Umberto ECO, Il nome della rosa

Bompiani, Milano 1980

Introduzione
Il romanzo ricalca un conosciuto escamotage letterario: l’autore trascrive da un manoscritto del secolo diciannovesimo, con interpolazioni, che raccoglie un altro manoscritto latino degli ultimi anni del XIV, del quale rimangono citazioni e ampi frammenti in latino. Nel documento un certo Adso di Melk racconta fatti avvenuti alla fine del novembre 1327.

Marginalmente si può notare che non è difficile individuare dei tratti della personalità di Eco nel protagonista di tale racconto, il frate Guglielmo di Baskerville, che, come lui, è "vecchio" - ha 50 anni - e, ancora come Eco, è semiologo: "mai ho dubitato della verità dei segni".

La vicenda
La finzione letteraria presuppone che si tratti di una trascrizione di un manoscritto redatto da Adso di Melk durante gli ultimi anni della sua vita. E' la narrazione di alcuni fatti vissuti da lui stesso quando, giovane novizio, accompagnava Guglielmo di Baskerville nell'abazia benedettina d'Italia. Guglielmo, saggio francescano, ha la delicata missione di intervenire, con lettere dell'Imperatore, in una riunione fra i rappresentanti dei francescani e quelli della curia papale di Avignone, durante i confusi anni di Giovanni XXII. Tale riunione doveva celebrarsi nella ricordata abbazia come luogo neutrale. Adso, per decisione di suo padre, abbandona l'abbazia di Melk e accompagna Guglielmo.

Non appena giunto nell'abbazia, Guglielmo dà prova della sua intelligenza attraverso il modo di riconoscere il nome, le effigi del perduto cavallo dell'abate. Questi chiede allora a Guglielmo che investighi sulla morte di un giovane miniaturista.

Il giovane monaco Adelmo di Otranto era stato trovato morto la mattina stessa dell'arrivo di Adso e Guglielmo, nel burrone dove si gettano i rifiuti dell'immensa abbazia. L'abate dà il permesso a Guglielmo di interrogare tutti i monaci e di muoversi con libertà in tutta l'abbazia, ad eccezione della biblioteca, nella quale possono entrare solamente il bibliotecario e il suo aiutante.

Tutte le entrate a tale luogo si chiudono con cura nella notte. I monaci che lavorano nello "scriptorium" devono chiedere al bibliotecario i libri che desiderano, dopo aver consultato il catalogo.

Venanzio, specialista in greco, ha in questa stessa mattinata una discussione con Berengario, aiutante del bibliotecario Malachìa di Hildeshelm, a proposito del monaco morto, Adelmo. Nella discussione si fa accenno ad una relazione contro natura fra Berengario di Arundel e Adelmo di Otranto.

Durante il mattino del secondo giorno, si scopre il cadavere di Venanzio di Salvemec in una vasca riempita il giorno prima di sangue di maiale, per fare del sanguinaccio. Seguono, durante lo svolgimento delle indagini, le avvincenti conversazioni di Guglielmo con parecchi monaci e altri abitanti dell’abbazia. Di particolare interesse il confronto con Ubertino da Casale, francescano direttamente coinvolto, in quanto massimo esponente dell’ala spirituale, nei disordini e nelle aspre controversie tra francescani fraticelli e autorità della Curia avignonese. Guglielmo ha anche modo di conoscere Severino, l’erborista, nonché Jorge, monaco cieco ed erudito appassionato di temi apocalittici. Una volta ritrovato il cadavere di Venanzio, Guglielmo torna allo scriptrium; e incuriosito da alcuni oggetti che si trovano sullo scrittoio di Venanzio, ma non può interessarsene a lingo giacchè nasce una vivace discussione sulla liceità del riso: Jorge, il monaco cieco, sostiene con veemenza essere il riso cosa cattiva.

Grazie ai colloqui con Bencio di Upsala e Berengario, Guglielmo scopre parecchie cose sulla biblioteca e sulla vita dell’abbazia, alcune in verità ben poco edificanti. La conversazione più importante si svolge per altro con Alinardo, il più anziano dei monaci. Pur demente, Alinardo lascia affiorare nel suo discorso elementi atti a risolvere l’enigma della biblioteca. La notte, con l’aiuto di Adso, Guglielmo si introduce nella biblioteca, costruita come un labirinto, con i suoi specchi curvi e svariati artifici. Scopre simboli negromantici e reperisce un libro che potrebbe essere la chiave della morte di Venanzio. Tuttavia il libro sparisce in quanto un misterioso visitatore entra anche lui nella biblioteca e se lo porta via, precedendo Adso e Guglielmo.

Tutto il terzo giorno è dedicato a discorsi con vari personaggi. Tanto Adso quanto Guglielmo parlano con Salvatore: è un uomo semplice, che arrivò all’abbazia accompagnato dal cellario, amministratore dell’abbazia. I due sembrano aver partecipato alle rivolte della setta dei "dolciniani" (serguaci di Dolcino, che praticava una specie di comunanza totale dei beni e finì nell’eresia). Guglielmo parla anche con l’abate, e tale conversazione lo aiuta a districare l’enigma della biblioteca. La notte, di nuovo in biblioteca, Adso sfoglia alcuni libri. Tornato nella sua cella vi trova una ragazza e pecca con essa. Sconvolto dal peccato commesso si confessa con Guglielmo. All’inizio di questo terzo giorno si era constatata la sparizione di Berengario. Nella sua cella si trova solo con un panno sporco di sangue, che sembrerebbe l’indizio di una terza morte. D’altra parte il vecchio e demente Alinardo da Grottaferrata fa notare che le morti seguono i segni delle sette trombe dell’Apocalisse e, con la terza tromba la morte viene con l’acqua. Infatti la mattina del quarto giorno si trova Berengario nei bagni, in apparenza affogato. Esaminando il cadavere, Guglielmo e Severino, l’erborista, scoprono che ha la lingua nera e che nere sono anche alcune dita di una mano. Le stesse caratteristiche erano state riscontrate sul cadavere di Venanzio. Severino confida a Guglielmo che anni prima era stato rubato dal suo laboratorio un potente veleno. Guglielmo riesce a far confessare al cellario e a Severino il loro turbolento passato. Trova anche gli occhiali che gli avevano rubato, forse per impedirgli di decifrare i segni trovati sul tavolo di Venanzio. Poco dopo giungono i legati papali e quelli francescani. Le legazioni dovevano riunirsi per cercare, con la mediazione di Guglielmo, di addivenire a un accordo, seppur parziale, circa lo spinoso problema della povertà.

La notte dopo Guglielmo e Adso entrano di nuovo nel labirinto e giungono fino alla soglia del finis Africae, la stanza che cercavano. Non riescono ad aprire la porta non sapendo decifrare la chiave, che appare in uno scritto lasciato da Venanzio sul suo tavolo di lavoro. Alla fine della notte, Salvatore viene scoperto con una ragazza del paese vicino, la stessa che era stata con Adso.

Il quinto giorno si apre con l’incontro fra i legati papali e rappresntanti francescani, incontro che si risolve in una tesa e a tratti violenta discussione sulla povertà. I punti di vista non si conciliano e la riunione fallisce completamente. Mentre si discute in una delle sale dell’abbazia, Severino racconta a Guglielmo di aver trovato uno strano libro nelle sue stanze. Guglielmo gli raccomanda di custodirlo finchè termini la riunione e possa vederlo, dato che potrebbe trattarsi del libro tanto cercato. Ma al termine della riunione si scopre il cadavere di Severino, brutalmente assassinato con più colpi, inferti con una sfera armillare. Il libro è sparito. Bencio, da poco aiutante in biblioteca, a riportato in biblioteca il volume trovato nell’erboristeria; così spera di guadagnarsi la fiducia dell’abate e potere un giorno bibliotecario. Il rappresentante della curia papale, Bertrando, giudica Salvatore, che confessa di appartenere alla setta dolciniana. Anche il cellario viene sottoposto a giudizio, poiché dalle dichiarazioni di Salvatore e del bibliotecario emerge la sua appartenenza alla stessa setta. Entrambi vengono inprigionati, insieme alla ragazza, per essere più tardi condotti ad Avignone e condannati. In base ad alcune voci circolanti fra i monaci dell’abbazia, Guglielmo comincia a sospettare che l’incarico di bibliotecario sia la chiave per far luce sugli omicidi e trovare il libro scomparso.

Il sesto giorno Guglielmo e Adso assistono al mattutino, benchè fossero stati dispensati dagli uffici liturgici. All’inizio dell’ufficio è assente il bibliotecario, Malachia di Hildeshelm. Più tardi si presenta nel coro, ma poco dopo si accascia sul suo scranno, morto, sotto gli occhi di tutti. Guglielmo lo esamina e di nuovo trova che la lingua e le dita sono nere. Seguendo la sua intuizione, cerca di venire a conoscenza della storia di quanti hanno coperto l’incarico di bibliotecario negli ultimi anni. Erano tutti stranieri, ma Malachia, l’ultimo, non aveva le qualità necessarie per questo incarico; perché dunque fu scelto dall’abate attuale, che a sua volta era stato bibliotecario?

Ancora non è sorta l’alba del settimo giorno, quando Guglielmo trova il modo di entrare nell’ultimo recesso del labirinto della biblioteca, premendo su certe lettere di una iscrizione. Entrato, trova ad attenderlo Jorge di Burgos, l’autorevole monaco che, secondo quanto aveva intuito Guglielmo, stava dietro tutti gli omicidi. Il movente era di salvaguardare il segreto della biblioteca: un manoscritto del libro II della Poetica di Aristotele, ritenuto perduto, in cui il filosofo parla del riso. L’anziano monaco lo considera pericoloso, perché può far perdere la paura del diavolo. Guglielmo sfoglia il volume, incoraggiato dal monaco, che non sa, essendo cieco, che egli porta i guanti: così Guglielmo si salva, benchè Jorge di Burgos avesse unto molte pagine del libro con un unguento appiccicoso contenente veleno: inumidendosi le dita sulla lingua per cercare di separarle, il lettore si sarebbe avvelenato. Questa era la chiave delle morti misteriose.

Tempo prima Guglielmo aveva già concluso che Adelmo si era suicidato. Il giovane monaco era impazzito per le apocalittiche parole di rimprovero di Venanzio, durante la confessione in cui gli aveva rivelato il suo peccato con Berengario, al quale aveva ceduto per conoscere il segreto della biblioteca. La tempesta aveva fatto si che fosse ritrovato lontano dal luogo del suicidio e che sembrasse essere precipitato dalla finestra.

Venanzio, sorvegliando i movimenti di Adelmo e Berengario, riesce a scoprire come arrivare al libro; sfogliandolo, vittima già del veleno, scende in cucina in cerca di acqua e lì cade morto. Berengario lo trova e, perché questa morte venga attribuita a circostanze fortuite e non si svolgano indagini, si carica il cadavere sulle spalle e lo getta sulla tinozza del sangue di maiale. Pulisce le macchie con uno straccio e, spinto dalla curiosità si nasconde nei bagni per guardare il libro, trovato presso il cadavere. Muore così anch’egli avvelenato. Il libro resta lì, e lo trova Severino. Malachia, istigato da Jorge, uccide quindi l’erborista.

Mentre torna in biblioteca, contravvenendo l’ordine di Jorge, sfoglia il libro e muore a sua volta. Quando il monaco cieco si rende conto che Guglielmo non è stato avvelenato, gli strappa il libro e comincia a farlo a pezzi, mangiandone le pagine. Nella lotta che segue fra i due, cade una lampada, s’incendia la biblioteca e il fuoco si propaga a tutto il monastero. Muoiono così quasi tutti i personaggi del romanzo. Il romanzo termina con un discorso di Adso, ormai anziano e tornato nella sua abbazia di Melk. Guglielmo è morto di peste alcuni anni dopo i fatti narrati nel manoscritto.

La capacità narrativa dell’autore, la sua abilità nella descrizione di taluni ambienti – segnatamente il refettorio, la biblioteca, il labirinto – è assai notevole. Meno convincente appare invece la caratterizzazione dei personaggi, anche perché questi ultimi sono concepiti in funzione di una tesi da dimostrare, sulla quale occorrerà soffermarci.
 


François Livi

Da "Cultura e Libri", anno II, n. 8 – maggio/giugno 1985, pp. 133-145