L'altra medicina

 

  
 

Molto tempo fa, abitavo a Reggio Calabria, nel rione San Giovannello, in via D numero 18. Il nome derivava da una chiesetta votiva consacrata a San Giovanni Battista. Era un rione di povera gente fatto nell'immediato dopoguerra dall'Ente Edilizio.

Non passava giorno che non si litigasse con qualcuno. Mia madre ne soffriva molto. Era cresciuta in altro ambiente e non ci si ritrovava (diceva sempre che all'occasione, se ne sarebbe andata via).

Lo fece, ma l'occasione fu, purtroppo, la morte di mio padre.

 

    Mio padre era nato da una famiglia povera e, sin da piccolo aveva fatto mille mestieri per sostenere prima la sua famiglia e poi la nostra. Il mestiere più antico di cui mi ricordo, era il venditore ambulante. Con un furgoncino a pedali, girava in lungo e in largo per i paesini intorno a Reggio Calabria. Aveva una personalità poliedrica. Sapeva fare di tutto e nello stesso tempo era capace di farsi largo tra mille difficoltà. Forse tutti quelli della sua epoca erano abituati a sopravvivere così.

    Non so come cominciò, ma avevamo interrotto ogni rapporto con la nostra dirimpettaia e suo marito. Il saluto però, rimaneva ancora con sua madre e con sua sorella (abitavano assieme). Con la dirimpettaia, non ci si salutava, non ci si parlava e non era infrequente che, se mia madre si trovava per altre faccende sulla porta di casa, questa sbattesse la porta per dimostrare il suo disprezzo.

    La cosa avvenne di giovedì. Lo so perché mio padre aveva ottenuto di fare riposo in quella giornata. Poteva così trovare i negozi aperti nel caso vi fosse bisogno. E lui ne aveva sempre bisogno (non stava mai fermo).

    Avvenne che un pomeriggio, da quella casa cominciarono ad uscire urla di disperazione. Vi erano tre donne, e vennero fuori tutte e tre urlando. Una di loro, la madre, teneva in braccio una bambina, la figlia più piccola (poteva avere un paio d'anni). Io ero sulla porta di casa e, vedevo quella bambina che continuava a cambiare colore. Diventava cianotica e dava segni evidenti di asfissia (suppongo, adesso, che si trattasse di intossicazione). Le donne continuavano a chiedere aiuto urlando disperate. La bambina, pareva, stesse morendo. Mio padre che era in casa, uscì fuori richiamato dalle grida e, resosi subito conto della gravità della situazione, corse incontro alla donna, le strappò dalle mani la piccola e, mentre la reggeva con la mano sinistra per il petto, vidi che teneva premuto il dito indice della mano destra contro l'ano della bambina. Lo tenne in quella posizione per qualche minuto, fino a che, lentamente, la bambina non si riprese. Fu così riconsegnata sana e salva alla madre. Mio padre rientrò in casa senza neanche un grazie da parte loro.

    Nei giorni e negli anni successivi, loro (i genitori della bambina) continuarono a non salutare e a non rivolgerci la parola come se non fosse successo nulla. Erano delle bestie e continuarono ad esserlo.

   Non so né dove, né chi avesse insegnato a mio padre quella pratica antica ma efficace. Forse l'aveva visto fare, o forse ne aveva sentito parlare. Chissà poi, chi l'aveva praticata per primo e poi tramandata per generazioni e ora persa per sempre, sostituita dalla moderna medicina.

    Allora non c'era il 118, ma credo che se ci fosse stato, sicuramente non avrebbe fatto in tempo.

   In questi giorni, ho chiesto a mia sorella se ne sapeva qualcosa. Mi ha confermato che quando i bambini hanno sintomi di asfissia, bisogna tappare il culetto. Non si ricorda chi glielo abbia detto. Non l'ha mai visto fare, tuttavia ha detto che è risaputo.

    Ogni volta che ho a che fare con un dottore, gli chiedo se ne sa qualcosa. Non ne ho ancora trovato uno che ne sia a conoscenza. E di conseguenza non ne sa neanche il perché.

Ma forse non è a loro che devo chiedere......