ITALIA NOSTRA ONLUS
Sezione Isola d’Elba e Giglio
SEGNALAZIONI |
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Di faccia a Piombino è il Cavo: il più vicino approdo dell’isola d’Elba, una volta spiaggia deserta tra ciuffi di tamerici, oggi paese di cinque abitanti, discosti tra loro. In mezzo, lungo un sentiero che porta ai pini e alle alghe del Frugoso, la Chiesa che congiunge quelle case sparse sui poggi e sulle rive è l’unico edificio che ospiti e raccolga insieme tutte le anime dove penetri lume di fede; e anche laggiù il campanile è il segno dell’ unità e della comunione.
Sulla spiaggia sorgeva un’ antica, forse la più antica chiesa cristiana dell’isola, dove la stupenda e silenziosa valle della Fanghiccia scende nel mare. Da remotissimi tempi in questa valle Etruschi e poi Romani attendevano alla fabbricazione del ferro, prima che Populonia divenisse la fonderia centrale del minerale isolano; e nel settembre del 1925 un pozzo di assaggio quivi scavato mostrava alla base del quinto strato residui di minerali provenienti da forni dell’età etrusca. E tanti altri forni erano in tutta l’ isola, che ai naviganti greci doveva certamente apparire quale terra di fumo e di faville, Aethalia”, com’essi chiamavano l’Ilva, l’isola dei Liguri Ilvates originari abitatori.
La comunità di questa valle, così prossima al continente, non tardò ad accogliere il messaggio cristiano, che aveva già portato l’ardore della nuova fede nelle squallidi solitudini di Pianosa e Capraia, le isolette circostanti.
Prima ancora dell’africano San Cerbone, vescovo di Populonia, era qui giunto il culto di San Menna, il martire egiziano perito nel 295: culto diffusissimo in Oriente e nel secolo sesto già entrato in Occidente. E qui, nell’imbocco della valle, sorgeva un oratorio in onore di San Menna o Mennate (Menas), oggi divenuto San Bennato, il cui nome originario resta in un documento del 21novembre 1236. Della Chiesa, attraverso maltrattamenti e rimutamenti demolita e ricostruita, esisteva ancora nel 1904 parte del coro rivestito esternamente di bozze martelliate, forse del sec. XV; ed il Ninci , che la visitò nel 1802, nella sua Storia dell’Elba ( Portoferraio, 1815), trascriveva che ricercando tra le rovine del pavimento, aveva trovato alcuni pezzi formati da parallelepipedi di pietra calcarea della grossezza e lunghezza del dito indice di un uomo. Si trattava forse di tessere divelte dal mosaico pavimentale in rovina, le quali hanno spesso quella forma e quelle dimensioni; ma questo particolare non basta a determinare l’epoca e il carattere della costruzione, perché l’ uso di pavimenti musivi si estende al pieno medioevo.
Adesso non esiste più niente; c’è solo una breve vigna ed un pozzo con lavatoio in quel tratto che la gente del luogo continua a chiamare “il sagrato”. Molti secoli dopo, nel 1902, un’ altra chiesa sorgeva ad un chilometro di distanza, presso le cave dei cavatori e dei pescatori; piccola Chiesa, priva di beneficio, disadorna, con la incompiutezza esterna di quelle chiese poverelle che vivono della carità di chi meno possiede.
Da sette anni i cavesi hanno fatto sorgere presso la Chiesa una canonica, cresciuta anch’essa fra gli stenti; e poco dopo han voluto, mantenuto dal popolo, il loro Sacerdote che resti sempre in mezzo ai fedeli: perché non abbia mai segni di abbandono la casa del Signore. Quella porta una volta chiusa, che si apriva solo alla Domenica, quando da Rio Marina scendeva ad officiare, benigno e pietoso, Don Andrea, ora è sempre aperta fino a tardo vespro. In certe ore ed in certe stagioni la Chiesa è tutto: specie nella stagione invernale. Quando lo scuro penetra nelle case e soffia il gelido vento di tramontana e gli uomini stanchi e insoddisfatti restano immobili guardare nel vuoto senza parole, le mamme, le spose, le ragazze, quelle che più sperano ed inducono a sperare, schiudono l’uscio ai tocchi della campana che le chiama alla benedizione e si avviano con cuore sollevato verso quei lumi che fanno vedere tanta luce anche se sono così pochi.
Ed ora sull’altare di S. Giuseppe i cavesi hanno voluto far innalzare una loro statua bella, quale non hanno mai visto così bella: la statua della madonna cara ai marinai. Autore della mirabile opera è un artista che dimora al Cavo da tanti anni e che non può restare a lungo lontano dal mare che lo ha consolato e animato nelle vicende e nei ricordi spesso amari della sua mobilissima vita. E’ lo scultore Zulino Rossellini fiorentino. Egli era ancora quasi adolescente quando il suo nome corse per gli ambienti artistici come il nome di un vincitore. Ma quel sorriso di buona fortuna mutò presto ; ed egli patì ingiustizia: uno dei patimenti più gravi quando colpisce l’artista nella sostanza della sua arte.
E venne lo scultore fiorentino a cercare fra gli scogli dell’ arcipelago toscano la sua pace: prima a Capraia, poi al Cavo, dove rimase a condurre una vita onesta e bonaria, ora schiva e taciturna, ora abbandonata e festosa nella sua interezza nota solo a quei pochissimi che possono goderne la confidente amicizia. Ed ha un suo intimo, quasi geloso amore dell’arte, che per lui è compostezza e armonia e unità e semplicità, senza i torbidi, inquieti, insinceri attorcimenti dei ricercatori metodici di novità. Rossellini ha modellato la Madonna per la Chiesa del Cavo. Quella sua istintiva ricerca di decoro e di eleganza, quella fuga, dalla vacuità degli enigmi ornamentali, quel suo gusto di modellatura limpida e chiara, quel suo tono quasi melodico dei lineamenti e degli atteggiamenti appariscono in questo ultimo lavoro come in una felicissima ripresa e progressione della sua operosità artistica. La Madonna è ritta in piedi, con il capo velato, ed un manto liscio che l’ avvolge tutta lasciando scoperta la veste davanti, che scende a pieghe ripide ed uguali come in certe statue arcaiche. E’ una immobilità quasi trepida, piena della vita in conoscibile e profonda che spira da un divino mistero, nella purissima giovinezza di quel volto dove l’amore e la pietà, senza le consuete leziosaggini, si compongono in una indissolubile forza di celeste potere. C’ è in quella statua qualche cosa che ci prende a poco a poco e ci commuove per quell’alito di beatitudine dolorosa e maestosa ch’ è proprio della santità cristiana.
Così Zurlino Rossellini ha portato dinanzi all’altare la sua arte ignara di mercimoni e di servitù e fra le tante impurità del secolo, per la piccola chiesa avanti al mare, ha plasmato con l’anima assorta e con le mani esperte la immagine sacra : Mater Purissima.
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