Uno sguardo d’insieme alle attività sviluppate nel Progetto Socrates e ai loro significati educativi nel primo quadriennio di esperienza in partenariato

La filosofia del Progetto Educativo Europeo

Il Progetto "Socrates/Comenius-Azione 1" che prese il via nel 1997 in un’intesa di partenariato fra la nostra e altre due Scuole della Comunità Europea, e che oggi annovera cinque Scuole comunitarie impegnate su un condiviso motivo educativo, si presenta come un insieme sinergico di idee, di proposte, di sforzi, di realizzazioni, di confronti e di valutazioni proiettato su una linea di sviluppo e di ricerca attorno al tema centrale della formazione integrale della persona e rivolto alla crescita intellettuale e socioculturale degli studenti.

I primi tre anni del Progetto (1997-1998-1999) hanno assistito allo sviluppo di un lavoro educativo di impronta metacognitiva, sotto la denominazione di "La didattica metacognitiva nell’insegnamento delle strategie di pensiero e di apprendimento per la fascia di età 3-14 anni". Nell’anno 2000 ha visto la luce un nuovo Progetto che, non trascurando l’indirizzo epistemologico della precedente esperienza, si volgeva più specificamente al dominio della creatività e dell’emotività in funzione della crescita culturale degli studenti. Questo secondo Progetto, che attualmente (luglio 2001) volge alla conclusione del primo anno di sviluppo, ed ha ottenuto dalle Agenzie Nazionali "Socrates" della C.E. l’autorizzazione al proseguimento per il secondo anno, è stato intitolato "Creatività del pensiero e intelligenza emotiva: un’educazione per l’unitarietà della persona come sistema integrato".

 

L’itinerario intrapreso ha sondato piste evolutive che presentavano un forte interesse di taglio educativo. Tutto questo in vista del raggiungimento di un grande obiettivo che veniva collocato, nelle previsioni più realistiche, a medio e a lungo termine.

Abbiamo iniziato interessandoci alle potenzialità umane mobilitate nell’apprendimento scolastico e all’individuazione di percorsi educativi e metodologici che ne avrebbero auspicabilmente garantito lo sviluppo a livelli ottimali.

Ci siamo dunque rivolti alla componente metacognitiva dello strumento didattico, puntando soprattutto alla creazione di "consapevolezza" all’interno degli spazi dell’apprendimento scolastico, spostando l’assimilazione pura di contenuti di sapere in una posizione per così dire subordinata e di connotazione più strumentale rispetto a quella che una visione metacognitiva dell’approccio didattico avrebbe potuto occupare per una migliore formazione integrata della persona.

Procedendo nel nostro lavoro abbiamo via via maturato l’idea che la prospettiva metacognitiva ci avrebbe offerto notevoli possibilità nei nostri tentativi di equipaggiare al meglio gli scolari sulla via dell’apprendimento e della crescita culturale. Abbiamo compreso quante e quali valenze evolutive si richiamino al criterio della precocità dell’intervento e quanta strada ricca di significato si sarebbe aperta dinanzi al nostro procedere per certi versi, all’inizio, ancora un po’ incerto quand’anche non addirittura incredulo.

Le riflessioni che emergevano, cammin facendo, l’occhio sempre puntato allo sviluppo della persona come sistema integrato con il contesto di appartenenza e con il suo spazio di vita ecologico, estendevano il campo del nostro interesse a quella dimensione dell’intelligenza umana che si riveste in modo privilegiato di tonalità creative e di echi emozionali.

Le informazioni raccolte dall’analisi della più recente letteratura pedagogica rivolta all’età evolutiva hanno ben presto indotto a riflettere sulla incompletezza epistemologica che uno studio fondato esclusivamente sui poteri razionali dell’uomo andava via via spingendo all’evidenza.

Di grande peso, nell’orientare le nostre scelte metodologiche, è stato il tentativo di comprendere, sul piano delle possibili conseguenze, la divergenza di funzionalità, di processazione, di finalizzazione che si va creando in ampia misura fra il sopravanzare precipitoso di una realtà sociale infarcita di tecnologie sempre più sofisticate e caratterizzata da balzi progressivi sempre più rapidi nella scoperta e nella realizzazione di nuovi attrezzi atti ad agevolare l’esistenza dell’uomo da una parte e, dall’altra, la crescente emarginazione dell’uomo medio stesso, dovuta alla sua incapacità di tenere il passo, nel modo di comprendere e di adeguarsi, alla prorompente corsa scientifico-tecnologica.

Non si risolve tutto.

Da quanto detto verrebbe forse di pensare che sia facile risolvere gli innumerevoli problemi scolastici legati alle difficoltà di apprendimento e all’insuccesso. Basterebbe, parrebbe di poter inferire, impostare il nostro modo di fare scuola secondo i canoni di una ben intesa didattica metacognitiva e all’insegna delle emergenti preoccupazioni per la creatività e per l’emotività nel considerare il potere intellettivo dei nostri studenti.

Ma non è così, o non lo è del tutto. Lasciamo lontano da noi qualsiasi vana tentazione di onnipotenza. Forse non vedremo i risultati del nostro lavoro, forse ne avvertiremo soltanto i segni di un embrionale abbozzo.

Non possediamo la sicurezza del conseguimento dei risultati sperati; la nostra è un’euristica aperta. Non abbiamo scelto questo tipo di percorso metodologico-didattico solo perché, forse, poteva costituire una novità o poteva esserci apparso come qualcosa di originale e di diverso dal solito modo di implementare l’approccio educativo con gli studenti.

Scelta c’è stata, ovviamente, ma si è trattato di una scelta ponderata, discussa, analizzata, criticata, riveduta. Una scelta operata, infine, dopo una vasta ricerca documentale nel mondo dell’editoria specifica, dopo riflessioni individuali e collettive che hanno indotto a credere, e a ben sperare, in ciò che stavamo accingendoci a fare. Una scelta, innanzitutto, a fronte di un nuovo tipo di analfabetismo che sta diffondendosi nei giovani e nei giovanissimi e sta minacciando paurosamente lo scenario culturale-sociale di domani, dove si dovranno assumere decisioni e responsabilità determinanti: ci stiamo riferendo alla incapacità di ragionare.

Pare paradossale ma, nel mondo delle superspecializzazioni tecnologiche, dove per un verso vengono consegnati ai nostri figli strumenti sempre più sofisticati, rapidi e versatili di comunicazione e di conoscenza, dove per altro verso tutto o quasi viene offerto alla portata immediata d’uso e consumo, dove le difficoltà riguardanti l’avere, il possedere, sono o vengono fatte apparire ridotte al minimo, dove la vita promette un percorso sempre più agevole su una strada spianata e priva di ostacoli, dove sforzo-sacrificio-costanza-volontà stanno riducendosi a una catena di termini obsoleti e spogliati di senso, ecco, proprio in questo mondo crescono nuove generazioni che imparano a far sempre meno fatica nell’uso del pensiero comune, del pensiero possibile, del pensiero riflesso, del pensiero creativo. Il motivo esistenziale che le nuove generazioni stanno apprendendo racconta di qualcuno che fa per altri e di qualcuno che, comunque, arriva persino a pensare per altri. E i nostri figli imparano a servirsi, a farsi servire, e a pensare sempre meno in senso costruttivo/elaborativo/propositivo.

L’intento che le nostre scelte portano con sé non è dunque, ora pare più chiaro, quello di innalzare a panacea generale un certo modo di lavorare a scuola con i ragazzi piuttosto che un altro; neppure si rifà ad una qualche sciocca presunzione di sicurezza e di esclusività. Facciamo le cose che, indubbiamente, sono sempre state fatte in scuola, ma le facciamo con un’altra consapevolezza, che è la nostra consapevolezza e che ci spinge a guidare l’elaborazione del pensiero, in noi e nel gruppo che coordiniamo, a livelli e verso orizzonti che ora poniamo semplicemente in un contenitore di ipotesi, che tuttavia crediamo possano reificarsi in quanto frutto di processualità di pensiero.

Ma il paradosso non coinvolge soltanto il volto creativo della capacità di pensare. Stanno oggi prestandosi all’attenzione degli osservatori, in questo ambito delle manifestazioni umane, altre sfaccettature delle quali una fra le più gravide di criticità pare essere proprio quella che investe le competenze emotive. Ognuno di noi, dalle informazioni ormai ridondanti in cui è quotidianamente immerso, è in grado di percepire una serie di segnali preoccupanti: figli che odiano, minori che tentano di uccidere, che uccidono, che si uccidono; per realizzare una giustizia personalmente definita e il cui significato genuino sfugge loro inesorabilmente, per rincorrere e ottenere qualcosa che sentono come impellente e che non sanno riconoscere, per gioco addirittura, e per sconfiggere la noia di un’esistenza all’interno di una realtà che disorienta. Ma anche genitori che non sanno amare i propri figli, che non li desiderano, che trovano inutile e fastidioso starli ad ascoltare, che li derubano di quel paradiso perduto, chiamato infanzia, dal quale soltanto possono formarsi i sogni che consentiranno, più tardi, di dare un volto alla esistenza individuale e sociale; genitori che hanno perso l’uso della parola "no!", che danno tutto e troppo ai loro figli, tutto e troppo in quanto ad accessori di apparenza, a beni materiali "di immagine", ad agiatezza competitiva, a prestigio di facciata, ma che non sanno, non vogliono o non sono capaci di dare l’essenziale, che è una comunanza di attenzioni affettive, che è qualcosa tratta dal meglio di sé, della loro stessa esistenza, che è la più semplice cura parentale, in una parola l’amore; genitori che vanno a gara per costruire impalcature vuote, per dare forma a un io ipertrofico dominato da un dilagante egotismo. Genitori, ancora, stanchi, sfiduciati, distratti, che hanno paura e non credono in altro che non sia un tornaconto personale, immediato, di spiccata impronta narcisistica. Hanno paura e sono stanchi, devitalizzati, perché tutto ciò che sta loro attorno si riveste sempre più di precarietà, di insidia, di instabilità. E allora fuggono, ma non vanno molto lontano, non fanno lo sforzo di cercare vie alternative e costruttive al proprio scoraggiamento: fuggono nell’illusorio, che è lì, a portata di mano, facile a consumarsi, perché la possente cultura del benessere e della gratificazione monetizzabile offre loro l’illusione, a piene mani. E, che lo vogliano o no, saranno questi i valori che essi riusciranno a trasmettere ai propri figli. – Non tutti, per buona sorte, e non in ogni luogo; forse pochi relativamente, ma in una percentuale minacciosa che si espande a velocità crescente e che preoccupa profondamente per la facilità con cui le "mode" e i sciocchi conformismi di stampo consumistico le fanno strada a guisa di virus insidioso e resistente.

Sono soltanto segnali, è vero; le eccezioni non fanno fede della totalità, questo è anche vero. Ma sono comunque segnali di un malessere ampiamente diffuso quando non proprio devastante. E, di pari passo, vediamo con sempre maggiore frequenza accompagnarsi, a questi segnali, stili di comportamento che enfatizzano l’edonismo, la soddisfazione personale, il successo a costo della prevaricazione: così, in modo particolarmente drammatico, assistiamo ad un incremento della violenza e dell’intolleranza negli stessi rapporti sociali fra bambini, della insensibilità per i bisogni altrui, dell’indifferenza, del consenso accordato con disinvoltura ad atteggiamenti di precoce adultismo, della libertà di espressione, meglio dire licenziosità, nel linguaggio comune, della pretenziosità, del crescente spregio per i limiti del decoro nei rapporti con gli altri, dell’abbattimento dei postulati già condivisi per il mantenimento di un sano rispetto verso sé e verso gli altri.

Segnali non del tutto ingenui, non del tutto innocui, che conoscono la subdola complicità di un’insensata educazione a consumare e ad acquistare beni materiali e gratificazioni sensoriali, che trovano infido incoraggiamento nella assuefazione autorinforzantesi imposta a ritmo martellante da un progresso sedicente civilizzatore.

E in tutto ciò l’intelligenza emozionale, il vero collante di una complessità crescente e di una cooperazione costruttiva, si va lentamente dissolvendo.

 

La panoramica appena accennata può far gridare al catastrofismo, ammettiamolo, ma ciò non toglie che stiamo accrescendo, tutti, travolti da una corrente che in qualche modo ci fa comodo, la nostra miopia che, ora più che mai, sta sfiorando la soglia della cecità assoluta. Ed è di fronte a questo stato di cose che l’uomo di scuola, il responsabile dell’educazione dei minori avverte un senso strisciante di impotenza, e prova una grande tristezza.

L’educazione emotiva di cui sosteniamo l’imprescindibile valore formativo non è, anche qui, il rimedio miracoloso ad un’evoluzione dalle premesse sfumatamente apocalittiche.

Quel che vogliamo tentare, nel nostro piccolo "Socrates", occupandoci di intelligenza emotiva, è una stimolazione a sostare per riflettere, a farci più consapevoli di ciò che accade attorno a noi e dentro di noi, a creare una consapevolezza "evolutiva" tale che possa essere d’aiuto a conciliare pensiero e vita emozionale, a concepire il nostro "esserci" come parte di uno scenario molto ampio delle sorti del quale siamo tutti, indistintamente, responsabili, ad immergerci infine in un lavoro di collaborazione e di interazione alimentato, in via privilegiata, dal "rispetto".

Il nostro Progetto si sforza di agire sugli e con gli alunni, ma non disdegna di proiettare gli echi della propria intenzionalità educativa, rivolgendosi con pari vigore al mondo degli adulti, puntando a sensibilizzare genitori e operatori scolastici in prima istanza.

 

Si diceva, nel titolo, "un ponte senza fine", e così è che vediamo il nostro lavoro: è il ponte della vita, che dovrebbe consentire l’approdo ad una sponda dove la vivibilità diventa possibile. Un obiettivo ambizioso, arduo sicuramente. Un ponte senza fine conduce ad un lido che non vediamo e che, con ogni probabilità, non vedremo. Un ponte che iniziamo a costruire insieme ai nostri alunni e di cui saranno essi stessi, un domani, a proseguire l’edificazione.

 

"Attendere per non attendere", ancora, abbiamo esordito. L’affermazione, apparentemente ossimorica, va chiarita. Si tratta di un’esortazione: facciamo in modo che l’infanzia sia ancora l’infanzia, facciamo in modo che il ponte venga gettato, progressivamente, un’arcata dopo l’altra. Aspettiamo un po’ prima di far premura presso i nostri bambini perché diventino grandi in fretta: costruiamo con loro, giochiamo con loro, ascoltiamoli, parliamo con loro dei problemi che li assillano, analizziamo con loro i significati trasportati dal contesto e dalle informazioni più o meno manipolate sulla realtà sociale ed etologica. Quel lungo ponte prenderà forma, sostanza; i nostri bambini lo percorreranno costruendo la propria felicità che incontreranno sull’altra sponda, quella dell’integrità e della integrazione della persona umana. Lì ci saremo noi, presenti nei nostri sforzi, nei nostri investimenti, nelle nostre speranze: non dovremo attendere invano.

 

 

 

GLI ITINERARI PROGETTUALI

 

 

 

Perché Metacognizione

 

 

Può sembrare una moda. Prima si parlava di trovare le risposte adeguate agli stimoli e tutta l’attenzione era rivolta al comportamento e ai suoi effetti sull’apprendimento. Poi l’interesse si spostò al funzionamento dell’apparato mentale, e allora si chiese soccorso a discipline che, al loro sorgere ed affermarsi, sapevano ancora un po’ di esoterico; conquistarono spazio nelle cure degli studiosi le nascenti teorie cognitive, gli indirizzi bio-psico-neurologici, mentre si vantava il superamento delle concezioni stadiali dello sviluppo, dovute principalmente a Jean Piaget, e si attribuiva credito particolare a punti di vista più specificamente socio-cognitivi portando in auge teorizzazioni più vicine a parametri evolutivi interazionali e a processi di insegnamento/apprendimento mediatizzati. Era il momento delle lezioni di Lev S. Vygotskij e degli scienziati della Mente. Prendeva corso una visione del fenomeno "apprendimento" sempre più incentrata sull’attività del soggetto/mente in stretta correlazione con il proprio spazio di vita, con le proprie esperienze e con la componente costruttiva/interattiva della conoscenza. Si puntava sul bisogno di far luce su un soggetto di conoscenza pienamente attivo, partecipe, propositivo, consapevole, avido di scoprire significati. Prendeva così forma quella corrente denominata "metacognitiva" alla quale anche noi abbiamo attribuito credito privilegiato nell’implementazione e nella realizzazione del nostro P.E.E. (Progetto Educativo Europeo).

Con questo non intendiamo dire che le indicazioni del comportamentismo e l’epistemologia piagetiana o quant’altro si fosse trovato lungo il volgersi degli studi di psicologia evolutiva, prima della metacognizione, abbiano subìto l’abiura nel contesto educativo. Anzi, quanti e quali contributi queste correnti di studio possono garantire e quante le occasioni di farvi seriamente ricorso durante il nostro lavoro!

 

Ma, perché Metacognizione?

Per due motivi fondamentali, innanzitutto, due motivi che inglobano la totalità dei processi impegnati nell’atto di apprendere, di capire "veramente" e di acquisire competenza:

il primo riguarda la necessità di conoscere che cosa siano e quali siano i processi cognitivi che un individuo pone in atto quando il proprio pensiero è attivo;

il secondo si rifà ad un’esigenza conseguente, quella di acquisire la capacità di regolare i propri processi cognitivi in funzione di un apprendimento significativo.

 

Questi motivi incontrano il conforto di alcuni postulati di partenza che costituiscono i capisaldi di un buon impianto metacognitivo: la fiducia nella modificabilità dell’intelligenza per tutto l’arco dell’esistenza individuale; l’enfasi prioritaria da attribuire ad un rinnovato atteggiamento nei confronti della conoscenza, che è quello relativo all’imparare ad apprendere; il superamento del ruolo dell’insegnante da una primitiva funzione di trasmettitore di contenuti e di valutatore della capacità di memorizzare/ripetere a quella di mediatore, cioè di soggetto attento e preoccupato nell’atto di prestrutturare, preorganizzare, filtrare e interpretare la realtà che va affrontando, sul piano cognitivo, insieme ai propri alunni.

Una responsabilità particolare, in un’ottica così intesa, investe l’attività dell’insegnante il quale sposta sovente l’attenzione, negli sforzi di produrre conoscenza, dal "che cosa" al "come", attribuendo così maggiore impulso agli aspetti dinamici e produttivi della conoscenza stessa. L’insegnante, in altre parole, non si affanna soverchiamente nella premura di trasmettere puri contenuti. È la stessa cultura della metacognizione, una volta diffusa fra gli operatori della scuola, a far sì che questi dedichino maggiore cura nel trasmettere "procedure di acquisizione" di contenuti.

L’insegnante, pertanto, si atteggia a mediatore e facilitatore della pianificazione all’interno del processo di apprendimento, negoziando con gli alunni i modi di procedere, l’elaborazione di strategie efficaci; predispone momenti di previsione sul lavoro da svolgere, del quale invita gli studenti a stimare i risultati attesi; offre un modello di guida, nel senso che favorisce la formazione di abiti comportamentali versati al controllo, alla revisione, all’aggiustamento dei processi strategici; stimola l’abitudine ad analizzare i risultati e ad attribuire loro valore; incoraggia il transfert di abilità e di competenze in ambiti diversi ed estemporanei dell’apprendimento.

 

Se si guarda alla necessaria confluenza di memoria, percezione, motivazione e apprendimento nel volgere di un qualsiasi processo cognitivo e se si guarda allo scopo evidente dei processi cognitivi, che è quello di garantire la padronanza dei "saperi" e dei "saper fare" cognitivi, se si considera che questi ultimi sono sempre modificabili, perfettibili, educabili e rieducabili, la mediazione delle esperienze e dell’apprendimento degli studenti, allora, va dritta verso la realizzazione di alcuni scopi fondamentali:

migliorare il funzionamento cognitivo,

favorire la comprensione,

abituare a riflettere, a interrogarsi, a valutare e criticare affermazioni e proposte,

generalizzare le acquisizioni cognitive,

stimolare il confronto e la cooperazione fra pari,

utilizzare l’errore come elemento per un "feed-back" e per una nuova e più efficace progressione,

incrementare l’autostima, la fiducia in sé, la motivazione intrinseca,

generare consapevolezza e autoconsapevolezza,

incoraggiare l’autonomia garantendo il sostegno necessario.

 

Il procedimento metacognitivo si rivela nondimeno adeguato all’educazione degli alunni che presentano difficoltà di apprendimento, nel senso che consente loro di prendere coscienza del fatto che determinati comportamenti o strategie impiegati nei tentativi di risolvere problemi possano essere, in effetti, poco o nulla efficaci. Tale consapevolezza apre più facilmente la via alla ricerca di modi di muoversi più adeguati e alla selezione di strategie più adatte al momento e al contesto di apprendimento. Anche se per gli alunni in difficoltà un’impostazione strategica dell’apprendimento pone alcuni interrogativi: sono in grado questi alunni di formare quella flessibilità di pensiero necessaria ai rapidi spostamenti, adattamenti e riadattamenti che le situazioni mutevoli richiedono? Non sarà forse, nel caso che li riguarda, un tentare di forzare la loro stessa natura con pretese al di fuori della loro portata e al di sopra delle loro possibilità?

Sappiamo bene che l’attività conoscitiva umana può vantarsi di una sua caratteristica qualificante, che è la costruzione di rappresentazioni mentali. Sappiamo anche che un forte impulso a tale costruzione viene dato dalle situazioni interattive le quali, a loro volta, comportano frequenti occasioni di discussione, di confronto, di esplicitazione dell’implicito, di negoziazione e condivisione di idee. Tutto questo è particolarmente complicato per gli alunni con difficoltà ed è proprio qui che un approccio metacognitivo ben impostato può contribuire a far superare certi scogli già responsabili di un inadeguato funzionamento del pensiero. È l’occasione, per l’insegnante, di offrire il proprio sostegno in modo intelligente: nel corso del dialogo l’insegnante pone frequenti domande – le "buone domande" – anziché fornire risposte sicure e confezionate pronte all’uso. Il rincorrersi di domande, sull’onda della maieutica socratica, induce gli studenti a riflettere su ciò che stanno facendo o che hanno fatto, a divenire consapevoli del percorso che li ha portati là dove sono arrivati, a riconoscere con le proprie forze gli errori in cui sono incappati lungo questo percorso, a scoprire quali ragionamenti siano stati responsabili della comparsa degli errori e a individuare soluzioni nuove e più confacenti al buon esito dei tentativi prodotti. L’insegnante, in poche parole, sorregge l’alunno nel suo sforzo di sviluppare i meccanismi di autoregolazione del funzionamento cognitivo, nel tempo stesso in cui guida la riflessione verso una presa di coscienza sempre più trasparente dello stesso funzionamento cognitivo.

 

 

 

 

Insegnare-apprendere: oltre una visione contenutistica

 

 

I punti di vista sul fenomeno "apprendimento scolastico" che abbiamo maturato e che andiamo sostenendo si sono venuti formando, come affermato poc’anzi, dall’analisi di alcuni recenti contributi di autorevoli studiosi nel campo specifico.

Per completare alla meno peggio quella che vorrebbe essere la fisionomia del volto filosofico del nostro Progetto "Socrates", ci piace riportare di seguito alcuni concetti a supporto della linea di pensiero che abbiamo adottato, attingendo a due solamente fra i vari Autori che abbiamo consultato: Jerome Bruner e Karl R. Popper.

 

Riflessione, narrazione e progressione nelle idee.

L’invenzione di storie, la narrazione, è un modo di pensiero e veicolo per fare significato, per dare all’alunno il senso della struttura generativa di una disciplina, attraverso un "curricolo a spirale" e il ruolo fondamentale della scoperta autonoma nell’apprendimento di una materia.

Curricolo a spirale: nell’insegnamento di un argomento si parte da una spiegazione "intuitiva" che sia pienamente alla portata dello studente, per poi risalire con moto circolare a una spiegazione più formale e più strutturata finché, con tutti i passaggi che possono risultare necessari, l’allievo abbia capito l’argomento o la materia in tutto il suo potere generativo (si scorre lungo vari livelli di astrazione e complessità).

È probabilmente vero che i passaggi di transizione e la comprensione piena delle idee in un curricolo a spirale dipendono dal fatto di includere quelle idee in una storia o di esprimerle in forma narrativa. Le storie sono soggette a interpretazione, non a spiegazione. Le storie, in particolare, riguardano i soggetti umani piuttosto che il mondo della natura, e i loro stati intenzionali: desideri, convinzioni, conoscenza, intenzioni, impegni.

A molti studenti la scienza appare disumana, fredda, noiosa. L’immagine della scienza come impresa umana e culturale migliorerebbe molto se la si concepisse come una storia degli esseri umani che superano le idee ricevute.

Solo la narrazione consente di costruirsi un’identità e di trovare un posto nella propria cultura.

Uno dei problemi di prim’ordine nell’insegnamento è quello delle "altre menti" ("Come faccio ad arrivare ai miei alunni?" – "Dove l’insegnante sta cercando di arrivare?"). Spiegare quello che fanno gli alunni non basta. È necessario capire cosa "pensano di fare" e quali sono le loro ragioni per farlo. L’approccio culturale sottolinea che lo scolaro arriva solo gradualmente a capire che sta agendo non direttamente "sul mondo", ma sulle credenze che egli ha "riguardo" a quel mondo. Grazie a questo passaggio l’alunno può cominciare a "riflettere sul proprio pensiero".

L’importante è guidare gli alunni a capire che sanno molto più di quanto pensino di sapere, ma che per rendersi conto di quello che sanno ci devono "riflettere sopra". Questo si chiama adottare una nuova teoria della mente.

Da qui al portare l’alunno a capire che la conoscenza è potere, o che è una forma di ricchezza, o che è una rete di sicurezza, non ci vorrà molto.

Nella prassi consueta succede che la tendenza didattica sia quella di vedere l’alunno dall’esterno, dalla prospettiva di una terza persona, piuttosto che cercare di "entrare nei suoi pensieri", quando invece occorre raggiungere una prospettiva in prima persona, ricostruire il punto di vista dello scolaro (gli alunni come pensatori). In questa prospettiva l’insegnante si preoccupa di capire cosa pensa l’alunno e come arriva a convincersi di certe cose.

La comprensione viene promossa tramite la discussione e la collaborazione; l’alunno viene incoraggiato a esprimere meglio le proprie idee per poter attuare un incontro con le menti degli altri che possono avere dei punti di vista diversi.

In questa ottica l’alunno viene considerato capace di riflettere sul suo stesso pensiero e di correggere le proprie idee e le proprie nozioni attraverso la riflessione, passando al livello metacognitivo.

L’alunno viene visto come qualcuno che possiede delle "teorie" ingenue che diventano congruenti con quelle degli insegnanti, non attraverso l’imitazione, non attraverso la didattica, ma mediante il dialogo, la collaborazione e la negoziazione.

Le verità non derivano da una fonte autoritaria (il testo), ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni.

È un modello educativo fondato sulla reciprocità e sulla dialettica, dove si lavora di interpretazione e di comprensione.

Ricordiamo che la riflessione sulle proprie operazioni cognitive influenza sempre i procedimenti mentali di un individuo.

Acquisire competenze e accumulare conoscenze non basta. Un modo per aiutare l’alunno è fornirgli una buona "teoria della mente".

La scuola dovrebbe diventare un luogo dove viene praticata la reciprocità culturale, il che comporta una maggiore consapevolezza da parte degli studenti circa quello che fanno, di come lo fanno e perché lo fanno.

Comprensione: uno dei principali strumenti per realizzarla è la narrazione; raccontare una storia su qualcosa, narrare "di cosa si tratta"; insegnare i metodi interpretativi e narrativi.

La mente non è una superficie impressionabile (come invece credeva Locke) dove l’ordine viene creato per associazioni. Ciò che entra nella mente è più una funzione delle ipotesi fatte che non di ciò che perviene ai sensi.

I concetti chiave dell’approccio attivo alla mente sono: decisioni, strategie, euristica. Gli alunni generano le loro ipotesi, le negoziano con altri, discutono.

Produrre senso insieme non deve essere necessariamente una forma di "egemonia", dove la versione dei più forti è imposta ai più deboli. Il dibattito e la negoziazione sono contrari all’egemonia. La collaborazione e una partecipazione attiva e competente nello studio non hanno come obiettivo il raggiungimento della unanimità, ma di una maggiore consapevolezza. E maggiore consapevolezza implica sempre maggiore diversità.

Il fulcro dell’attenzione si sposta da un interesse per la "natura-là-fuori" a un interesse per la "ricerca" sulla natura (= "fare" scienza).

La nostra istruzione scientifica dovrebbe tener conto dei processi vivi del fare scienza (partire dalle ipotesi e cercare di smentirle) e non limitarsi a essere un resoconto della "scienza finita" (libri di testo).

L’arte di sollevare interrogativi stimolanti è probabilmente importante quanto l’arte di dare delle risposte chiare.

L’arte di coltivare queste domande, di tener vive le "buone domande" è importante quanto le altre due (proporre dilemmi che sovvertono le verità accettate e ci sottopongono alle incongruità).

Se un’immagine vale mille parole, una congettura ben formulata vale mille immagini.

Formulare ipotesi: è importante che l’ipotesi derivi da qualcosa che si sa già e che consente di andare oltre quello che si sa (la "struttura" di un soggetto di studio).

Il nemico della riflessione è il ritmo a rotta di collo – le mille immagini.

L’essenza di ogni buon curricolo, di ogni buona programmazione, di ogni incontro di apprendimento e di insegnamento: imparare a pensare in base alle informazioni di cui si è già in possesso.

(da Jerome Bruner, La cultura dell’educazione, 1996 – Feltrinelli, 1997/98)

Sulle orme dell’Empirismo critico. Confutare e progredire.

 

Il problema universale che pervade il pensiero di ogni persona è il problema di comprendere il mondo, inclusi noi stessi e la nostra conoscenza in quanto parte del mondo.

K. Popper intende la conoscenza come un sistema di asserzioni, di teorie sottoposte a discussione; la conoscenza è oggettiva ed è ipotetica e congetturale.

Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile fa l’uomo di scienza, ma la "ricerca" critica, persistente e inquieta della verità.

Il lavoro dello scienziato consiste nel produrre teorie e nel metterle alla prova. "Le teorie sono reti: solo chi le butta pesca" (Novalis). Noi ci sforziamo di rendere la trama sempre più sottile.

Per avere nuove idee non esiste alcun metodo logico. Ogni scoperta contiene un "elemento irrazionale" o una "intuizione creativa" (Bergson). Non esiste alcuna via logica che conduca a leggi altamente universali, se non l’intuizione (Einstein).

Prima si formula una "nuova idea", avanzandola per tentativi, senza che già sia giustificata (un’anticipazione, un’ipotesi, un sistema di teorie); poi si opera una deduzione logica che conduce ad alcune conclusioni; in seguito queste conclusioni vengono poste a confronto fra di loro per trovare quali relazioni logiche vi intercorrano.

Si dice che la teoria ha temporaneamente superato il controllo se le singole conclusioni si rivelano accettabili o "verificate"; se esse sono falsificate, allora anche la teoria è falsificata (la teoria dalla quale quelle conclusioni sono state dedotte logicamente).

Noi scegliamo giustamente la teoria che regge meglio il confronto con le altre teorie, la più adatta a sopravvivere (è una selezione naturale).

Un sistema empirico, per essere scientifico, deve poter essere confutato dall’esperienza.

"Esperienza è il nome che ognuno dà ai propri errori" (Oscar Wilde).

Il "metodo critico" consiste nel proporre ipotesi ardite e nell’esporle alle critiche più severe; esso procede per tentativi ed eliminazione degli errori.

La ricerca inizia sempre con "problemi". La soluzione ai problemi, sempre avanzata per tentativi, consiste in una teoria, in un’ipotesi (… E se fosse, che …), in una congettura.

Le teorie non sono il risultato di scoperte "dovute all’osservazione".

Soltanto l’osservazione può fornirci la "conoscenza dei fatti"; ma le osservazioni sono sempre "interpretazioni" dei fatti osservati; sono "interpretazioni alla luce delle teorie". L’interpretazione è un fatto soggettivo che rende ingannevolmente facile la "verificazione" di una teoria.

L’osservazione e l’esperimento svolgono soltanto il ruolo di argomenti critici, di "controlli" delle teorie.

Nella storia della scienza è sempre la "teoria", e non l’esperimento, è sempre l’idea, e non l’osservazione, ad aprire la strada a nuove conoscenze; ma è l’esperimento che ci aiuta ad uscire dalla ‘routine’ e ci sfida a trovare nuove strade.

La discussione critica e il confronto fra teorie diverse servono a portare alla luce gli errori.

"Il nostro problema sta tutto nel rendere il più possibile transitori gli errori …" (John Archibald Wheeler).

La scienza è in grado di progredire proprio perché possiamo imparare dagli errori. "Ogni" nostra conoscenza progredisce "soltanto" attraverso la correzione degli errori.

I soli mezzi a nostra disposizione per interpretare la natura sono le idee ardite, le anticipazioni ingiustificate e le speculazioni infondate.

Il metodo per prova ed errore, per congetture e confutazioni consiste nell’audace formulazione di teorie, nel tentativo di mostrare che tali teorie sono erronee e nella loro provvisoria accettazione, se i nostri sforzi critici non hanno successo.

Chi non espone volentieri le proprie idee al rischio della confutazione non prende parte al gioco della scienza.

Tutte le leggi, tutte le teorie restano essenzialmente provvisorie, congetturali o ipotetiche.

Possiamo essere "assolutamente certi" solo delle nostre esperienze soggettive di convinzione.

Il progresso della scienza tende sempre verso lo scopo infinito, e tuttavia irraggiungibile, di scoprire problemi sempre nuovi, più generali e più profondi e di sottoporre le sue risposte, date in via di tentativo, a controlli sempre rinnovati e sempre più rigorosi.

Il modo in cui progredisce la conoscenza è caratterizzato da anticipazioni ingiustificate, da supposizioni, da tentativi di soluzione dei problemi, da "congetture" (soggette a confutazione).

La stessa confutazione di una teoria è sempre un passo avanti che ci porta più vicino alla verità (è il modo di imparare dagli errori).

Una teoria che non può essere confutata da alcun evento concepibile non è scientifica.

Si deve guardare alla scienza non come a un "corpo di conoscenza", ma piuttosto come a un "sistema di ipotesi".

Il vecchio ideale dell’episteme, della conoscenza assolutamente certa, è un idolo.

Noi non conosciamo, e non conosciamo dove sbagliamo e come possiamo sbagliare. La sola cosa che possiamo fare è continuare a verificare le nostre teorie e pensare a nuove possibilità.

L’atteggiamento critico (le teorie consentono la sfida a discuterle e a migliorarle) può ricondursi a Talete (VII-VI sec. a.C.), fondatore della prima scuola che non aveva per scopo principale la conservazione di un dogma.

La distinzione platonica (episteme/doxa) deriva, tramite Parmenide (VI-V a.C.), da Senofane (VI a.C.). Platone (V-IV a C.) comprese chiaramente che "ogni" conoscenza del mondo visibile non può essere che "doxa" (opinione, congettura).

Parmenide sviluppò una teoria anti-fisica la quale costituiva il primo sistema ipotetico deduttivo, la cui confutazione o falsificazione diede origine alla prima teoria fisica della materia, la teoria atomistica di Democrito (dalla teoria del mondo immobile, pieno o privo di vuoto alla teoria del mondo costituito di spazio libero – il vuoto – e di atomi).

Gli atomisti pervennero a una "teoria del movimento" che dominò il pensiero scientifico fino al 1900. Si portò oltre Maxwell con la sua teoria sulle intensità variabili dei campi.

Talete diceva che la terra è sorretta dall’acqua. Il suo allievo Anassimandro (VII-VI a. C.) sostenne che la terra non è trattenuta da alcunché, ma resta ferma a motivo della sua equidistanza da tutte le cose e ha la forma di un cilindro. L’idea rivoluzionaria di Anassimandro rese possibile la teoria di Aristarco (IV-III a.C. – i pianeti e la terra ruotano intorno al sole) e di Copernico (1473-1543) e anticipò (con la nozione di sospensione della terra a causa dell’equidistanza) la concezione newtoniana della gravitazione e le teorie di Keplero (1571-1630) e Galileo (1564-1642).

Senofane (VI a.C.), successivo a Talete, era pienamente consapevole del fatto che il suo insegnamento fosse puramente congetturale. Egli già sapeva che la nostra conoscenza è congettura, opinione, "doxa" piuttosto che "episteme".

L’uso della critica nasce dunque con Talete e dura due o tre secoli. Verrà riscoperta soltanto nel Rinascimento, dopo 1800 anni, da Galileo. La tradizione critica razionalistica, infatti, si esaurì forse in seguito all’affermarsi della dottrina aristotelica dell’episteme, della conoscenza certa e dimostrabile.

Platone (V-IV a.C.) elabora un’epistemologia ottimistica (teoria dell’anamnesis nel Menone) e una teoria pessimistica (Respublica, Phaedrus: il mito della caverna).

Nel Menone Socrate aiuta lo schiavo, con accorte domande, a ricordare ("anamnesis"). Socrate (riferì Aristotele) sollevava questioni, non dava risposte. La "maieutica" di Socrate è un’arte che tende a ripulire l’anima dalle sue false credenze, dai suoi pregiudizi, insegnandoci a mettere in dubbio le nostre convinzioni.

Il mito pessimistico della caverna, in Platone, è quello vero. La chiarezza e la distinzione non sono di per sé criteri di verità, ma elementi come l’oscurità e la confusione "possono" essere indizio di errore. Analogamente, la coerenza non può stabilire la verità, ma l’incoerenza e la contraddittorietà sanciscono la falsità.

Più vicino ai nostri tempi sorse una disputa fra l’empirismo classico (scuola britannica: Bacone – 1561-1626 – , Locke, Berkeley, Hume, Mill = la fonte prima di ogni conoscenza è l’osservazione) e il razionalismo classico o intellettualismo (scuola continentale: Descartes, Spinoza, Leibniz = la fonte prima di ogni conoscenza è l’intuizione intellettuale di idee chiare e distinte).

L’epistemologia ottimistica di Bacone (veracitas naturae) e di Descartes (veracitas dei) incoraggiò gli uomini ad attingere alle fonti della conoscenza che risiedono in essi stessi e a pensare da soli, anche se si trattava di una falsa epistemologia.

Bacone distingue due metodi:

La decifrazione del libro aperto della Natura = episteme;

Il pregiudizio della mente (supposizioni) = doxa.

Nella scienza cerchiamo sempre di spiegare il noto con l’ignoto, l’osservabile con ciò che non si osserva.

Della teoria dei "quanti". La teoria di Neils Bohr, che precedette la teoria di Heisenberg, suppone l’esistenza di grandezze inosservabili.

Secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg ogni misurazione della posizione di una particella interferisce con la misurazione dell’impulso; è quindi impossibile predire la traiettoria di una particella, ossia la combinazione delle due grandezze: posizione più impulso.

Lo sperimentatore non deve attendere che alla natura piaccia rivelargli i propri segreti, ma "deve interrogarla", ripetutamente, alla luce dei propri dubbi, congetture, teorie, idee e ispirazioni. La realtà si crea, non si trova. La costruzione della realtà è il prodotto dell’attività del fare significato. Siamo noi che produciamo, almeno in parte, l’ordine che scopriamo nell’universo, siamo noi a costruire la conoscenza che ne abbiamo: siamo degli scopritori e la scoperta è un’arte creativa.

(da Karl Raimund Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, 1970, 1995;

Congetture e confutazioni, London, 1969 – Il Mulino, 1972)

 

 

 

3. Una partenza brillante

 

 

C’è una sorta di contraddizione che emerge quando si parla di insegnare e di raggiungere dei risultati nell’insegnamento.

Da una parte ci sono i documenti normativi, i cosiddetti "Programmi" scolastici che, se pur si presentano d’abitudine in una rassicurante veste di "orientamento", di "suggerimento", nondimeno lasciano chiaramente trasparire il loro aspetto prescrittivo dal quale discendono obiettivi, contenuti didattici e percorsi metodologici da tenere in costante considerazione.

Da un’altra parte c’è il frutto degli ultimi e più aggiornati studi in ambito psicopedagogico ed evolutivo, relativi alle recenti scoperte sui modi di apprendere, sulle intelligenze multiple, sulle potenzialità poste in luce dalla scienza della mente. Il "Documento" sui saperi essenziali apparso nella primavera del 1998, per portare un esempio, è piuttosto eloquente al riguardo ed offre una prospettiva rinnovata volta a collocare il senso della dinamica "insegnamento/apprendimento" in una concezione di "sistema integrato", una concezione in vero più consona alle attuali richieste formative. Così si parla di sviluppare mediazioni capaci di catturare il pensiero, di innescare e sviluppare processi di problematizzazione e di ricerca di soluzioni divergenti attraverso la costruzione di ipotesi e procedure di prova, di fornire "strutture culturali di base"equivalenti, in pratica, alle capacità di orientarsi, di comprendere, costruire, criticare argomentazioni e discorsi, attribuire significato alle proprie esperienze, dando in ogni caso particolare rilievo alla dimensione metacognitiva dell’apprendimento. Si parla della necessità di sostituire le connotazioni trasmissive del sapere con un atteggiamento educativo capace di abituare gli studenti a interrogarsi continuamente sui problemi fondamentali del rapporto che l’uomo stabilisce con la realtà; un atteggiamento, questo, che solo può garantire integrazione in progressione continua e sviluppare capacità di costruire significati. Si parla, infine, di formazione di personalità autonome e critiche, di saperi intesi come tramiti adeguati a stimolare processi mentali e abiti comportamentali.

In sostanza si può affermare che l’enfasi viene trasposta dai contenuti ai processi. Ed è questa l’istanza fondamentale che dà forma e vitalità al nostro agire all’interno dei proponimenti del Progetto "Socrates".

Una "partenza brillante" viene, nel caso nostro, impostata mediante l’applicazione della metodologia ideata da Carl Haywood, in un’intesa educativa chiaramente preventiva, a partire dalle prime fasi della Scuola per l’Infanzia.

"Bright Start", questa la denominazione dell’itinerario proposto da Haywood, si rivolge proprio ai bambini di questa età e può essere applicata fino al secondo anno della Scuola dell’obbligo.

L’etimologia del termine "bright" ha forte riferimento a qualcosa di lucido, risplendente, chiaro, limpido, brillante, ma anche gioioso, vivace, intelligente e confortato da una visione ottimistica.

È in omaggio a questi termini che le Insegnanti di Scuola Materna e del primo ciclo di Scuola Elementare hanno preparato una lunga strada da percorrere con i loro alunni.

Ecco alcune riflessioni fatte dalle Insegnanti impegnate in questo lavoro:

 

Scuola Materna. "I bambini si accostavano alle lezioni settimanali con entusiasmo, coinvolgimento, curiosità e una prima consapevolezza che nel gruppo le modalità di comunicazione ed interazione con l’insegnante erano diverse e che qui l’errore non era penalizzato. – I bambini sono più consapevoli delle funzioni delle regole e quindi più rispettosi di esse, usano nel linguaggio verbale i termini "controllarsi", "pensare", "usare il cervello" ecc… e talora si sforzano di attuarli. – Dopo alcuni mesi di applicazione del metodo possiamo concludere che è stata un’esperienza più che positiva, i bambini si sono dimostrati interessati a tali interventi e vi partecipavano molto volentieri. – Noi insegnanti ci sentiamo arricchite per i suggerimenti offerti da questo approccio e notiamo una maggior facilità ad adottare questi atteggiamenti comunicativi anche al di fuori del gruppo, in ambito quotidiano. – I bambini cominciavano a fare previsioni, a formulare ipotesi, a generalizzare le loro conoscenze anche a livello cognitivo sviluppando così la stima di sé e l’autocontrollo. – Nonostante certe proposte di giochi venissero ripetute più volte, questo non ha fatto cadere l’attenzione, la curiosità, il coinvolgimento emozionale e intellettivo. – Alcuni bambini più timidi o riflessivi si esponevano di più accrescendo la stima di sé. – Sono emersi pensieri e riflessioni molto significativi dal punto di vista sia cognitivo che pratico. – I bambini sono riusciti a tradurre modi di pensare e di agire anche nella vita pratica. – Durante la conversazione abbiamo riscontrato una maggiore consapevolezza nel modo di riflettere e di comunicare. – Le interazioni linguistiche sono state via via più riflessive ed esplicitate anche dai bambini che nel grande gruppo hanno difficoltà a manifestare i propri pensieri. – I bambini si sentivano protagonisti; li incuriosiva notevolmente il fatto che le maestre volessero sapere che cosa stavano pensando".

 

Scuola Materna ed Elementare. "Anche i bambini hanno dimostrato consapevolezza del progetto: sapevano che l’attività Haywood richiedeva il loro impegno nel piccolo gruppo per circa trenta minuti alla settimana, ne conoscevano le regole e le modalità di svolgimento. In particolare si è notato come i bambini si siano sentiti liberi d’intervenire senza paura di sbagliare: sapevano che "lì" ci si trovava per parlare liberamente senza paura d’essere giudicati. – Se nel piccolo gruppo Haywood si è riusciti ad innescare meccanismi di ricerca e metodi d’intervento metacognitivi, si deve sottolineare che si è riscontrata una sensibile modificazione degli atteggiamenti dei bambini anche per quanto riguarda i quotidiani momenti della vita scolastica. – Crediamo si possa rilevare, nei bambini, lo sviluppo di un modo di pensare più critico. – Onestamente dobbiamo rilevare che la sperimentazione di questa metodologia ci ha arricchite professionalmente esigendo da noi una disposizione all’ascolto poiché essenziale per rassicurare, abituando i bambini a dar vita al loro pensiero, a trasformare in parole il lavoro della loro mente. Sicurezza e fiducia, esperienza e tempo: questo è quanto si è cercato di lasciare ai piccoli per aiutarli ad affrontare con serenità la vita".

 

Ma perché introdurre la dimensione metacognitiva dell’apprendimento già all’età della Scuola dell’Infanzia?

Carl Haywood parte da un presupposto concettuale: l’insuccesso scolastico può a buona ragione essere attribuito a una carenza o a uno sviluppo inadeguato di certe funzioni fondamentali inerenti ai processi di pensiero e di apprendimento. Tutto l’impianto progettuale punta, pertanto, a consentire l’accesso effettivo all’uso delle potenzialità intellettive, a sviluppare i processi cognitivi di base, a migliorare, in una parola, l’educabilità dei bambini. L’efficacia di procedimenti così concepiti poggia sulla fiducia riposta nella modificabilità cognitiva strutturale e sul ricorso massiccio all’apprendimento mediatizzato. La principale preoccupazione che informa l’insegnamento mediatizzato all’interno del "Bright Start" è quella di guidare progressivamente i bambini a "imparare ad apprendere".

Il lavoro prende le mosse dalla selezione di alcuni fondamentali obiettivi e percorsi:

identificare le funzioni cognitive carenti e lavorare per svilupparle;

stimolare il pensiero rappresentativo;

insegnare le strategie adeguate a rendere efficace l’apprendimento;

introdurre abitudini metacognitive;

potenziare le motivazioni intrinseche.

 

Non è forse più efficace, ai fini della realizzazione del successo scolastico e dell’integrazione della persona, iniziare a preoccuparsi di questi fattori abbastanza presto, approfittando di un periodo felice in quanto a plasticità, a disponibilità alla strutturazione-ristrutturazione, che non intervenire più tardi affaticandosi, spesso con risultati non proporzionati agli sforzi prodigati, nel tentativo di porre rimedio a carenze ormai fin troppo saldamente consolidate?

Sappiamo bene, infatti, che il potenziale intellettivo si esprime sull’onda dei saperi e saper fare cognitivi e metacognitivi relativamente generali e idonei ad affrontare una grande varietà di problemi. Ed è qui che si innesta tutto un lavoro volto alla costruzione e allo sviluppo di quadri concettuali generali, all’incremento della autoregolazione cognitiva, alla edificazione di istanze motivazionali ad orientamento intrinseco.

Ma, in pratica, che cosa fa l’insegnante-mediatore in un contesto così delineato? Egli, innanzitutto, fa ricorso a un metodo maieutico: pone il divieto, a se stesso, di fornire risposte. Al tempo stesso adotta un atteggiamento di vigile sostegno: incoraggia il bambino, non lo abbandona quando incorre nell’errore, lo guida, manifesta fiducia nelle sue capacità. Non fornisce risposte "tout-court", dunque, ma incita a cercare e a porsi domande su quali siano le ragioni che si collocano a monte delle difficoltà e degli errori.

 

 

 

 

4. Pensare … "a lato"

 

 

Essere creativi significa, fra le tante cose che si dicono, soprattutto essere capaci di formare nuove idee e di elaborarle applicandole ai tentativi rivolti al conseguimento di risultati efficaci. Chi è creativo riesce in breve tempo ad identificare i problemi chiave di una situazione problematica, a scoprirvi ulteriori problemi non emersi precedentemente, a rendere più semplici passaggi che sarebbero apparsi di una complessità insuperabile. Una mente creativa non è lineare, agisce piuttosto con un pizzico di spregiudicatezza aprendosi ad opportunità nuove e inusitate, accettando le proposte che provengono da impulsi e da azioni solitamente valutati improbabili o inopportuni, accettando di confrontarsi con momenti di episodica approssimazione, non disdegnando di avventurarsi su terreni che comportano l’assunzione di rischi nei confronti dell’errore o l’ammissione di contingenze foriere di ambiguità, di incertezza.

 

Quando i ragazzi sono più cresciuti, e arrivano all’età del secondo ciclo didattico per le Elementari o all’età della Scuola Media, il lavoro sul pensiero si avvale di metodologie più vicine al particolare livello evolutivo, sempre comunque rivolte alla ricerca del significato e allo sviluppo della consapevolezza.

Fra le varie proposte oggi disponibili abbiamo posto il dito su quella di Edward de Bono, indicata con l’acronimo "CoRT Thinking".

"CoRT Thinking" si richiama ai presupposti metacognitivi e, a muovere da questi, stabilisce un percorso strategico da seguire per l’educazione del pensiero.

Si parte sempre, su questo terreno, dalla considerazione del pensiero come abilità autonoma e suscettibile di perfezionamento.

L’abilità di pensiero si accresce attraverso l’uso di strumenti o strategie mentali seguendo alcuni passaggi consecutivi che corrispondono alla descrizione delle strategie, all’insegnamento tramite modelli e all’esercitazione nell’applicazione delle strategie.

I tentativi di miglioramento sono rivolti all’attività di pensiero, comunemente considerata come attività naturale e spontanea, per darle forma mediante l’apprendimento di una precisa operazione mentale, portando l’attenzione sulla fase percettiva della conoscenza.

Si dà molta importanza al procedimento e si lascia in second’ordine il contenuto. Si indirizza lo sforzo verso l’uso di un’operazione mentale nella sua veste di strumento pratico e funzionale alla costruzione della conoscenza.

Si guidano progressivamente gli alunni ad "imparare a pensare", attrezzando via via il loro pensiero con requisiti di precisione e appropriatezza, in modo tale da rendere possibile l’approccio a problemi che in momenti precedenti, o in situazioni differenti, potevano essere apparsi insolubili.

Questo metodo, che fa perno su un sistema di "operazioni generali", è adatto ad attrezzare il pensiero per affrontare i problemi in contesto di apprendimento, creando progressivamente le condizioni per una più facile soluzione ai problemi. Il pensiero, reso più efficiente e fluido, riesce nondimeno a godere del criterio di trasferibilità ad ambiti diversi della conoscenza.

Il pensiero viene educato e sviluppato mediante la messa a disposizione di vere e proprie strategie che sono puri strumenti e, in quanto tali, componenti di per sé neutre dell’azione. Come gli strumenti di lavoro sul banco del falegname, le strategie di pensiero, una volta conosciute nelle loro funzioni e nel loro modo di impiego, possono starsene lì, inerti, in attesa di essere utilizzate al momento opportuno, sia singolarmente sia in combinazione fra l’una e l’altra. La questione risiede tutta nel saperle riconoscere con rapidità, con un pizzico di automatismo, e di applicarle nel modo più appropriato a ciò che una situazione specifica possa richiedere.

Ciascuna strategia, tuttavia, è considerata per se stessa, in quanto non fa parte di un sistema gerarchizzato. Pur essendo indipendenti fra di loro, questi strumenti del pensiero consentono di essere utilizzati in modo coordinato per la soluzione di un problema o per il conseguimento di uno scopo particolare.

Imparare a pensare, in sostanza, ha molto a che vedere con l’esercizio di alcune abilità operative, vale a dire alcuni strumenti specifici del pensiero. Si tratta sempre di strumenti semplici, efficaci e utilizzabili secondo una ben precisa intenzionalità. Il compito di questi strumenti è quello di rendere le operazioni fondamentali di pensiero simili a quelle che emergono spontaneamente, per automatismo, scevre da sforzo e da confusione.

Il processo di apprendimento delle strategie di pensiero si propone di condurre gli alunni a riconoscere, dapprincipio, il pensiero come un’abilità; quindi a sviluppare abilità di pensiero muovendosi in un contesto che offra numerose opportunità di pensiero di tipo pratico; ad osservare in modo oggettivo il pensiero proprio e altrui; a considerare fatti e situazioni con maggiore chiarezza, ampiezza, profondità ed equilibrio; ad impadronirsi di capacità generali che possano essere mantenute a disposizione per un successivo utilizzo.

 

Le scelte di percorso.

 

Il Programma "CoRT" si articola in sei sezioni, ciascuna composta da materiale elaborabile in dieci lezioni.

Noi abbiamo calato la nostra scelta, al momento attuale, su tre di queste sezioni, precisamente:

Ampiezza di vedute, per una migliore estensione delle abilità percettive. Il pensiero, in questa espressione del percorso, viene esercitato a seguire direzioni differenti nel tentativo di risolvere un problema.

Creatività, per imprimere vigore allo sviluppo di nuove idee. Lo stimolo è volto a far emergere idee del tutto nuove e innovative attraverso la modificazione delle strategie, dei concetti e degli esempi.

Informazioni e sensazioni, per apprendere come selezionare un’informazione e come attribuirle valore. Gli sforzi sono indirizzati a dare ordine alla realtà in modo da creare consapevolezza circa i valori, le emozioni e i processi utilizzati.

 

Quanto sopra selezionato è scaturito dall’esigenza tridimensionale che si accompagna all’evoluzione progettuale del nostro "Comenius/Azione 1":

Approfondire la dimensione metacognitiva del funzionamento mentale umano, con stretta implicazione del processo di insegnamento/apprendimento scolastico.

Considerare la totalità della persona come sistema integrato, nel suo procedere congiunto di razionalità e di emozioni, con il recupero dei significati evolutivi attinenti all’intelligenza emotiva.

Attribuire particolare rilievo al volto creativo del pensiero, trascendendo le concezioni più vicine ai requisiti del pensiero critico e costruttivo.

 

Quest’ultimo punto, soprattutto, ci è parso subito di grande interesse per l’urgenza che riveste, oggi, la capacità di creare idee nuove all’interno delle dinamiche di pensiero. Ciò richiede il superamento, non già l’eliminazione, di consolidate convinzioni legate alla funzionalità del pensiero in quanto adeguamento a regole e canoni imposti dalla consuetudine. Richiede il travalicamento di barriere erette a conservare determinati margini di sicurezza nel modo di gestire il complesso sistema delle operazioni mentali e l’invasione di spazi inesplorati che offrano la via a passi dapprima incerti sul terreno dell’indeterminabile, del probabile, dell’imprevisto e dell’ignoto.

Il concetto che meglio rispondeva a questa ricerca del "nuovo" nell’avventura del pensiero abbiamo creduto di ravvisarlo in ciò che Edward de Bono, l’autore del metodo "CoRT Thinking", ha chiamato "pensiero laterale".

E. de Bono (1967) introduce la denominazione di "pensiero laterale" (‘Lateral Thinking’) per indicare una certa capacità di porsi a lato di una situazione in modo da vederla in una prospettiva del tutto diversa e foriera di nuove soluzioni. Così il retrocedere, il ricorrere ad analogie, il lasciare libero il pensiero di procedere per conto suo, in un contesto di conoscenza particolarmente segnato da bassa probabilità.

L’immagine del ragno che costruisce la propria tela può prestarsi come metafora significativa per definire questo apparentemente strano concetto. Il ragno non esegue calcoli algoritmici complessi né opera previsioni di efficacia nel porre in essere il proprio progetto. Aspetta e lascia fare, sino al momento nel quale può cogliere l’opportunità più adeguata allo scopo. L’animaletto si lascia dapprima cadere, restando appeso al filo di seta che sta producendo; quindi attende un colpo di vento propizio che lo sospinga sino a un ramo vicino; torna poi indietro ripercorrendo il filo che in precedenza aveva fissato all’estremità originale e, lungo il filo, procedendo a ritroso, costruisce la sua tela, un’opera mirabilmente perfetta ed efficiente.

La logica umana è un po’ come l’architettura geometrica che indica il modo in cui deve essere costruita la tela. Il pensiero, sorretto dall’intuizione creativa, è come il colpo di vento. Quando ci intestardiamo a ragionare secondo il rigore logico, è la logica stessa che si pone a guida del pensiero e talvolta si imbatte nell’impossibilità di procedere. Quando apprendiamo a dare spazio al pensiero laterale, allora la logica si pone al servizio del pensiero e quest’ultimo diventa il vero propulsore dell’azione. Il pensiero rigidamente razionale è capace di scavare molto in profondità, procede lungo un cunicolo a una sola via e può facilmente sortire effetti inconcludenti. Il pensiero laterale, per altro verso, abbandona il cunicolo, quando questo dà l’impressione di non portare da alcuna parte, e sottopone a prova altri siti, cercando nuove possibilità. Il pensiero laterale, inoltre, si propone di partire con l’attaccare, in un certo senso, le idee dominanti, quelle che sono rappresentate dal cunicolo e che impediscono all’immaginazione, alla creatività di crescere e di espandersi. Ciò che il pensiero laterale pone come premessa è la ricerca di alternative originali finalizzata al raggiungimento di una soluzione valida. Come il ragno che si lascia andare, attende e procede a ritroso, così il pensiero laterale rifugge spesso la consequenzialità. La via per giungere alla soluzione non viene programmata preventivamente; al contrario, viene colta e osservata dopo che la meta è stata raggiunta. Il passo precedente non è tanto quello di fissare il problema da risolvere secondo categorie strettamente logiche, quanto piuttosto quello di allontanarsi, addirittura, da direzioni obbligate e dallo stesso nucleo del problema per osservarlo, magari, girandogli attorno.

La metafora del cunicolo, peraltro, consente di credere che sia meglio formarsi un’ampia varietà di idee, con la concessione che alcune di esse siano lontane dalla verità, anziché affidarsi ad un collaudato modo di ragionare che, mentre può dare sicurezza, impedisce l’affiorare di idee efficaci. Anche l’idea più bizzarra o insolita, che si affacci per un attimo alla nostra mente, può essere di qualche utilità nella ricerca di soluzioni a un problema: piuttosto che valutarla frettolosamente come insulsa e per questo scartarla, può essere di grande aiuto utilizzarla in funzione di semplice trampolino che si lascia alle spalle dopo aver spiccato un buon balzo in terreni inesplorati e in direzioni sconosciute. La libertà da schemi e da vincoli consente di aggirarsi in dimensioni differenti, di venire a conoscenza di punti di vista diversi, di scoprire la libertà che scatena una domanda dopo l’altra, di entrare in un gioco dove le idee, non forzate, affiorano di per sé e ne trascinano altre sulla propria scia.

E. de Bono ricorre all’uso di una grande varietà di metafore per spiegare la forza che agisce in questo gioco, per descrivere il movimento dell’attenzione che non mette a fuoco ma volteggia, per così dire, come le api sui fiori, visitando via via ciascuna delle idee che emergono senza invischiarvisi definitivamente.

Per un certo lasso di tempo il pensiero laterale si muove liberamente, questo è vero, nel caos, ma è proprio lo spostarsi attraverso il disordine che gli consente di raggiungere un ordine nuovo e più semplice. Come l’ape che visita migliaia di fiori, soffermandosi un attimo soltanto su quelli poveri di nettare e cercando con avidità quelli più generosi, così il pensiero laterale rincorre le idee nuove e che siano nello stesso tempo più semplici ed efficaci, curando la fluidità che gli consente di abbandonare un’idea per un’altra che presenti maggiori attrattive in vista dell’obiettivo da raggiungere. E, ancora, come l’ape che, di buon mattino, scopre una fioritura promettente e torna all’alveare per comunicare, sul ritmo di una danza cadenzata, ad altre api la qualità, la consistenza, la direzione e la distanza del bottino, così una nuova idea suscita e scatena altre idee, sia in chi l’ha scoperta sia in altre persone con le quali si stabilisca interazione.

 

Il pensiero laterale può essere educato, a scuola, già a partire dai primi anni di frequenza, nei ritmi, nelle forme e nelle modalità consone alle varie età. Una fase evolutiva particolarmente favorevole può essere tuttavia ravvisata subito dopo i primissimi anni dall’esordio nella Scuola dell’obbligo.

Se per lavoro creativo, all’interno del nostro P.E.E., intendevamo rendere attuabile la produzione di idee nuove e al tempo stesso efficaci, con il percorso offerto dal "CoRT Thinking" abbiamo cercato di far emergere, nei nostri alunni, la capacità di generare nuove percezioni e nuove idee; ci siamo dunque mossi in direzione della realizzazione di una nuova ristrutturazione percettiva e di migliore flessibilità, perché questo modo di interpretare il movimento del pensiero ci offriva la possibilità di cambiare anche il modo di guardare alla realtà. Ci consentiva, inoltre, di azzardare l’abbandono di certi schemi da lungo tempo familiari e di infrangere la rigidità dei percorsi conosciuti, per dare spazio a nuove possibilità e a schemi rinnovati di pensiero e di ragionamento.

Ma come viene trattato, a scuola, un percorso didattico che si avvale della metodologia "CoRT Thinking"?

L’insegnante ha possibilità di scelta, può operare variazioni, arricchire le idee, esercita il controllo sul gruppo, sottolinea gli scopi della lezione, fornisce chiarimenti, valuta il rendimento dei gruppi, può scegliere gli esercizi ritenuti più adatti alla propria classe o proporre esercizi del tutto nuovi, può disporre la formazione dei gruppi, individua il tipo di risposta che desidera stimolare, stabilisce la quantità di tempo da assegnare per ciascun esercizio, valuta l’opportunità di ricorrere ai test, designa uno dei gruppi a fornire la risposta.

Compito dell’insegnante è scongiurare la confusione, evitando che prendano corso descrizioni eccessivamente elaborate, definizioni, sottigliezze, ambiguità e distinzioni accademiche. Perché le lezioni si svolgano con chiarezza e con efficacia l’insegnante deve mantenere l’ordine del gruppo: commenta le risposte, interrompe una discussione, si sposta sull’argomento successivo quando lo ritiene opportuno, può richiedere un commento a un gruppo, gestisce le situazioni difficili (spiritosaggini, prolissità, silenzio, pigrizia), fa in modo di evitare che insorgano controversie di tipo individuale, spiegando molto chiaramente quali sono le "regole del gioco" e lo scopo ultimo del lavoro, vale a dire il diventare abili nell’uso di una particolare strategia mentale, in modo intenzionale, scorrevole e preciso. L’insegnante deve recepire le risposte sbagliate, sciocche o inutili e trattarle come tali, ma non deve mai rifiutare un’idea. Allo stesso tempo deve gratificare gli studenti, infondere loro fiducia, rispondendo adeguatamente alle loro espressioni. Le sue risposte devono porsi al di là del "giusto-sbagliato" (es.: "Interessante, importante, originale, insolito, non l’avevamo ancora sentito, si adatta bene a quest’idea, mi piace, capisco il tuo punto di vista, in un’altra situazione potrei essere d’accordo con te, è proprio un modo azzeccato di presentare l’argomento"). Deve comunque astenersi dal formulare un giudizio personale perentorio negativo su un’idea espressa, potendo ricorrere ad altri procedimenti come quelli di seguito riportati:

- In che modo quest’idea è diversa da quella appena presentata?

- Potresti paragonare la tua idea con un’altra?

- Quella è un’idea importante o un’idea qualunque?

- Quale delle due pensi sia più importante?

- Non riesco a capire ciò che vuoi dire, potresti spiegarti meglio?

- Che cosa potrebbe accadere allora? Qual è il punto?

- Perché pensi che questa sia un’idea nuova che non abbiamo ancora avuto?

- Potresti sintetizzare tutte queste varianti in una sola idea?

- Questa è un’idea sciocca.

- Questo non è molto importante, non è vero?

- Che cosa pensi a questo proposito?

- Hai qualcos’altro da aggiungere?

Sei d’accordo con ciò che abbiamo appena sentito?

 

L’insegnante deve, inoltre, creare un clima equilibrato di fiducia che allontani la preoccupazione per il fatto che una risposta possa essere giusta o sbagliata e che valga ad incoraggiare l’avere qualcosa da dire e il formulare pareri personali. L’insegnante potrà pertanto intervenire nel seguente modo:

 

- Questo è un punto importante.

- Noi non avevamo avuto questa idea prima.

- Questa è un’idea molto interessante; esprime un nuovo punto di vista.

- Questa è un’idea molto originale.

- Questa esprime in modo nuovo e interessante un’idea che abbiamo già avuto.

- Questa è un’idea molto acuta.

- Questa è una risposta ben strutturata.

- Queste idee sono molto esaurienti.

- Ciò è molto originale.

- Non penso che ci sarà molto da aggiungere.

- Avete toccato la maggior parte dei punti importanti.

Questo è veramente adatto.

 

Oppure:

- Ciò è abbastanza sciocco.

- Questa è un’idea poco conveniente.

- Sono sicuro che sai fare di meglio.

- Abbiamo già avuto questa idea.

- Quest’idea è esattamente la stessa dell’altra.

- Avete dimenticato molte cose.

- Non credo che abbiate affrontato adeguatamente il problema.

- Ciò è tutto molto superficiale.

Dovete sforzarvi di fare più di quanto avete fatto.

In sintesi, ricordiamo di che cosa si dovrebbe preoccupare l’insegnante:

rendere le lezioni interessanti,

mantenere il controllo dei gruppi,

assicurare un ritmo veloce all’azione,

mantenere l’attenzione focalizzata sul procedimento,

comunicare agli alunni una precisa coscienza del loro rendimento.

5. Cuore o cervello?

Per riprendere il filo del discorso iniziato al precedente punto 1., vediamo come il terreno di studio e di ricerca sui fatti evolutivi e sulla realtà del "mentale" sia andato ampliandosi spezzando quei confini un po’ rigidi che mantenevano il concetto di "intelligenza" entro i limiti della razionalità pura e della capacità di comprendere-adattarsi-inventare-risolvere problemi.

Studi dell’ultima ora si sono interessati ad un aspetto dell’attività mentale scarsamente coltivato in situazioni precedenti, fatta forse eccezione per l’interesse che le correnti della Psicologia umanistica vi avevano indirizzato. Vogliamo riferirci a quella che viene ora indicata come "Intelligenza emotiva".

Si è scoperto, se così si può dire, che l’intelligenza, di per sé qualcosa di indefinibile, non è un blocco granitico piantato o trapiantato nell’essenza della persona umana. Essa è piuttosto qualcosa che trascende la nostra capacità di immaginazione e di categorizzazione. Pare addirittura più vicino al vero guardare non a una, ma a una pluralità di intelligenze, vale a dire a diverse forme e manifestazioni dell’intelligenza.

C’è un volto della nostra potenzialità intellettiva, quello che si nutre di contenuti e atteggiamenti emozionali, che pare avere tale incisività sul comportamento globale della persona da poter essere annoverato in una posizione di privilegio rispetto alle funzioni più propriamente razionali: è quello dell’emotività, del mondo degli affetti e dei sentimenti, il dominio del cuore. I sentimenti entrano in azione in tutto ciò che facciamo, non solo, ma anche nel mondo dei nostri pensieri, delle nostre fantasie, dei nostri ricordi. Come dire che pensiero e sentimenti camminano incontrandosi senza sosta lungo il percorso della nostra esperienza.

Sul piano pratico si afferma persino che l’apprendimento stesso possa essere facilitato o reso impervio dalle emozioni. Ciò implica la presenza di particolari capacità, come quelle che riguardano il modo di trattare i sentimenti, il modo di gestire situazioni conflittuali, di sviluppare empatia e di controllare i propri impulsi.

Entrare in sintonia con i sentimenti rende fruibile un ricco repertorio di informazioni indispensabili per orientarci sul cammino della nostra vita. Si tratta, anche qui come per il discorso metacognitivo che più sopra abbiamo abbozzato, di acquisire consapevolezza, una consapevolezza che si veste di emozionalità, come capacità di cavalcare agevolmente il flusso dei sentimenti che si agita in noi, come riconoscimento di una realtà interiore in cui le emozioni danno forma alle nostre percezioni, ai nostri pensieri e alle nostre azioni e come padronanza delle leve da muovere per regolare la nostra vita emotiva e le idee in formazione che ad essa si accompagnano, in ultima analisi la padronanza di sé.

La stessa intuizione creativa, per tessere un nesso significativo con quanto detto più sopra, di per sé non è sufficiente, in quanto essa, per essere produttiva, richiede che se ne capisca il valore intrinseco, richiede di essere alimentata e seguita. Ma tutto ciò non avviene se c’è carenza di competenze emotive. Sono le emozioni che ci danno la carica per muovere verso gli obiettivi stabiliti, sono le emozioni che conferiscono energia e direzionalità alle motivazioni e, per questa via, indirizzano il complesso delle percezioni e pongono in essere la volizione e l’agire.

Anche qui non si va lontano dall’ambito del "meta", e si finisce per parlare non solo di emozioni, ma di "Metaemozione" nel senso che, all’interno del rapporto insegnamento-apprendimento, ci si propone di aiutare gli alunni a riconoscere dapprima le proprie emozioni, a dare loro un nome e, in un secondo tempo, a gestirne la genesi e la manifestazione.

Per meglio dire, ci si rivolge a ragazzi che, al momento attuale, con una frequenza non trascurabile, presentano tempi di attenzione e di concentrazione alquanto ridotti; che si dispongono all’ascolto soltanto ad intervalli alterni e mantenendosi alla superficie del flusso comunicativo; che vanno in crisi di rifiuto di fronte a un compito che richieda impegno prolungato, sforzo personale nel comprendere ed elaborare i messaggi; che presentano picchi acuti e non soltanto sporadici di panico o di aggressività; che manifestano una non ben definibile apatia o anestesia morale nella valutazione di episodi violenti e offensivi della dignità umana; che sfuggono alla ricerca di motivazioni, alla coltivazione di interessi di genuino significato umano e culturale; che, con buone probabilità, non riescono a vedere nell’adulto una figura autorevole capace di esercitare fascino, ma anche di meritare rispetto, una figura che garantisca l’appropriazione di modelli di vita e di comportamento.

Fermiamoci un momento … il tempo di prefigurarci quanta lunga strada si dovrà percorrere per rimuovere ostacoli del tipo di quelli appena menzionati.

Guardando ai bambini di oggi, dunque, non possiamo certo dire, su una stima molto generalizzata, che manchino di intelligenza. Anzi, le loro argomentazioni in certe occasioni ci lasciano completamente stupiti, nel senso che fanno trasparire una non comune arguzia di pensiero. È la direzione di questo pensiero che pare sovente fuorviata. È la mancata corroborazione di questo pensiero da parte di valori profondi e intimamente vissuti che rende l’attività mentale così spesso inconcludente.

Per altro verso abbiamo tutto un mondo colorito di toni emozionali che potrebbe in qualche modo soccorrere a questa stagnazione di pensiero.

I nostri ragazzi sono certamente stimolati cognitivamente, anzi lo sono anche troppo o sono malamente stimolati. Su di loro ricade una marea di informazioni ridondanti, sconclusionate e prive di significato reale, tale da bombardarne le strutture mentali sino alla determinazione di veri stati confusionali. Sono informazioni e messaggi impastoiati in una miscela fatta di significati sterili, quelli cioè che fanno leva sul senso del prestigio, del benessere immediato, del denaro, del vincente che passa davanti a tutti e con sorprendente facilità. Ma il pensiero continua a inaridire.

Cosa fare? Ebbene, riflettiamo un attimo soltanto sulle possibilità che potrebbero scaturire dalla seguente affermazione: "Più che gli input cognitivi sono le emozioni i fattori responsabili in prima istanza nel determinare l’architettura della mente in una persona". Le emozioni, inoltre, rappresentano il propulsore necessario per l’attivazione delle stesse operazioni cognitive e per la comparsa e l’evolversi del pensiero creativo.

Emozioni e razionalità non rappresentano due poli antagonisti dell’attività mentale umana. Al contrario, esse intrecciano le loro dinamiche all’interno dell’economia mentale dell’individuo. Quant’è vero che certe emozioni prepotenti e ricorrenti possono indurre ad elaborare pensieri di una certa taratura e non di un’altra, così è vero che lo stesso pensiero può essere educato a disciplinare il mondo emozionale di una persona.

Crediamo che esista, all’inizio, una base emotiva dalla quale prendono avvio le capacità di natura cognitiva. Una delle prerogative dell’essere umano è quella, unica ed esclusiva, di apprendere l’uso di un linguaggio fondato su simboli. Se si abolisce l’onda emotiva che si crea all’interno del rapporto diadico primario, quando l’infante ancora quasi totalmente dipende dalla figura materna, forte si fa il dubbio che il linguaggio possa apparire nella sua forma espressiva umana.

All’interno dell’intelligenza in evoluzione agiscono più componenti, fra le quali quelle di primo spicco sono il pensiero, il comportamento appreso e la sfera dei sentimenti. Tolte queste componenti, gli stessi simboli si spogliano di significato.

Noi sappiamo che una personalità integra e integrata, quella che, nella fattispecie, riveste il ruolo di ideale da conseguire nel nostro P.E.E., richiede la compresenza e l’attivazione di una serie di capacità. Così parliamo di capacità di attenzione, di partecipazione, di sviluppare intenzionalità, di edificare modelli interattivi complessi all’interno dell’intenzionalità, di formulare ed elaborare immagini, simboli, idee, di creare collegamenti e nessi significativi fra questi costrutti mentali. La comparsa di simili requisiti è possibile alla condizione che la persona che ne è portatrice sia, nel contempo, capace di provare emozioni, ed il pensiero logico ne costituisce il naturale prolungamento.

Capacità razionali da una parte, emozioni dall’altra, in stretta interazione, danno quindi luogo all’emergere del pensiero analitico e generativo. In senso stretto possiamo dunque affermare che la componente generativa dell’intelligenza, quella stessa che consente di cogliere gli aspetti della realtà, di creare fra loro relazioni, di elaborarli e rielaborarli in combinazioni innovative è anche quella che apre una strada senza confini e con mille biforcazioni, una strada che conduce alla costruzione e formulazione di idee nuove consentendo contemporaneamente di passare queste idee al vaglio della riflessione per organizzarle quindi in un tutto dotato di logicità.

 

Ciò che riguarda più da vicino la scuola, allora, è il tornare a una considerazione per certi versi rivoluzionaria: quella del fatto che gli affetti, la metodica riflessione sul complesso mondo delle emozioni e le interazioni che si stabiliscono fra persone sono i pilastri posti a sostegno dell’apprendimento, in qualsiasi forma quest’ultimo si presenti. La strada dell’esperienza emozionale è percorsa da veicoli che la scuola può a buon fine utilizzare: la poesia, la fiaba, il canto, ma anche la metafora, le similitudini, i sogni, i miti, le libere associazioni. Portare le emozioni al servizio dell’educazione, allora, può essere un buon modo di favorire la concentrazione e la motivazione a fare meglio ciò che ci si impegna a fare. E questo può essere possibile già a partire dalla Scuola dell’Infanzia, allorché i bambini raggiungono i livelli maturativi più elevati delle emozioni di riferimento sociale, dove la capacità di confronto di sé con gli altri dà forte evidenza a spinte emotive quali la gelosia, l’invidia, la fiducia, l’orgoglio personale, l’umiltà e l’insicurezza. A maggior ragione se si ammette, come pare accettato, che, mentre il quoziente intellettivo di marca specificamente razionale subisce un’impennata nei primi anni di vita dell’individuo, per proseguire la sua corsa sino all’età dell’adolescenza e scemare quindi, nelle sue possibilità di crescita, con il trascorrere degli anni successivi, per altro verso l’intelligenza emotiva non incontra momenti di preclusione ad opportunità di crescita e continua potenzialmente a svilupparsi per l’intero corso vitale dell’individuo. A maggior ragione, ancora, se badiamo allo stato attuale in cui l’intelligenza emotiva dei nostri bambini pare arenarsi: bambini che, come abbiamo ripetutamente accennato, danno a vedere un tasso crescente di disturbi emotivi, bambini che sono costretti a crescere soli, dominati in misura crescente da impulsi mal controllati e dall’aggressività, sottoposti al rischio della depressione, più facili all’indisciplina, all’iperattività, al nervosismo diffuso, alla collera, all’intolleranza, a stati di preoccupazione tanto opprimenti quanto subdoli; bambini che diventano giovani senza prospettive concrete, allettati da speranze monche per il proprio futuro, alienati da una serie di malesseri individuali e sociali che vanno dai comportamenti sregolati, ribelli e prepotenti alla completa sfiducia, sino al ricorso a sostanze dagli effetti devastanti.

 

L’educazione emotivo-affettiva, nella panoramica presa in considerazione, si riveste, e questo è il suo vero punto di forza, di carattere elettivamente preventivo, mirando sostanzialmente a ridurre il formarsi di stati d’animo pericolosamente negativi e a favorire, nel contempo, la formazione, la crescita e il consolidamento di emozioni positive. La direzione da prendere è quella dell’abbattimento dei pensieri irrazionali, dopo averli riconosciuti, isolati e messi in discussione: un vero e proprio processo di autocomprensione e di autoristrutturazione delle reazioni emotive autolesive. Verso la formazione di una gamma di pensieri razionali, più realistici e oggettivi. Una direzione che implica non soltanto il lavoro della scuola, ma il coinvolgimento finalizzato di tutte le potenziali fonti di energia educativa, in prima istanza la famiglia che detiene un potere e una posizione di privilegio nel determinare la qualità e le prospettive di cui si rivestirà il corso della vita dei nostri bambini.

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