al cinema


Il cinema è l'unica forma d'arte che -proprio perché operante all'interno del concetto e dimensione di tempo - è in grado di riprodurre l'effettiva consistenza del tempo - l'essenza della realtà -  fissandolo e conservandolo per sempre



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mo Tarkovsky che ama la poesia. Strada larga o stretta sempre porta; so poco per scrivere un saggio su di lui ma ci lega la comprensione del cuore: il sentimento dei suoi film che vuole penetrare il mistero del mondo mentre la prospettiva corre tra scene ferme, in carrellate interminabili dai personaggi scultorei, dai paesaggi di luce verso un punto cieco. Un movimento inarrestabile in fuori; non il salto nel nulla ma essere un tutto col cielo sopra di noi. Tarkovsky crede in Dio e tiene alla verità soltanto. Basterebbe questo tratto a connotare la formazione del regista in un ambiente estraneo all'Europa. La fede vissuta come dubbio o professione di vita appartiene al Protestantesimo o al Cattolicesimo, a Bergman o Kieslowski; per il russo invece è iniziazione, che si compie nel sacrificio consapevole di sé (si badi: farsi agnello e non capro, significa pur sempre volere). Non a caso intitola l'ultimo film, cui affida il proprio testamento spirituale morendo di cancro, "Sacrificio". Dal Rublev la religiosità russo-ortodossa recita ininterrottamente, senza convenienze: il monaco è testimone di fede al proprio tempo; quando il potere lo opprime, piuttosto che mediare la propria esperienza - che sa irriducibile - pratica il silenzio. E quando romperà il voto sarà comunque un atto conseguente: il ragazzo della campana lo coinvolge nella sua vicenda divenendo allo sguardo inquieto di Rublev il messaggero di un imperativo nell'arte. La morale così discute sulle scelte, mai delle scelte; perché il mondo è segnato da una volontà suprema e rimesso alla storia già compiuto. Le società zarista e sovietica sarebbero pressate da questa dimensione incombente, un'ombra che attira i singoli e le istituzioni verso scelte estreme. Una tale simmetria si paga in termini di libertà, e necessita di ipostasi; tale assetto giustifica le icone, almeno quanto il nostro ordine borghese il commercio delle immagini. Non dipinto da mani umane ammonisce l'icona:  il pittore si annulla nell'ispirazione finché Dio è in lui; allora l'opera è preghiera, e l'immagine ritorna sacra tramite il fare sacro, comunicando con la preghiera il trascendente all'uomo. Il nostro occhio non è educato a fissare, così coglie il particolare per costruire fenomenologicamente l'intero nella serie; al contrario diverse opere sono strutturate come una successione di quadri il cui senso rimanda dagli uni agli indefinitamente. «L'immagine non è questo o quel significato espresso dal regista, bensì un mondo intero che si riflette in una goccia d'acqua, in una goccia d'acqua soltanto», esplicita il regista rigettando il realismo socialista.
Altro spiccato carattere del regista è l'ascendenza esoterica. Non soltanto sono congrui i riferimenti che fa di frequente a quel patrimonio; l'intenzione di velare un messaggio al mondo è talmente evidente da costituire il filo tra i suoi film. Esoterico è il suo modo di vedere: rivela la parte per il tutto e affida all'occhio la maieutica che decifra quella goccia d'acqua. La contiguità con l'inconscio inganna. Il simbolo assume valenza del tutto differente nei due campi, univoco per la disciplina che lo usa o ridondante per la psicologia che lo interpreta.
Un amico russo, valente musicista, mi diceva che il cinema è la più volgare tra le muse; certo si riferiva alla peculiare spettacolarizzazione di quest'arte, così diversa dalla drammatizzazione operata invece dal teatro e che abolisce qualsiasi liturgia separando il testo dalla prassi. Ciò non vale per Tarkovsky, che realizza una poetica esclusiva. La cultura è necessaria a seguire un tracciato che in ciascuna opera si arresta alla soglia della coscienza, quando il cognitivo è dilatato nel tempo interiore del regista fino a smarrirsi e gli echi cadono improvvisamente su una domanda che di volta in volta è l'assunto del film. Ingmar Bergman disse di lui che ha inventato un modo nuovo di fare cinema. In un certo senso Tarkovsky realizza l'arte totale, nel modo più plausibile sino ad oggi sperimentato. A Kubrick preme rappresentare le sue idee, utilizzando gli attori alla stregua dei moduli espressivi che padroneggia; invece le foto d'agenzia che si riferiscono al russo, malgrado la bellezza delle sue scene, sono per lo più volti o figure: è banale definire drammatici questi personaggi, sembrano interrotti nell'atto di dire, pensare, comunicarci una loro verità impellente. Pur esorcizzando qualsiasi nomenclatura, condivido la distinzione tra cinema di prosa e cinema di poesia, alla quale dovrebbero aggiungersi altre categorie. C'è per esempio un'opposizione evidente tra cinema spettacolo e un altro cinema legato maggiormente al testo, alla capacità della parola. Citando ancora il cineasta americano, nell'intervista che concesse a Michel Ciment ebbe a dire: «Nel film "Orfeo" di Cocteau il poeta chiede cosa deve fare. «Stupiscimi» , gli viene detto. » Nella stessa intervista affermò che la gente non dice normalmente quel che pensa e conseguentemente il parlato  non dovrebbe dare molte indicazioni in tal senso. Un dialogo di stampo teatrale, obbietteremmo, può ricreare egualmente una realtà credibile attorno agli attori.

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