Jesus n. 12 dicembre 1997
INNAMORATO
DI MARIA
San Giuseppe, protagonista silenzioso
di Marco Beck
Nel
suo ultimo romanzo, Come il
tragitto di una stella, edito dalla San Paolo
– del quale pubblichiamo il capitolo relativo al Natale –, Ferruccio Ulivi
scava nell’anima del padre putativo di Gesù. Ne
risulta un magistrale ritratto psicologico e
spirituale che fa piazza pulita della zuccherosa oleografia degli
Apocrifi e dei cliché popolari che hanno ridotto lo sposo di Maria a un comprimario della storia della salvezza.
In
forza di un coinvolgimento assoluto, Ferruccio Ulivi si cala all’interno non tanto della psiche quanto
addirittura del cuore (o, se si preferisce, dell’anima) di Giuseppe di
Nazareth. Si aggira nel suo quotidiano ambito esistenziale. Scruta la sua
storia d’uomo semplice e giusto, di santo non eroico, dalla giovinezza celibataria alle nozze con Maria, dalla nascita di Gesù
fino allo spegnersi del suo ultimo soffio vitale.
Intorno
al minuscolo nocciolo evangelico di Matteo e Luca, si espande una polpa
narrativa che oltrepassa il dato neotestamentario con un’audacia capace
di amplificarlo senza contraddirlo. In altri termini: il Vangelo non viene manipolato; solo qua e là prudentemente aggirato
in funzione di un’interpretazione moderna, libera ma equilibrata, fondata
su un sottile scavo interiore. Rispettoso nei confronti dell’esegesi
biblica, Ulivi rigetta invece la zuccherosa
oleografia degli Apocrifi, facendo nel contempo strage dei cliché
popolari (anche iconografici) sull’estenuata, mansueta, taciturna
pazienza del "vecchio" padre putativo.
Fin
dal suo primo affacciarsi all’orizzonte del romanzo, Giuseppe rivela un’umiltà
che non esclude affatto la fierezza. È, il suo, l’orgoglio di chi si sa
discendente della stirpe regale di David e, misteriosamente, sente di
essere chiamato a un’importante missione da
svolgere lungo la catena della Storia della Salvezza. Sogni simili ad
apparizioni, in cui il Messaggero ha per lui le sembianze del grande re d’Israele, gli preannunciano in modo oscuro
un destino salvifico. Ma qual è, quale sarà, in
concreto, il suo «carisma»? Dio che cosa gli
chiede?
L’interrogativo lo tormenta fino a quando l’incontro con
Maria e l’innamoramento per la fanciulla
(dipinta da Ulivi con mano delicata ma anche incisiva, più da Correggio che da Leonardo) gli svelano parte del Mistero.
Solo una parte: quella concernente il suo ruolo di sposo votato a una castità che dapprima pesa con durezza, poi
s’impone a Giuseppe con l’inviolabilità indiscutibile di un sacramento.
Il Mistero non si dissolve, invece, anzi s’infittisce sul versante della
paternità. Non gli è dato di conoscere il vero contenuto
dell’Annunciazione.
Maria non può rivelarglielo. Per amore di lei,
Giuseppe deve limitarsi a credere che quel figlio, Gesù,
ha un’origine soprannaturale, non è frutto di un’unione peccaminosa con
un altro uomo. Tutto ciò richiede, da parte sua, un lungo processo di
maturazione, di macerazione spirituale, che Ulivi descrive con maestria,
rendendo pienamente credibile, anche di fronte alla mentalità odierna, la
scelta di vita compiuta dal "suo" Giuseppe, l’integrale
oblazione di sé in un prezioso, nascosto sacrificio a servizio dei due
membri così immensamente "superiori" della Sacra Famiglia.
Spesso, egli non riesce a capirli. Nonostante la confidenza, che si nutre
di intensi colloqui (tra marito e moglie, tra
padre e figlio), una distanza incolmabile separa Giuseppe da Maria e Gesù. Essi «non gli
appartengono». Non può decifrarli fino in fondo,
mentre, al contrario, il falegname è per loro come un libro
aperto. Con una sorta di struggente reverenza, Giuseppe avverte
l’impressione di trovarsi «di fronte a due adorabili ma irriducibili
stranieri».
Sotto
i suoi occhi, il fanciullo cresce in età,
sapienza e grazia. Soprattutto in sapienza. Ulivi suggerisce
mirabilmente il senso dell’evoluzione messianica dentro la crescita
fisiologica di Gesù. I discorsi intessuti col
padre terreno (tra le cose più belle del romanzo) riflettono
una crescente consapevolezza teologica, acquistano via via spessore morale e spirituale. L’adolescente
finisce col diventare uomo, e a quel punto già si esprime da Maestro. Il
Cristo sta uscendo dalla crisalide familiare.
Il
compiersi dei tempi è intanto preannunciato, con efficace contrappunto, anche
da segnali disseminati sulle praterie o sulle lande della storia ufficiale,
abissalmente lontana dal "nido" di Nazareth, eppure con esso arcanamente collegata: i presentimenti di
Augusto, memore della lezione profetica di Virgilio; la lugubre empietà
di Erode "il grande" e del figlio Antipa;
l’inquietudine e il disordine morale di Tiberio; l’insediamento in Giudea
di Pilato, debole ma fondamentale pedina sulla scacchiera
dove sta per scattare un gioco che lo trascende.
D’improvviso, Gesù abbandona la casa
paterna: quasi senza preavviso, è iniziata la sua vita pubblica. E Giuseppe comprende che la sua missione subalterna,
ma pur sempre insostituibile, si è esaurita. Premuto dall’età declinante
e dalla stanchezza, si ammala per non più guarire, si corica sul
giaciglio per non più rialzarsi. Vissuta in fondo al pozzo della solitudine,
l’agonia di colui che Ulivi interpreta come un
antesignano del Battista, come un precursore del Precursore, sfocerà alla
fine in una vampata di luce trasfiguratrice.
Umile
e audacissimo al tempo stesso, il romanzo su Giuseppe ammette due forme
di lettura: una a livello "naturale", immanente, in sostanza "psicanalitico",
su cui si possono attestare gli intelletti più razionali; l’altra a
livello spiritualmente superiore, al confine con i cieli della mistica:
una lettura consentita solo a chi è più avanzato
sulle vie della fede e della cultura teologica. Secondo il suo grado di
maturità cristiana, ciascun lettore potrà dunque muoversi sulla
superficie della semplice lectio testuale,
oppure elevarsi alla meditatio e, finanche,
alla contemplatio.
Marco Beck
COME
IL TRAGITTO DI UNA STELLA
di Ferruccio Ulivi
Stava
arrivando la notte, e la situazione, nonostante le probabilità degli inizi,
minacciava di farsi inquietante.
Si
erano mossi, il falegname e la moglie, insieme a
un gruppo del paese in viaggio verso il centro amministrativo destinato
alle operazioni del censimento. Maria era
insediata sul dorso dell’asino; farla andare a piedi, anche solo qualche
tratto, nelle condizioni in cui si trovava di gestante quasi alla
scadenza del tempo, non era neppure immaginabile.
D’altronde,
il vantaggio della compagnia di altri in cammino non si sarebbe più riproposto. Avevano quindi dovuto decidere. Ma l’asino, sovraccarico, non poteva procedere con più
lena; il gruppo si era perso di vista. E
incombeva, prossima, l’oscurità.
Il
silenzio era interrotto a distanza dal latrato di un cane, dal passaggio
di un uccello notturno; per di più si doveva stare accorti per timore
dell’assalto di qualche randagio.
Semicurva
in sella, Maria mostrava di
essere esausta, senz’altro ristoro accessibile che qualche sorso
d’acqua, non scorgendosi intorno avvisaglie di abitati né attendamenti.
Il
firmamento era pieno di stelle. Sembrava, pensò il falegname, di essere convitati
a una splendida festa nuziale: ma era l’ammicco
di una regalità straniera, l’invito a un tripudio derisorio. Il cielo, sovranamente, maestosamente assorto nel suo trono
di diamante; perdutamente sommersa, insignificante la terra. E di
momento in momento più grave gli si faceva sentire la responsabilità di
quel viaggio, anche se a un tale punto non c’era
che una scelta: andare avanti a ogni costo, nella speranza d’imbattersi
in un luogo abitato.
Alla
fine, qualcosa si accennò. Non era che una
capanna, probabilmente destinata alla sosta dei greggi. In alto, era
possibile scorgere i lumi di una piccola città.
Sfinita,
la gestante oscillava fin quasi a traballare sulla fiacca cavalcatura.
Entrati
nella capanna, scorsero con sollievo tracce d’insediamento, un bue e un
asino legati alla greppia, dove i padroni dovevano averli lasciati, andando
a dormire nell’abitato. C’erano mucchi di strame, foglie, paglia.
Di
sghembo, batteva la luna.
Ansimante,
languente, la donna si era lasciata andare a qualche passo dagli animali,
dov’era più caldo. Osservando intorno, il marito pensò di accendere un
pugno di sarmenti. Dovevano essere vicine le doglie, e doveva
soffrir molto, anche se la pazienza e la volontà di resistere non le
erano mai mancate.
Il
silenzio era quasi corporeo. Lassù in alto, alla finestra, incombeva una
stella.
Sotto
quel fulgore amico, il falegname sentì stendersi le membra, rilassarsi la
tensione del viaggio. La donna gemeva. Ma un
attimo dopo non ci fu per lui più nulla, portato via, sottratto su un
giaciglio d’incantesimo, dove pervenivano solo fruscii, sibili, voci
sommesse. Ora entrava, tacitamente rapito, in un paese dalla
immensa vegetazione confusa tra colonne e sproni di templi; non
c’erano più cielo né terra, c’era solo un’inaudita, allietante
freschezza. I sogni arrivano con piede leggero, voci
gli alitano in faccia, suoni fluttuanti lo avviluppano, è una musica celeste,
un’atmosfera felice, ed egli apprende che è arrivato il tempo in cui le
greggi pasturano tranquille, vigilate da grandi forme serene... No, non
sono belve, o sono belve mansuefatte. Quando riapre gli occhi, ha davanti
a sé una donna che gesticola su qualcuno a terra, e, più in là, quattro,
cinque figure, forse pastori sopraggiunti a riprendersi gli animali, e
intanto fanno cerchio intorno al corpo a terra, che è sua moglie: la
quale accoglie in braccio qualcosa... qualcuno che è nato!...
Il
falegname si sfrega gli occhi, balza in piedi, si curva,
lei glielo protende...
Colui che prima non c’era ha occhi
inconsuetamente aperti, la faccia è color neve, le pupille di un bluastro
che la prima luce del giorno gli svela: il colore, balza in mente
all’uomo, del re dei sogni, dell’apparizione! E
il cuore, al falegname, sobbalza.
Sarà
un’impressione dovuta al sonno e alla stanchezza. Ma
della notte, e del sonno, un che gli permane; quasiché,
invece del latrato di un cane o del belato di un gregge, gli fosse
pervenuto il riflusso di un suono, l’accenno di una musica.
E nel
pensiero, o suggestione che sia, di quella impossibile
musica, si curva di nuovo, insaziabilmente, a contemplare il giaciglio
dove la madre e il neonato giacciono in preda alla novità della vita che
si annuncia.
A
Betlemme, piccola città raccolta in un nucleo antico e, più giù, alle falde
di un monte, si erano adunati nel tempo ricordi imperituri.
Lì era
nato David: e ancora, Booz e Isai, Gioab, Asaele, Abisai; c’erano i campi
di Booz, il pozzo di David, il sepolcro di
Rachele. E c’era soprattutto diffusa, non era difficile constatarlo,
un’aura di presagio, un colorito messianico dovuto al persistere di antiche profezie. In alto, era stretta nella
spirale di vicoli tortuosi, case e strade costruite su detriti
plurisecolari, nel tempo e fuori del tempo, tra il frantume degli anni e
il decomporsi di ogni memoria.
Il
falegname apprese che la zona, prossima a Gerusalemme, era frequentata da
gente di ogni specie: pellegrini, vagabondi,
disperati, fanatici, in cammino verso una meta dove si fondevano il
presentimento, la speranza e l’aspettativa di un arrivo: dove, poi? quando? come?
C’era
un presidio installato dal re. Da qualche giorno il gruppo era stato rinforzato.
Circolavano
voci sull’arrivo di una singolare comitiva da un Oriente remoto, un gruppo
di nobili cavalcanti, re, o forse saggi, astrologi o indovini, abbigliati
in fogge esotiche. Si diceva che andassero alla ricerca di un personaggio
misterioso, di virtù e caratteri particolari. Secondo altre voci, li
guidava una stella che splendeva proprio allora, traslucida, nel chiaro
invernale. Dinanzi ai betlemmiti, il corteggio
sfarzoso e pittoresco era stato visto sfilare ai piedi dell’abitato,
portando il senso e il colore delle cose lontane, il fasto e l’enigma
delle fantasie, dei sogni. Correva voce che avessero
deposto da qualche parte dei doni.
E qui il falegname poteva confermare. Era
davanti alla capanna dove sua moglie, con il nato in braccio, stava
rianimandosi dal parto: lì non era mancato l’omaggio.
Rassicurato
sul decorso delle giornate successive al parto, adempiuti gli obblighi
del censimento, il falegname era salito più di una volta a rifornirsi di
roba.
Davanti
al rifugio il transito dei greggi era finito. D’abitudine, non passava
che qualche gruppo a cavallo mandato a rafforzare guarnigioni, a impartire ordini o a preparare incursioni oltre
frontiera per rinsaldare il prestigio del regno. Il rumore delle
cavalcate rimbombava ora, invece, sempre più frequente, lasciando in aria
un sentore sinistro. In città, la gente andava e veniva come di consueto.
Ma non c’era, da qualche parte, un’insidia? Dei
bambini, come al solito, giocavano su una soglia,
con la madre che li sorvegliava; ma sarebbe bastata quella cura, quella sollecitudine,
a tutelarli?
Questo
passava per la testa al falegname, in cui il pensiero del neonato dalla
faccia di neve, dagli occhi stupefatti di trovarsi al mondo, generava una
tenerezza corrosa da un timore geloso, per la coscienza, che si era
destata in lui, di un obbligo tutto speciale verso un figlio non generato,
affidatogli dalla Provvidenza.
Certo,
tutto nella vita è rischio, basta la caduta di un sasso, il volo di una
farfalla, per giocarti la buona sorte. L’uomo non fa che adoperarsi a proprio
vantaggio, ma il capo estremo del filo sta altrove, in mani oscure. Ogni
nido è affidato all’instabilità di un albero, il vento agita gli steli,
la tempesta è sempre pronta a scoccare, il benessere che ci riscalda è
temporaneo, anche le sabbie del deserto celano un’insidia: «La mia
esistenza vale quella di una foglia: fa’, Signore, che non sia abbandonato
al peso della mia fragilità!». In queste invocazioni, senza poter
dormire, sommergeva nottetempo una tensione, un’inquietudine pronta ad
acutizzarsi al primo scricchiolare di assi della
capanna, al lontano muggito di un animale.
A
tutto ciò si aggiungevano l’imperversare del
tempo, freddo e piovoso, e, com’era ovvio, la crescente preoccupazione
per il viaggio di ritorno.
L’asino
che costituiva il loro mezzo di trasporto doveva
essersi rinvigorito col riposo: segno, di per sé, rassicurante. Ma un che di timoroso, d’insospettito, gli era entrato in
cuore. Col rifarsi del maltempo, la notte cadeva rapida, di colpo;
intorno, non c’era alito di vita. Solo, di quando in quando,
il fragore di un passaggio di cavalleria.
La semplice idea che qualche gruppo di costoro si attendasse nei pressi della capanna gli metteva i
brividi. Stretti sotto una coperta, nella paglia,
al buio, a Maria, provata com’era, sfuggiva
ogni tanto qualche gemito.
Sorprendentemente,
il neonato sembrava invece immune dall’istinto di vagire. La mattina, al
primo annunciarsi della luce, c’era da scommettere di vederselo lì accanto sveglio, con grandi occhi stupefatti, come chi
cerca qualcosa. Era anche in lui un presagio, un’insinuazione di angoscia?
Una
notte, gli sembrò di essere toccato sulla spalla. Balzò, attese immobile, poi si rigirò, provando a ripigliar
sonno. Ma il tocco fantasmatico
ebbe l’aria di ripetersi. L’impressione fu di essere
piombato in un cunicolo, impossibilitato a liberarsi: in fondo alla
strettoia, una luce siderale e, al centro, un globo traslucido, dove due
pupille spiccavano su un volto che l’esperienza e la passione gli avevano
insegnato a ravvisare.
"Lui!"
pensò con un fremito.
La
bocca formulò una sequenza di parole: «Prendi la madre e il fanciullo, e fuggi. Affréttati,
prima che sia troppo tardi. Non voltarti indietro, vai dritto
verso la strada del deserto».
Si
svegliò di colpo e si sfregò ripetutamente gli occhi. Non c’era alito intorno,
la notte incombeva, il buio, il silenzio incombevano.
Ma in modo singolare, era come se la figura
e l’ammonimento del sogno fossero insediati da tempo nella sua coscienza,
uscendo ora finalmente alla luce.
La
chiarezza si era fatta in lui.
Racimolati
qua e là i panni, arrivò a mettersi in piedi. Il cuore gli batteva forte:
"Sono entrato in un’altra epoca, decisiva, della mia vita" pensava.
Si era
deciso alle nozze in preda a una specie di
amorosa ossessione.
Questa
volta entrava invece a corpo vivo, a tutto rischio, nello spirito dell’avventura.
Diede un’occhiata fuori
verso l’albore. E c’era, bella e trepidante come
il fuoco di un aureo tizzone, a picco sulla capanna, quasi a dirgli "vieni,
e coglimi", la stella.
Era – si commosse a
pensarci – l’astro del suo, del loro, dell’imprendibile destino. Era un
piccolo lembo di paradiso che pendeva lassù cerulo, palpitante,
simile a un sogno, a un invito, a un’illusione.
"Prendimi
con te, stella" pensò. Aveva gli occhi sul punto di lacrimare, il petto
anelante.
Ma
quando guardò di nuovo in alto, la stella,
misteriosamente, era scomparsa. "Fatti coraggio, falegname" si
disse. "È il tuo momento".
Ferruccio
Ulivi
|