorità di valore di tutto il fenomeno. Il cinema sta a livello così basso, e la capacità del pubblico di percepire genuini valori viene così scarsamente presa in considerazione che tutti questi inconvenienti si accettano tranquillamente come tipici e del cinema

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e del suo pubblico. Il pubblico protesta perfino, quando a volte « non capisce ». Si da per già scontata la deformazione di questo complesso filmico così dissociato, purché si possa materialmente capire il parlato. Anzi, non si avverte affatto la sua innaturalità, perché a un tale pubblico non interessa l'arte.

C'è, in rapporto a tutto ciò, un altro fatto. Non è una novità se io qui richiamo l'attenzione sulla crisi in cui è entrata la capacità di vedere e di sentire dell'uomo in conseguenza della evoluzione tecnica. Quanto al sentire bisognerebbe discorrere piuttosto del fenomeno della radio. Limitiamoci al vedere.

Si dice che l'uomo d'oggi non vuole soltanto pensare ma anche adoperare gli occhi. Ecco perciò la tecnica fotografica e illustrativa del nostro tempo: le riproduzioni di paesaggi, di fatti culturali, di opere d'arte, di figure umane. Tutto ciò insegnerebbe a vedere meglio, a immaginare più vivacemente, renderebbe l'uomo più ricco nel suo possesso del mondo. È vero?

Temo di no. « Vedere » realmente significa essere sensibili per le qualità caratteristiche degli oggetti:

significa venire colpiti dalla loro essenza; afferrare come quest'essenza si esprime nella sua struttura, come vi si esplica. Ciò non può naturalmente avvenire in condizioni scelte ad arbitrio, non in fretta, non spesso, non in rapida successione. Ma è proprio questo che la tecnica illustrativa si aspetta dal nostro occhio. Essa lo sopraffa con una moltitudine di immagini, fa succedere rapidamente le impressioni le une alle altre; ce le presenta in acuti contrasti. Senza parlare di quell'aspetto d'eccitazione e di sensazionalismo con cui il tutto viene condito, e

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ciò allo scopo di evitare la noia, la quale noia però sappiamo bene che può nascere unicamente perché apriori si punta soltanto su di un'emotività superficiale. L'effetto è che colui che vede, vede in realtà non sempre più ma spesso meno. Qualcosa di simile si verifica a riguardo di quanto s'è detto sulla capacità evocativa: il vedere diviene più passivo, più ottuso, più tenue e realizza sempre meno quanto appartiene al nocciolo del vero vedere, cioè l'intuizione dell'essenza che si manifesta nell'elemento individuale.

Anche il cinema agisce in questa dirczione. È sen-z'altro chiaro che esso si rivolge soprattutto all'occhio. È impostato su piano ottico ancora più del teatro, dove la parola avrà sempre un'importanza più grande che nel cinema. Pure se la parola filmica si libera dal modello del dramma, anche se si potrà definire in che cosa consista la sua qualità specifica e il dialogo filmico potrà allora svilupparsi come specifica forma d'arte, anche allora il baricentro del cinema sarà di carattere ottico. Si potrebbe così essere dell'opinione che esso verrà ad incrementare la capacità di vedere come rapporto al mondo. Ma se ne può dubitare. Non appena con il termine « occhio » si intende qualcosa di più di una macchina fotografica organica, e cioè il momento soggettivo nella essenzialità del mondo, bisogna dire che il cinema gli nuoce. Chi vede spesso film con paesaggi, una volta che si arresti a soggiornare in un vero, non riesce quasi più a percepirlo nella sua realtà. Chi è abituato a vedere al cinema, nei documentar! giornalistici, il continuo scorrere davanti ai suoi occhi di corse di cavalli, competizioni pugilistiche, celebrità, avvenimenti pubblici, incidenti, mode, animali da esposizione in rapida successione, e accompagnate

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dal gergo del reportage, sarà poi capace di « vedere » volti, cose, fatti soltanto con le impressioni fugge-voli della cinematografia.

Ci sarebbe dell'altro ancora da dire sugli aspetti negativi del fenomeno filmico, ma può bastare ciò che abbiamo detto. Il risultato sembra sia che il cinema, a causa del suo rapporto con la realtà e con la tecnica, viene condannato a un'ambivalenza.

Esso sarebbe cioè soltanto un fenomeno di medio-ere valore, e la cosa più pulita sarebbe che esso si contentasse semplicemente di esserlo. La grande massa dei suoi frequentatori — cioè di coloro che sostengono il fenomeno — sembrano condividere sen-z'altro questa opinione. Essi evidentemente non vogliono nient'altro, perché non sono ne disposti, ne capaci di volere di più. Se avessero dovuto propriamente, e magari in forma' a loro stessi inconscia, volere di più, allora ne perderebbero l'abitudine. Allo stesso modo che coloro i quali vanno alla scuola del cinema a lungo andare perdono la capacità di trovare il teatro degno di essere visto, e tanto meno di comprenderlo realmente.

Coloro invece che desiderano di più, perché hanno la volontà e la capacità di realizzare di più, considerano del tutto conscguentemente il cinema come qualcosa di estraneo a simili loro aspirazioni. Si rifiutano di ammetterlo nella sfera della vera arte, vi vedono invece nient'altro che una pura distensione, ne usano e insieme lo disistimano. Se veramente vogliono qualcosa di autentico, vanno a teatro 1.

1 Una informazione privata mi assicura che dopo l'avvento del cinematografo è in aumento statisticamente il numero di rappresentazioni di valide opere teatrali. Il cinema libera il teatro dal peso di esigenze di scarso valore,

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Abbiamo detto proprio tutto? Evidentemente non ancora, poiché esistono films di altro genere e frequentatori di films che in essi cercano ben altro.

Nasce così la domanda se questi films e questi frequentatori rappresentano fenomeni marginali o se appartengano all'essenza del fenomeno stesso. Anzi addirittura se in essi non venga finalmente in luce — nel qual caso tutto il nostro discorso verrebbe capovolto — il significato autentico del cinema.

E qui dobbiamo assolutamente osservare che i punti di vista che oggi determinano la maggior parte del fatto cinematografico sono di natura puramente economica. Il cinema appartiene principalmente all'industria di consumo e non vuole altro, in fondo, che casse piene, ed è perciò legato ai desideri più quotidiani, anzi, fino a che almeno la legge e la polizia lo consentono, più volgari del pubblico.

Chi dunque intende giudicare il fenomeno cinematografico, deve distinguere fra il suo stato di fatto e le sue possibilità essenziali in modo incomparabilmente più drastico che a proposito del teatro. Il teatro dalla sua origine è determinato dal bene. Si incontra senz'altro il buono e l'essenziale in esso, e il mediocre si caratterizza già per se stesso come scarto. Il cinema invece è per gran parte semplicemente scarto, e l'essenziale bisogna mettersi a cercarlo. E se la conoscenza di questo essenziale, dunque una estetica e una etica del cinema è più difficile per la ragione indicata che non per il teatro, il quale si è già storicamente definito sulla base del bene, anzi dell'ottimo, anche la concreta critica e pedagogia del cinema sarà assai più difficile. Essa si troverà di contro un blocco di potenza economica,

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di pigrizia e di bramosia di piacere, per contrastare il quale occorrerà altrettanta superiorità che risolutezza.

Esistono film da cui si riporta una forte impressione di vera rivelazione dell'esistenza. Pensiamo al film americano Labbra suggellate, il quale mostra come un medico insegna a una ragazza sordomuta la lingua dei segni; come essa in tal modo si desta alla vita dello spirito e diviene una persona umana. Qui non c'è umanità fotografata, ma plasmata. Un'essenza si manifesta e un destino si schiude in un modo impossibile a un puro e semplice reportage di immagini. E tutto l'insieme si conclude in un contorno di perfezione espressiva in cui si può avvertire l'« esistenza ».

Tutto ciò però in modo diverso dal dramma teatrale. Ci si sente più vicini, più direttamente inseriti nella vicenda. Vi è operante una specie di precisione scientifica. I primi piani dei volti, per esempio, non soltanto creano un effetto di mestizia, di paura, di bellezza, ma dicono: Guarda bene! Questa è la mestizia, questa la paura, questa la creatura umana. Tutto ciò può divenire importuno; troppo prossimo, troppo esatto. Assai spesso lo diviene anche. Ma il film citato dimostra che ciò non avviene di necessità; dimostra che qui si da piuttosto una possibilità di portare lo spettatore in una propria e singolare immediatezza con la realtà umana, senza per questo divenire reportage, ossia pura riproduzione di realtà.

Nel film citato il gioco drammatico si limita a relativamente poche persone e vicende. Ce ne sono però altri più ricchi di azione, come ad esempio il film recentemente programmato dal titolo Distretto di polizia 21. Il solo fatto che lo si ricorda, è un se-

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gno del suo valore; giacché la regola è che un film, una volta veduto, si dimentichi. Ricordando invece questo, si nota quanto sia buono. Si tratta della battaglia d'un ispettore di polizia contro il crimine. Ma si tratta pure d'un suo problema personale, in quanto l'odio contro l'ingiustizia gli impedisce di vedere, in colui che la perpetra, l'uomo. Solo la morte gli apre lo sguardo. Tutto ciò si verifica in un distretto di polizia, con tutto il viavai e il disincanto che gli sono propri, ma tutto vi è autentico. E non soltanto giusto nel senso del reportage, ma rivelante . da dentro.

Perché questi due film sono buoni? C'è da dire anzitutto che il materiale realistico vi è circoscritto entro relativamente brevi confini e che vi recitano buoni attori. Ma soprattutto la trasformazione artistica della realtà riesce in maniera stupefacente. Paesaggi, strade, viaggi; un villaggio con l'angustia delle sue relazioni di vicinato, una fattoria con il suo lavoro e una stanza del distretto con il suo andirivieni: tutto rimane nel campo vitale dei personaggi e diventa vero elemento dell'azione. In tal modo il rapporto è diverso da quello di una scena di teatro. Qui reale, essenzialmente, è soltanto l'attore. E non dimentichiamo che i Greci e i Giapponesi limitano ulteriormente perfino la realtà di questi con l'uso delle maschere; che le forme più primitive della drammatica occidentale, cioè della sacra rappresentazione, le prescrivono la stilizzazione liturgica; che anzi, come ci hanno detto Kleist e Riike, l'attore perfetto sarebbe propriamente la marionetta!

Nel cinema le cose sono essenzialmente diverse. La realtà dell'attore viene sottolineata in quanto tale;

il primo piano ha anche questo scopo. Luoghi e ambiente, la grettezza della fattoria dove vive la sor-

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domuta e la confusione del distretto di polizia dove si svolge la tragedia, sono là egualmente come realtà. Ma tutto vi è trasfigurato, proprio come gli stessi personaggi. Si direbbe che anche la realtà recita insieme.

Qui si delinea dunque una forma di azione drammatica che non è ne un surrogato del teatro, ne una sua specie degenere, ma qualcosa di specifico.

Si potrebbe obiettare che i film sunnominati sono nati prima come dramma teatrali, e perciò il loro valore dipende propriamente dal teatro. Ma tale valore si ritrova anche in film che non soltanto oltrepassano ogni possibilità teatrale con la vastità dell'azione, il numero delle persone e la ricchezza degli elementi, ma che abbandonano consapevolmente e decisamente lo stile scenico, come ad esempio Ladri di biciclette. Ciò che vi si vede e che resta nella memoria sono anche — anzi vorrei dire: soprattutto — le strade e le piazze della città. Esse si fondono in un'unica, sconsolata realtà: la « strada » in quanto contrapposta alla fabbrica e alla casa. Costituisce uno degli elementi in gioco. Rappresenta l'altro polo di quella realtà esistenziale, il cui primo polo è costituito dalla disperata ricerca dell'uomo e dal muto trotterellare del bambino insieme con lui. Il correre delle persone e le strade senza fine sono insieme l'espressione di ciò che qui si svolge:

la penosa tragedia d'un'esistenza miserabile. E la potenza di trasfigurazione artistica è così grande che le strade fanno ciò che sulla scena fanno soltanto l'attore e i rari accessori: « recitano insieme » anch'esse.

Perfino in azioni drammatiche grandiose, con molti personaggi e grandi masse popolari, la realtà e le figure drammatiche possono conseguire questa par-

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ticolare unità. Alludo ai film russi del primo periodo; alla Kermesse eroica; a Les enfantes du Paradis;

o a Monsiew Vincent. La massa della realtà vi è potente. Paese, città, uomini, cose, fatti riempiono

10 schermo. Ma non si ha mai l'impressione che tutto ciò sia là nella forma del dato immediato o del:

puro rapporto fotografico. È trasfigurato dappertutto. Sono in ogni momento elementi del gioco, il quale in verità in ciò che gli è proprio è appunto irreale, rappresentazione, fantasia.

11 mondo diviene fantasia, e la fantasia diviene mondo. Si realizza un singolare incontro, non dissimile dalle grandi azioni pubbliche, attraverso il cui cerimoniale lo Stato presenta se stesso 1.

In questo senso sembra che si affacci nel cinema qualcosa di genuino e di specifico. Esso consiste in un incontro che soltanto là si può verificare fra realtà e fantasia; nella possibilità che soltanto là si offre di introdurre nel dramma il mondo con tutta la ricchezza dei suoi fenomeni o, viceversa, di dilatare il dramma, il gioco scenico nel mondo del pae-

1 Da questo punto di vista ci sarebbe da ricordare anche il giardino autentico. Nelle sue forme create dalla fantasia del giardiniere si compenetrano la vita umana e la natura. Questo principio si esplica in forma potente nel parco; ancora più nella plastica del paesaggio così sovranamente realizzata per esempio dal barocco. Anche qui la realtà entra nello svolgersi del gioco. Uomo e natura conducono insieme il gioco della esistenza « colta ». La questione chi sia qui che più precisamente gioca e quale sia il significato di tale fatto ci .porterebbe molto innanzi nell'analisi di ciò che significano rapporto con la natura e struttura della società.

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saggio, delle cose, della società umana e dell'opera umana.

Per riprendere un momento quanto già s'è detto, si potrebbe essere dell'opinione che il cinema sia il surrogato del teatro, impostosi come necessario in forza dei grandi spostamenti sociologici ed economici. Il teatro sarebbe legato ormai agli strati sociali superiori; ciò almeno nell'età moderna, dopoché il teatro pubblico dell'età classica e le sacre rappresentazioni del Medioevo sono scomparsi. Invece il cinema sarebbe il teatro dei molti. Quanto ci sia in ciò di vero, non sembra ancora ben dimostrato;

ma esteticamente tale opinione è falsa. Il cinema non è un surrogato del dramma scenico, ma qualcosa di per se stesso inconfondibile.

E non è neppure una sottospecie degenere del teatro. Naturalmente ha appreso molto da esso, cioè dalle forme finora in voga dello « spettacolo »; molti artisti sono arrivati al cinema dal teatro o hanno operato contemporaneamente in ambedue le sfere. Ma il gioco del cinema è diverso da quello del teatro e si evolverà caratterizzandosi sempre più decisamente dai princìpi suoi propri.

Una delle grandi possibilità offerteci — in bene o in male — dalla tecnica consiste nel fatto che l'uomo con essa può, anzi deve, affacciarsi su un campo di vita e di azione assai più vasto. È il campo universale della terra, inteso il termine non solo geograficamente e politicamente, ma anche umanamente e operativamente. L'uomo d'oggi non può far altro che pensare e sentire sempre più globalmente. Perché la vita della terra si restringe a vista d'occhio, e tutto ormai dipende dal problema se l'uomo è in grado di porre bene il piede su questo campo del mondo; se egli sa intendere i rapporti operativi che

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qui stanno in gioco, ne assume la responsabilità che essi gli impongono -e sviluppa le iniziative che gli vengono richieste.

Forse il cinema è una delle forme in cui tutto ciò può verificarsi su piano artistico. E il suo carattere come opera d'arte dipenderebbe allora dal fatto se tali collegamenti universali verranno esattamente e nettamente riconosciuti. A meno che il concetto di opera d'arte, che ci è ora familiare, non abbia a dimostrarsi improprio e se ne debba reperire un altro. Un concetto che esprime che qui si tratta d'una forma drammatica, in cui l'energia artistica dell'uomo, nei suoi aspetti visivi, sensitivi, immaginifici, prende possesso della realtà del mondo come tale. Questa presa di possesso del mondo nel gioco drammatico dovrebbe divenire uno dei presupposti della tecnica, la quale ne applicherebbe tutte le possibilità. In ciò consisterebbe comunque la differenza del cinema rispetto al teatro.

Naturalmente anche il teatro utilizza le possibilità della tecnica; ma soltanto nel senso d'una intensificazione e d'un miglioramento, pressapoco come noi oggi al posto della lampada a petrolio usiamo quella elettrica. Ma il teatro non dipende essenzialmente dalla tecnica. Nessuno, che abbia capito cosa sia spettacolo, dirà mai che il teatro moderno con tutte le sue apparecchiature per l'illuminazione e i movimenti di scena sia, come tale, migliore di quello di Goe-the o di Racine, o perfino di quello di Shakespeare. Si potrebbe piuttosto parlare d'una minaccia — si pensi agli esperimenti di Reinhardt.

Invece il cinema dipende, come tale, dalla tecnica e si appropria di continuo di ogni possibilità che essa gli offre. Ciò vale anzitutto per la fotografia che lo ha in sen-

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so assoluto fondato, anche e particolarmente nei suoi specifici metodi del primo piano, della dissolvenza, della prospettiva intcriore, della ripresa al rallentatore o all'acceleratore, ecc., grazie alle quali si rendono possibili forme rappresentative che non hanno più nulla a che fare con il vero teatro.

Ciò vale per le nuove conquiste tecniche dell'illu-minazione, del movimento, della esplorazione degli spazi aerei e subacquei, della macro e microscopia, ecc. Anche il significato del trucco dovrebbe essere ripensato da tale punto di vista, affinchè il film si stacchi dall'illusionismo da prestigiatore, cui si avvicina spesso in modo così pericoloso.

In tutto questo contesto dovrebbero essere collocate le varie questioni circa lo stile, allo scopo di avviare il cinema dal suo caotico sperimentalismo verso una responsabile creazione di forme.

Da non dimenticare la funzione di una vigile, giudiziosa e coraggiosa critica cinematografica che non si lascia influenzare ne dal pubblico, ne dal triumvirato « produttori — distributori — esercenti ». Il suo compito è così urgente — e così difficile — quanto la costruzione d'una strada attraverso la giungla o quanto la rimessa in ordine di una alimentazione generale compromessa dall'ignoranza e dall'assenza di scrupoli. Vero è che essa dovrebbe prendere il suo compito assai meno alla leggera di quanto normalmente avviene.

Se tutto ciò fosse vero; se penetrasse con chiarezza nelle coscienze e venisse assunto come un vero compito, allora si potrebbe forse anche intuire che parecchie delle qualità negative che si manifestano nel cinema nascono da un malinteso, in quanto si con-

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tinua a vedervi un teatro che ha perduto il suo stile. Ma tutto il problema avrebbe bisogno di altre considerazioni che qui non è più possibile esporre.

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IX

IL CORSO DELLA STORIA E IL COMPITO DELLA FEDE

Un'esperienza personale mi ha portato a considerazioni forse utili all'intelligenza della nostra situazione culturale e religiosa. È un'esperienza comunissi-ma, ma forse proprio per questo tanto più convincente, e io vorrei in questo saggio partire da essa. Un'automobile era stata portata a riparare. Quando il proprietario entrò in discorso con il capo dell'officina, il mio sguardo cadde su un meccanico occupato a un'altra macchina. Questa era stata sollevata sopra una piattaforma mobile; l'uomo lavorava sotto di essa in tranquilla sicurezza e comodità. Questo spettacolo fece su di me una forte impressione. Un senso di libertà emanava da esso. Una volta bisognava, per simili lavori, trascinarsi strisciando sotto la macchina ed eseguire penosamente la riparazione;

ora invece la pesante macchina era stata sollevata in alto premendo semplicemente un bottone e si trovava all'altezza desiderata perché l'operaio potesse fare tranquillamente il proprio lavoro.

Allora io ho sentito quale libertà l'uomo si conquista con ciò che si chiama « tecnica ». Prima egli era, ad ogni pie' sospinto, vincolato da necessità di fatica fisica; adesso tutte le fatiche vengono una dopo l'altra eliminate e vengono messe a disposizione dell'uomo energie prima insospettabili. Mi si presentò agli occhi intcriori l'immagine di un'esistenza in cui l'uomo non deve più « servire », ma disporre e « co-

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mandare », essendo ovunque pronte apparecchiature alle quali egli attribuisce i compiti con facili gesti. Prima egli era aggiogato alla natura; ora si trova già di molti punti al di sopra di essa e vi si troverà in sempre più larga misura. Prima egli doveva seguire faticosamente con le proprie forze le indicazioni della natura, sempre nel pericolo dell'imprevisto; ora è già divenuto in gran parte suo padrone e lo diverrà sempre più; calcola, ordina i risultati desiderati e ne dispone. In tal modo si va alterando nel modo più profondo la maniera con cui egli sperimenta ed attua il suo proprio essere, la sua posizione nel mondo.

Soprattutto egli si sentirà in possesso di una immensa potenza. Si sentirà capace di dominare la natura a cui finora era soggetto; e ciò in misura sempre più precisa, ovvia e leggera. Possederà una coscienza sempre più sicura di potersi « prendere » ciò che prima la natura gli « garantiva », anzi di poterselo « fare » da sé. Per mezzo della conoscenza scientifica delle strutture della natura e delle sue leggi, egli avrà l'impressione che la natura non sia un regno arcano in cui si debba muovere con grande rispetto ma semplicemente un insieme di materiali e di energie di cui può disporre in maniera sempre più completa.

Da tutto ciò deriva tuttavia un'altra conseguenza. Il rapporto di servizio in cui egli stava verso la natura significava pure che egli era da essa protetto; la padrona era anche la tutelatrice. La sua vita era ordinata dalle leggi naturali; e dai limiti naturali contenuta nelle misure del possibile. Tutto ciò cambiò,

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e ciò che in un senso era libertà divenne in un altro senso esposizione al pericolo. Anzitutto perché le imprese, ora divenute possibili, importavano un rischio sempre più grande; in secondo luogo, e soprattutto, perché andarono perduti esistenzialmente per l'uomo, nel suo sentimento dell'esistenza, dell'essere suo proprio e dell'attività quel sostegno, quella coscienza dell'ordine e della misura che si esprime nel concetto del « naturale ». La sua esistenza divenne in larga misura arbitraria, e, in un senso ultimo, priva di misura. Mentre egli diveniva sempre più signore e sempre più sicuro di poter imporre incontrastata la propria volontà, si ritrovò come in uno spazio vuoto, appoggiato solo a se stesso. Sempre di più la « natura » — inteso il termine nel senso più vasto per ciò che esiste « da sé » e agisce sulla base di leggi essenziali — diventa « cultura », diventa « tecnica », vale a dire realtà pensata e fatta dall'uomo. Sempre di più l'uomo passa da un mondo a lui « dato » e fondante in senso originario in un mondo da lui determinato, « artificiale ». Questo mondo non gli è più affidato e perciò anche garantito, da parte di una potenza superiore, come spazio della sua esistenza, ma è lui stesso che que-to mondo se lo fa e se lo deve perciò anche conservare, se si vuole che non crolli. Ciò comporta una faticosa tensione, per la quale è problematico che egli sia a lungo andare idoneo.

La storia dell'età moderna presenta forse già un sintomo di tale eccessivo sforzo. In questa età l'uomo occidentale si è stabilito nella sua autonomia; vale a dire, egli ha innalzata la pretesa — ma con ciò ha preso su di sé anche il compito — di esistere sulla base del proprio giudizio, della propria forza e della propria responsabilità. Tutto ciò però, non posse-

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dendo ne il grado di essere ontologico, ne l'energia corrispondenti: egli ha assunto l'intrapresa di esistere assolutamente, senza essere lui stesso assoluto. Per questo è penetrato nella sua realtà personale un eccesso di fatica, che l'ha messo in contraddizione alla propria stessa pretesa e l'ha portato ad abbandonarsi in balìa del totalitarismo. In quale estensione questa logica esistenziale si esplichi tutt'ora, fino a qual punto essa conduca a uno sconvolgimento, anzi a una malattia dell'intimo centro umano, è una questione ancora aperta.

C'è un'altra riflessione da fare. Un esempio: senza dubbio l'industria meccanica e chimica ha introdotto nel mondo dell'economia agricola grandiose agevolazioni di lavoro ed enormi accrescimenti dei risultati. Però il tessuto dei processi vitali che le erano anteriormente propri, la sua ricchezza di personalità, la sua impronta caratterizzatrice, la sua forza crea-trice di storia, e via dicendo, ora si contraggono ad un numero sempre più piccolo di operazioni tecniche, organizzative e calcolatrici.

Un altro esempio. Il « lavoro manuale » d'una volta era faticoso e ben limitato nel suo apporto. Ma esso aveva una sua specifica impronta che andò perduta nella industrializzazione, che pur risparmia il lavoro e accresce il rendimento, come andò pure perduta quella ricchezza di valori personali e sociali che si realizzava appunto nel fatto che tutto doveva uscire « dalla mano » dell'uomo.

Un'altra cosa ancora: quando si viaggiava nelle condizioni di traffico di prima, l'essenza del viaggio non consisteva unicamente nel fatto di trasferirsi semplicemente dal luogo di partenza al luogo di arrivo, ma anche nelle molte attività ed esperienze di vita che il viaggio comportava. Lo sviluppo della tecnica

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del traffico elimina gli ostacoli e i pericoli del viaggio, la lunga durata; ma anche attenua, anzi in fondo elimina dal viaggio tutte quelle esplicazioni di energia, tutta la ricchezza e la profondità delle esperienze che appunto quegli ostacoli rendevano possibili, così che l'evento stesso e la personalità che si esplicava in esso s'impoveriscono.

Per mezzo di quanto va sotto il nome di tecnica, l'uomo si conquista bensì una straordinaria sicurezza, facilità e molteplicità di produzione e di benessere, ma ci perde quanto a personalità. Ciò che resta o ne nasce è l'individuo costruttore e consumatore, la cui struttura vitale diviene sempre più estenuata e uniforme.

Una ulteriore questione è fino a qual puntò l'uomo del tempo avvenire sarà in grado di vivere correttamente la sua potenza di continuo crescente, la sua sempre più grande libertà di disporre, la sempre più radicale arbitrarietà della sua esistenza.

Avvenimenti come la distruzione di Dresda affollata di profughi o della città di Hiroshima, in un momento in cui non esisteva più una reale necessità strategica — indichiamo soltanto questi « particolari », mentre per sé tutta l'ultima guerra reca lo stesso carattere di arbitrio delittuoso e insensato — lasciano presagire quanto i fenomeni dell'uomo « dominatore » possano essere nella loro intima natura irrazionali, « casuali », o quanto forse dovranno es-serlo sempre più.

A questo punto mi è balenata un'idea che mi ha profondamente spaventato. Io avevo pensato che l'uomo moderno vada avanzando dalla natura verso la pura cultura; che egli cammini dal mondo delle cose cresciute spontaneamente verso quello tecnicamente costruito delle macchine e degli artefatti. Che

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non abbia a questo punto a verificarsi qualcosa di terribile, e che quella « natura », da lui abbandonata in quella primitiva forma che le veniva dalla creazione, non abbia a ritornare a lui in una forma seconda e fatale dalla sua propria stessa opera? Che non lo debba aggredire, dalle leggi, dai dispositivi finalistici, dai processi tecnico-funzionali, con una virulenza, anzi con una ostilità per la quale si può essere tentati di usare la mitica espressione di una « vendetta dell'oppresso »?

Noi tocchiamo con questo un contesto, a designare il quale per il momento abbiamo a disposizione solo concetti come quelli di « danno della cultura », di « malattia della cultura », di « avvelenamento tecnico » e così via. Il fatto che gli « scarti » dei processi tecnici — si veda l'inquinamento delle acque e dell'aria, l'inaridimento dei monti e dei piani, la minaccia pendente su ogni vita da parte dei prodotti residui della tecnica atomica — sia per diventare uno dei problemi sempre più difficili, colloca il fenomeno « uomo » in sempre nuovi problemi teorici e pratici.

Ma c'è di più ancora: che lo « scarto » della tecnica umana divenga un rischio, sempre più difficilmente dominabile, per il complesso dell'esistenza umana, rappresenta non soltanto un paradosso, ma rivela, bisogna proprio dirlo, un carattere apocalittico. Essa sembra alludere a sconvolgimenti dai quali l'uomo cerca il più a lungo possibile di distogliere lo sguardo, ma che si accostano sempre di più e diverranno per lui un giorno una questione di vita o di morte.

Quanto si è detto fin qui viene aggravato dal fattore « massa » penetrato di recente nella storia. Vi si intende anzitutto il progressivo aumento della po-

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polazione, poi però in genere i grandi numeri. E dunque, per esempio, il fatto sempre più chiaro, in forza dell'aumento del fattore democratico, che non solo determinate classi ma tutti ormai esigono uno standard di vita di continuo crescente e che di conseguenza tutti i processi economico-sociali aumentano in numero sempre maggiore: consumi d'ogni ge-, nere, possibilità di comunicazioni, turismo, informa-."..zioni, attività politica, s'affermano in misura sempre

più forte; l'istruzione, « la cultura » nel senso più lar-.;• go viene richiesta in misura sempre più vasta, e via '_. dicendo. Tutto ciò acuisce l'urgenza incalzante, il ca-';. ratiere costrittivo della scienza e della tecnica.

Come risulterà in genere chiaro da un'osservazione più precisa, i tré momenti che si chiamano scienza, tecnica e massa si presuppongono e si condizionano l'un l'altro. Quasi si vorrebbe dire che sono i diversi aspetti di un identico fenomeno di fondo, cioè di un modo di realizzazione dell'uomo. Quanto più i processi scientifici, sociali e culturali diventano numerosi, tanto più chiare diventano le loro strutture razionali, e tanto più incalzante la necessità — e nello stesso tempo anche la possibilità — di chiarirle con una penetrazione metodica, vale a dire, di dominarle scientificamente. È senz'altro anche chiaro che il numero crescente dei processi postula un dominio della macchina, cioè della tecnica, che a sua volta esige e rende possibile una ulteriore fondazione scientifica.

Tutto ciò conduce verso un'immagine di fondo dell'esistenza che potremmo in qualche maniera descrivere nel modo seguente: la molteplicità dei prodotti cresce; aumenta la sicurezza delle operazioni; tutto diventa « sempre migliore », più funzionale, molteplice. Ma nello stesso tempo tutto diventa in fon-

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do sempre più uniforme e monotono, perché la produzione e la distribu2Ìone tecnico-scientifica e meccanica di serie conferisce a tutte le cose un carattere identico, appunto « tecnico ». Da questo nasce nel complesso un quadro esistenziale in cui da una parte crescono di continuo le « quantità » ma decrescono le qualità spirituali e personali.

Si impone da tutto ciò una prognosi secondo cui lo stadio finale della nostra storia sarà quello di una massima richiesta ed esigenza di vita e di un massimo soddisfacimento di tale esigenza, ma nello stesso tempo quello di un'assoluta monotonia, di una noia intcriore; di un fastidio della vita che potrà esplodere e sfogarsi in eccessi di selvaggia impazienza, di folle rivolta contro tutto, per poi ricadere nuovamente nell'antica insignificanza.

Tutto ciò è già stato detto più volte. Solo ci si domanda se tale minaccia possa essere padroneggiata. E se sì, in che modo? O dovrà essere considerata come il modo con cui la nostra storia giungerà alla sua fine? Perché una fine l'avrà; e che questa fine non può essere pensata ottimisticamente, ce lo dice, al di là di ogni scienza della cultura e civiltà, la parola di Cristo.

Qui si aggiunge un aspetto psicologicamente, o spiritualmente, religioso. La psicologia e filosofia della religione di Rudolf Otto da una parte, la teologia di Soren Kierkegaard dall'altra hanno messo in chiaro la. differenza che distingue l'esperienza e la fede della religiosità universale, il carattere numinoso della realtà del mondo e della vita dalla Rivelazione. Le esperienze, operazioni, intuizioni, elaborazioni che

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compongono il primo gruppo, appartengono alla natura dell'uomo, mentre il secondo gruppo si fonda sulla libera gra2Ìa del Dio personale. Gli elementi appartenenti al primo gruppo sono tanto più forti, quanto più si retrocede nella storia; e diminuiscono a mano a mano che si afferma lo sviluppo scientifico, tecnico, organizzativo. Il fattore « religiosità » è un momento psicologico-culturale che, come tale, muta con la storia e precisamente in un modo che, se io vedo giusto, decresce costantemente in intensità, ricchezza ed energia creatrice. L'evoluzione della ratto e dell'energia tecnica lo indebolisce e appiattisce; è una realtà di fatto la quale, dove venga meno la capacità — e la volontà — di distinguere, conduce all'assioma che l'uomo razionalmente e tecnicamente evoluto diventa per necessità « irreligioso ».

Tutto ciò esige un esame più preciso. Anzitutto la questione in quale rapporto stia il grado della vitalità « religiosa » con il livello razionale e tecnico.

Quanto più decisamente avanza la penetrazione razionale dell'esistenza, quanto più questa razionalità diviene un elemento della cultura generale, tanto più forte si impone il sentimento che l'essere non ha « misteri », ma soltanto « problemi » che possono venire scientificamente risolti. La tecnica opera lo stesso effetto. Essa è il complesso dei metodi con i quali l'uomo può raggiungere i propri scopi, procurarsi ciò di cui ha bisogno, « fare » il mondo. Quanto più fortemente e ovviamente si introduce la coscienza di potersi procurare a volontà, con mezzi tecnico-razionali, tutto ciò che occorre per la garanzia e per lo sviluppo della propria esistenza, tanto più numerose saranno le cose e i fenomeni che

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nel sentimento vitale dell'uomo si assimileranno alla sfera logico-tecnica. La dimensione del non-razionale, di quanto può essere concesso soltanto per grazia, di tutto ciò che ha nome « provvidenza », va perduto. La stessa cosa si verifica in conseguenza del fattore massa. La molteplicità delle impressioni e degli stimoli non solo attenua la intensità dei processi spirituali, ma distrugge l'elemento del misterioso e del miracoloso, la cui esperienza è legata alle condizioni del silenzio ulteriore, della rarità. Solo sul piano meccanico ogni aumento dell'impressione ingrandisce proporzionalmente l'effetto; sul piano invece del vitale e dello spirituale non è così. Fino a un certo limite il crescere dello stimolo eleva e differenzia la impressione, suscita più profonda commozione, più forte stupore; ma oltre questo limite — che naturalmente è diverso a seconda delle diverse strutture — subentra l'abitudine. L'impressione si ottunde; l'apporto psicologico-spirituale diminuisce. So—-. prattutto scompare il fattore dell'arcano ovunque ,., presente nell'anteriore esperienza del mondo. Una di-:,' mensione dell'esistere va perduta. ,;

In questa stessa dirczione opera ciò che oggi con una specie di orgoglio infantile, si chiama la « distruzione dei tabù ». Quando viene dimostrato che in un certo fenomeno « dietro non c'è nulla », nessun mistero, nessun bisogno di particolare reverenziale timore, ma invece che tutto è logicamente comprensibile, « naturale », appartenente all'autointelligibilità dell'esistenza, allora restano certamente eliminati parecchi aggravi dalla vita; ma -nel risultato finale va perduto un momento originario ed esistenzialmente importante, e l'esistenza diventa banale.

Occorre dire la stessa cosa circa il sentimento della singolarità della persona. Avere riconosciuto la per-

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sona, era stato una delle più importanti conquiste dell'iniziale età moderna: ogni persona ha un suo carattere inconfondibile, una sua dignità, ed è insostituibile. Ma nella misura che il fenomeno della persona si moltipllcò con l'accrescimento demografico e lo si fece valere nel conseguente spirito democratico, esso perse il suo valore: quanti più sono gli uomini, tanto meno importa il singolo.

Tutti questi fattori hanno indebolito l'esperienza religiosa. Il mondo divenne così sempre più « profano ». Pur con tutte le conoscenze scientifiche e i risultati tecnici l'esistenza si ridusse in una dimensione essenziale a una maggiore superficialità.

Se tutto ciò è esatto, nasce la domanda su quali fondamenti psicologici riposi ciò che si chiama disponibilità, attitudine, decisione nei riguardi della Rivelazione, ossia, in una parola, « fede ». Un esame più attento conduce al sospetto che molto di ciò che in senso sommario si definiva « religione », che anzi lo stesso atto di fede consisteva, in parte più o meno grande, di elementi « religiosi ».

Così insorge il problema se la Rivelazione e la fede debbano esse stesse decrescere con il decrescere delle esperienze e degli atti vitali religiosi. E se quindi la tesi che la fede si reggesse sul presupposto che l'uomo non era ancora razionalmente e tecnicamente maturo, non colga nel segno.

Il problema è da prendersi molto sul serio. La disponibilità alla fede era senza dubbio più grande in un tempo in cui l'uomo viveva sotto le impressioni e le influenze di una natura non ancora o non abbastanza compresa e dominata. Egli sentiva ciò che non capiva come arcano, come « numinoso », ed era propenso ad ammettere dietro a tutto potenze sublimi con le quali aspirava ad entrare in rapporto

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e che venerava, invocava e cui poneva mente con re-verenza. A mano a mano che ciò spariva, tutte le realtà e le relazioni, che prima erano, nel suo sentimento, colme di valenza numinosa, divennero sempre più logicamente penetrabili, suscitarono sensi di sicurezza, di signoria e via dicendo.

Vi si aggiunse il vuoto spirituale operato dagli stimoli e dalle esigenze di vita di continuo crescenti. Sotto la loro pressione, i momenti religiosi acquisirono un carattere di immaturità personale. Divenne più difficile esperirli e realizzarli; gli atti religiosi divennero sempre più faticosi e vuoti. Quanto si verificò, fu ciò che Nietzsche espresse con la formula « Dio è morto ». La formula da allora in poi cresce di importanza. Significa che l'elemento numinoso nell'esperienza del mondo dilegua sempre più; che i suoi contenuti diventano sempre più inessenziali. Il mondo, che prima era colmo di mistero, perde sempre più i suoi velami. Perde il carattere della creazione e diventa « natura ». L'uomo acquista sempre più forte l'impressione di poterla fare da padrone con questa natura, di ridurla al proprio arbitrio, anzi di potere lui stesso produrre ciò che prima era « natura », di renderla come « cultura ».

Da tutto ciò si impone la domanda: unitamente al senso « religioso » del mondo va perduta anche la Rivelazione? Con l'esperienza religiosa perde il suo senso anche la fede?

È mia impressione che la pedagogia della vita di fede, che l'educazione e la prassi religiosa, la « teologia » nel senso più vasto, o non colgano affatto questo problema o non gli riconoscano l'importanza che ha. Il pericolo massimo, la forza più distruttiva contro la fede non mi sembra però consistere in difficoltà od obiezioni definibili, ma nella vacuità spiri-

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tuale che si determina per il fatto che l'elemento religioso immediato diviene sempre più debole. Perciò la fede, gli atti religiosi; il culto, i sacramenti, tutto si fa più faticoso. Insorge l'impressione che tutte queste cose siano in fondo superflue; che il mondo cammini anche senza di esse; che la vita divenga più adulta, più onesta, più seria, se vengono eliminati. Il fenomeno dell'ateismo che percorre il mondo sembra fondarsi realmente su tutto ciò, per essere poi senza dubbio sfruttato, politicamente utilizzato dai sistemi totalitari, anzi dai sistemi moderni in genere.

Che cosa significa tutto ciò per la conoscenza cristiana, per la vita cristiana, per l'educazione e la istruzione?

Non si tratta affatto a questo proposito di ignorare tutto ciò, e tanto meno si tratta di rivivificare artificiosamente attraverso metodi suggestivi o pedagogici l'esperienza religiosa in via di dissoluzione. Invece il problema deve essere posto con chiarezza. Quale deve essere la vera fede nella Rivelazione in un uomo o in un'epoca in cui quella debilitazione della sfera « religiosa » di cui s'è parlato è divenuta dominante? Appartiene la fede stessa a un periodo determinato dell'evoluzione storica, oppure è possibile, anzi doverosa in ogni periodo? E se sì: dobbiamo allora ammettere che esiste una situazione storicamente condizionata della (psicologicamente parlando) « nuda » fede, della fede senza « esperienza religiosa »; una situazione quale, per esempio, la biografia di grandi personalità cristiane ma forse anche esperienze che ogni credente in certe ore della vita soprattutto avanzata fa, sembrano rendere plausibile, situazione in cui l'atto di fede viene realizzato solo come fedeltà, come in un realismo del tutto

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sgombro di sentimento. In che cosa consiste ciò che in simili momenti rende la fede non Solo possibile, ma doverosa?

Questo che cosa non sembra sia ciò che l'apologetica razionale di tempi andati chiamava la « dimostrazione » dell'esistenza di Dio, dell'immortalità dell'anima, della verità della Rivelazione e così via. Quantome-no, simili argomenti necessitano nel senso più rigoroso d'una verifica realistica. Eticamente parlando, esse devono essere trattate con una veracità e con un rigore di coscienza che elimina tutto ciò che si chiama suggestione, Eriebnis « religioso ». Qui soprattutto si chiarisce ciò che la teologia intende quando chiama la fede una « virtù ».

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INDICE DEI CONCETTI

Angelo, 120 Impotenza, 52, 69, 70, 71,

Angoscia, 25, 43. 72.

Anonimità, 12. Inconscio, 104, 105,

Arte, 135-138. Interiorità, 60.

Ascesi, 132. Istinto, 108, 109, 111, 112,

Ateismo, 169. 113, 117, 118, 122..

Autorità, 55.

Leggere, 45, 46, 48. Bisogno, 92, 93, 94, 95, 100. Letteratura, 42.

Libertà, 36, 37, 38, 39, 60,

61, 63, 121. Libido, ' 111.

Cinema, 133 ss.

Coscienza, vitale, 110.

Cultura, 26, 28, 31, 68, 113,

114, 159, 168. . Malattia, 107, 110.

Massa, 90, 91, 134, 162. Mondo, 62, 63.

Demoniaco, 22, 53.

Destino, 110, 111.

Dialogo, 38 ss. Natura, 16, 28, 29, 31, 158,

Dittatura, 12-13 nota, 18. 159, 162, 168.

•e • i"ì ri n iv itr, Ordine, 30, 32, 33. Energia, 62, 63, 64, 6?, 130,

132. Pace, 7, 22, 23, 29, 35, 36, Esistenzialismo, 24-26. 40. Esperienza religiosa, 164, Pace assoluta, 30.

168,169. Parallelismo psicofisico, 100. Essere, 51, 66. Parola, 40, 43, 44, 45, 66,

t; • no -un 1^1 100. 143-Fantasia, 139, 140, 151. -n • ai

•e i 1-ini^n Pazienza, 41 Favola, 139-140. '

Fede, 167, 168, 169, 170.

Persona, 19, 60, 68, 77, 79,

166, 167. Gnosis, 119. Potenza (e potere), 15, 17-Guardare, 46. 20, 26, 28, 30, 31, 32, 33, Guerra, 7 ss., 36. 52, 53, 54, 55, 56, 57 ss, Guerra assoluta, 14, 19, 23, 125, 126, 158.

30 Profondo dell'uomo, 103,

104. Idolo, 125 ss. Progresso, 14, 17, 22, 27, Imperativo altruistico, 70, 76, 127, 131.

81. Propaganda, 21, 42, 44.

171

Prossimo, 75, 78, 79. Sofferenza, 93, 94.

Provvidenza, 54. Spirito, 113, 114, 115, 116,

119, 120, 121. Responsabilità, 12, 20, 21, Storia, 63, 18, 80, 121.

26, 29, 33, 37, 51, 119, Sublimazione, 109, 112, 115,

121. 117.

Rimozione, 105. Teatro, 134, 136, 138, 142,

148,' 149, 152, 153. Sanità, 94. Tecnica, 11, 27 nota, 53, 101, Scienza, 126, 127, 128, 129, i26, 127, 128, 129, 130,

130' 13L 131; 132, 152, 157, 161,

Scrivere, 45, 46. 164, 165. .

Secolarizzazione del cristia- Totalitarismo, 99, 160.

nesimo, 84. , .

Sentimento naturale, 75, 76, Vedere, 144, 145, 146.

77, 80 Verità, 37, 39, 41, 43, 141.

Simpatia, 39. Vo'ontà di potere, 53, 54,

Soccorso, 73 ss. 69.

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INDICE DEI NOMI

Adier A., 69.

Agostino (S.), 10, 39, 48.

Archimede, 32.

Bach, J.S., 113 Binswanger, L., 114 Bonaventura (S.), 127 Buytendijk, F., 114

Cocteau, J., 139

Dante Alighieri, 48, 127. Disney, "W., 140 Duse, Eleonora, 136

Forster, F. W., 94. Freud, S., 103, 105, 107,

108, 111, 112, 115, 117,

122, 123

Gandhi, M. K., 71. Giovanni Evangelista, (S.),

122.

Goethe, J.W., 48, 153 Guardini, R., 16, 26, 35,

135.

Hegel, G.W.F., 120 Heidegger, M., 24. Husseri, E,, 114

Kainz, P., 136 Kant, I., 114 Kierkegaard, S., 24, 164 Kleist, H., 149

Mann, Th., 131 Marx, K,, 121. Meynell, W., 30. Moore, H., 130

Nietzsche, F., 37, 61, 86, 168

Omero, 9. Otto, R., 164 Otto, W.F, 27

Pascal B., 15, 25, 121. Fiatone, 118

Racine, I., 153 Rahner, K., 51 Reinach, A., 114 Reinhardt, M., 153 Riike, R.M., 149 Ruffin, H., 115

Sartre, P., 24. Sche'er, M., 114 Shakespeare, W., 139, 140,

153

Smith, A., 122 Sonunavilla, G., 35. Spori, J., 125

Thompson, F., 30.

•Weizsacker, C.F. von, 26 Wessely, Paula, 136 Wundt, W., 106

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INDICE - SOMMARIO

I - Alla ricerca della pace . . . Pag. 7

II - La pace e il dialogo ... » 35

III - Domande sul problema del potere » .51

IV - II fenomeno del potere . . » 57

V - II servizio al prossimo in peri-

ricolo ....... » 73

VI - Sigmund Freud e la conoscenza della realtà umana . . . » 103

VII - Un idolo in formazione . . » 125

Vili - Riflessioni sul problema del cinema ....... » 133

IX - II corso della storia e il compito della fede . . - . . » 157

Indice dei concetti . . » 171 Indice dei nomi . . . » 173

 

 

 

 

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