Dallo sposo di Maria riverberi sulla nostra vita
NEL MITE GIUSEPPE IL VERO COLPO DI SCENA
di GIANFRANCO RAVASI
Anni
fa, mentre ero in viaggio verso Montréal in Canada, rimasi stupito
vedendo in lontananza ergersi ai bordi della città un’enorme mole bianca
su un colle: seppi poi che si trattava del santuario di s. Giuseppe,
eretto nel 1904 da fratel André (frate laico della Congregazione della S.
Croce) e divenuto una sorta di tempio nazionale cattolico canadese. Era
la testimonianza di una devozione derivata, certo, dall’Europa, ma ormai
ramificata in tutti i continenti (sono un’ottantina le congregazioni
religiose che hanno s. Giuseppe nel loro titolo). Ebbene, nel giorno
dedicato a questo santo così popolare – il cui nome è il più diffuso (coi
vari diminutivi e vezzeggiativi) in Italia – vorremmo evocare qualche
tratto del suo volto che Luca con una pennellata dipinge come «uomo della
casa di Davide, chiamato Giuseppe, fidanzato di Maria» (1,27).
In
verità, a raffigurare maggiormente questo personaggio, tanto caro alla
tradizione cristiana (la voce a lui riservata nella Bibliotheca Sanctorum
occupa quaranta grandi colonne) e alla storia dell’arte, è Matteo che
s’incrocia con Luca nel dichiarare innanzitutto la sua discendenza
davidica. Entrambi gli evangelisti ribadiscono che era «figlio di Davide»
(Matteo 1,20), ossia «della casa e della famiglia di Davide» (Luca 2,4),
e confermano questo dato, in modo indiretto, attraverso la nascita di
Gesù a Betlemme, patria del celebre re ebraico, e in modo diretto attraverso
le due genealogie di Gesù che essi offrono. Sono note le discrepanze tra
questi due elenchi (Matteo 1 e Luca 3), persino sul nome del padre di
Giuseppe, Giacobbe per Matteo ed Eli per Luca. Lo scopo però di quelle
liste nell’antico Vicino Oriente non era storiografico bensì celebrativo:
si voleva, così, mostrare che Gesù – oltre che figlio di Adamo, cioè vero
uomo – era partecipe della stirpe ebraica attraverso Abramo ed era
inserito nella linea davidica che in sé conteneva la promessa messianica.
Giuseppe
è, perciò, attraverso un phylum generazionale, il tramite della
messianicità di Cristo, "incarnata" nella vicenda della
"casa di Davide". Il ritratto più accurato – come si diceva –
ci è, però, offerto da Matteo in quella sua pagina che è stata definita
"l’annunciazione a Giuseppe", parallela all’analoga di Luca che
vede Maria come protagonista (Matteo 1, 18-25). Non è questo il luogo, in
cui affrontare un simile testo, così pieno di colpi di scena ma anche di
difficoltà interpretative. Certo è che, dalle pagine di Matteo e di Luca,
emerge nitidamente la funzione di Giuseppe: egli sarà il padre legale di
Gesù. Sarà lui, perciò, a recarsi con Maria incinta a Betlemme per la
nascita, sarà lui a imporgli il nome durante la circoncisione, sarà lui a
dirigere la piccola famiglia nei primi drammatici eventi, sarà ancora lui
a partecipare alla vicenda collegata alla maggior età di Gesù, a dodici
anni nel tempio di Gerusalemme («Tuo padre e io angosciati ti cercavamo»,
dirà Maria) e sarà lui con la sua sposa a guidare il giovane figlio
(«stava loro sottomesso»).
Ma a
quel punto Giuseppe si ritira dalla ribalta della vita di Cristo. Vi
affiorerà indirettamente solo nelle occasioni in cui si ironizzerà su
Gesù e sulle sue origini da parte dei suoi avversari. Ne vogliamo citare
solo una, ambientata proprio a Nazaret, allorché i suoi concittadini, un
po’ sprezzantemente, dicono di Gesù: «Non è egli forse il figlio del
tékton?» (Matteo 13,55). Abbiamo lasciato la parola greca – che tra
l’altro in Marco (6, 3) è applicata allo stesso Gesù – perché su di essa
si è aperto un piccolo dibattito. Non è mancato, infatti, qualche
studioso, come G.W. Buchanan, che ha immaginato che quel vocabolo potesse
applicarsi anche a un piccolo imprenditore o a un amministratore
commerciale di impresa di costruzioni (il titolo del saggio era in
inglese significativo: Jesus and the upper class!).
In
realtà il termine greco indica di per sé chi lavora materiale duro come
legno, pietra, corno, avorio, forse anche il ferro (pur se il vocabolo meno
s’ada tta all’idea di "fabbro"). La resa
"carpentiere" o, quella più tradizionale, di
"falegname" è quindi corretta. Si è cercato di elevare questa
attività ricorrendo al vocabolo aramaico equivalente, aggara’, che vuol dire
sia "carpentiere" o "artigiano" ma anche
"artista", "mastro". Sta di fatto che Giuseppe non
può essere collocato in una sorta di middle class, come ha voluto qualche
esegeta, perché la struttura sociale della Galilea – accuratamente
vagliata dallo studioso americano S. Freyne – comprendeva solo due
classi: da un lato, i latifondisti, i notabili, i mercanti, gli ufficiali
e i sovrintendenti fiscali (ad esempio, Zaccheo) e dall’altro, una classe
modesta di artigiani, agricoltori, pescatori, braccianti e pubblicani
(ossia piccoli impiegati). Oltre queste due fasce, c’era solo la povertà
assoluta e l’emarginazione.
Giuseppe
e Gesù, quindi, si ritrovano in questa seconda fascia, certo fluida, non
riducibile alla povertà ma non comparabile alla nostra piccola o media
borghesia, tant’è vero che i contemporanei di Cristo ironizzavano proprio
sul contrasto tra la modestia delle sue origini e le "pretese"
delle sue parole e opere. E’, dunque, nel lavoro semplice e quotidiano
che Giuseppe ha condotto la sua vita e ha educato quel figlio che aveva accolto
come dono assicurandogli la sua paternità legale.
Null’altro
di lui sappiamo: saranno gli apocrifi a intessere sul silenzio evangelico
le loro dolci creazioni, fino a quell’estremo trapasso, tanto caro
all’arte cristiana. L’apocrifa "Storia di Giuseppe il
falegname", scoperta nel 1722 dallo svedese G. Wallin, mette sulle
labbra dell’agonizzante Giuseppe questa suggestiva invocazione: «O Gesù
nazareno, o Gesù mio consolatore, Gesù liberatore della mia anima, Gesù
mio protettore, Gesù nome soavissimo sulla mia bocca e su quella di tutti
coloro che l’amano!».
©
“AVVENIRE” - 19 marzo 2004
|