Riccardo d'Este                                                                                 Gabriele Pagella


Quel ramo dell'ago di Narco

la Droga e il suo Diritto









Gennaio 1993




I





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Che se la voce tua sarà molesta     
nel primo gusto, vital nutrimento  
lascerà poi, quando sarà digesta  

Dante, Paradiso   

 

 

 

 

 

  Quando una sera di giugno

  due poliziotti ti rincorsero lungo lungo il Po

  riuscisti a scappare correndo

  sino a farti esplodere fiato e polmoni;

  quando quei giudici volevano interrogarti

  e sapere e cosa e come e chi e perché

  levasti le tende della tua vita

  rifugiandoti al mare senza alcuna risposta;

  quando i preti ti accerchiarono

  ed erano tanti e spesso anche invisibili

  con un balzo prodigioso ti desti all'eclisse

  al silenzio delle case rumorosamente

  televisate ed incomunicabilmente serrate;

  quando ti cercarono i dottori

  i lorsignori, i cofattori, i malfattori

  ti nascondesti nel buio della candida

  animuccia tua tutta impolverata

  e non ti trovarono no non ti trovarono.

  Ma l'animale dorme e ti colsero nel sonno

  parlandoti di ideologie superbe di miti grandio

  si ti colsero nel sonno della ragione

  e fu il tuo errore: ritornasti in famiglia.

  La famiglia che è ovunque e che o

  si spacca o

  si spara.



  Goffredo Firmin, Opus

 

 

 

 

PREMESSA

      Dopo Intorno al Drago ed altri testi, alcune delle tesi qui di seguito enunciate possono risultare già note al lettore attento, poiché si riallacciano a quanto precedentemente sostenuto sul tema "droga" dalla critica radicale; altre sono il frutto di ulteriori e più recenti elaborazioni, seppure in sintonia con quello che sinora è stato espresso. Il fatto è che la questione è complessa ed aggrovigliata e molti saranno ancora gli sforzi necessari per chiarirne i contorni, dal punto di vista radicale, mentre per modificare concretamente la situazione ci vorranno delle imprese di sovvertimento sociale che oggi riusciamo soltanto ad intravedere per bagliori e in controluce. Sia l'ampliamento e l'approfondimento dell'analisi critica, sia lo sviluppo dei mezzi per il superamento reale della condizione presente sono tra i còmpiti che ci siamo promessi.
      Questo pamphlet, dunque, altro non è se non un tassello nel complessivo mosaico che, attraverso la chiarificazione e l'evidenziazione, vuole sabotare le condizioni date e costruirne diverse, sulla droga ma soprattutto contro il dominio di capitale. Sul tema specifico si ritornerà tra breve con altri testi, con un mag­gior approfondimento e con uno spessore maggiore. Purtroppo in questa occasione siamo stati sospinti, ancora una volta, dall'urgenza che, se spesso non è consigliera sufficiente, altrettanto spesso è consigliera necessaria.
      Anche se non si è mai smesso di parlare del Drago, e cioè di droga e, soprattutto, del fatto di drogarsi vivendone tutte le conseguenze, in questo periodo riappare sulle prime pagine del bel paese che fu dei Guidi e dei Malatesta la questione politico-legislativa (spesso sub specie ethica) riguardo alle droghe, dopo la nota conferenza stampa congiunta di Giuliano Amato, attuale e provvisorio capo del consiglio dei ministri d'Italia, e di Giacinto Pannella, detto Marco, che si presenta come un esponente dell'opposizione ed anti­proibizionista. Com'era inevitabile, alla proposta esplorativa di modificazione dell'ultima legge in materia, quella definita Vassalli-Russo Jervolino, dal nome dei pupazzi che se ne sono assunti pubblicamente la responsabilità, sta seguendo un dibattito, ovviamente tanto pubblico quanto ripugnante, in cui prendono la parola tutti coloro che avrebbero mille motivi per tace­re: politicanti, preti, sociologi, "operatori" del settore, "esperti", dalla lagerista Pierapiatti al recuperatore Ciotti, passando attraverso i Picchi o i Muccioli o i Gelmini. Di fronte al forzato silenzio degli innocenti, c'è il frastuono dei colpevoli.
      Da qui nasce l'urgenza di distanziare il punto di vista della critica radicale e rivoluzionaria da tutto il bailamme spettacoli sta, sia che voglia rappresentarsi sotto le vesti repressive o sotto le spoglie umanitarie e recuperatorie. L'urgenza, dunque, di ribadire la critica alla merce in quanto tale ed alla società in quanto tale.

 

 

 

 

      Nei fatti, questo libello vuoi essere anche un piccolo segmento nella battaglia a favore della libera­lizzazione di tutte le droghe, che troppi mistificano con il concetto e termine di legalizzazione, ma soprattutto una linea retta nella guerra per la liberazione dal capi­tale e dallo Stato, per la libertà. In spregio alla società maniacale del capitale, ai suoi intubamenti repressivi come agli incapsulamenti recuperatori di coloro che parlano di un uomo che sempre più dovrebbe essere un burattino, di cui loro sarebbero i Geppetto o il Gatto e la Volpe. (Un esempio per tutti: un certo cardinal Fiorenzo Angelini, il "ministro della sanità" della cupola vaticanesca ha avuto la sfacciataggine di dichia­rare pubblicamente: «Chiedo carceri a misura d'uomo, ospedali a misura d'uomo, comunità di recupero a misura d'uomo». Quando vedremo carceri a misura d'uo­mo o ci correremo dentro o rivedremo il nostro concetto di uomo o semplicemente ci suicideremo. Il presti­gioso cardinale ci vuole carcerare, ospedalizzare, comunitizzare e recuperare tutti. A misura d'uomo. Lui ovviamente non c'entra. A misura di ometto, al massimo.)
      Per tutto ciò, ed altro ancora, questo è un pamphlet di battaglia, per la libertà e per la liberazio­ne. Continuando nel tracciato inesausto ed inesauribile del DIFENDERE E DIFFONDERE LA LIBERTA' OVUNQUE.

Gennaio 1993

 

 

 

 

Coraggio, bel drago; affonda i tuoi artigli
vigorosi, e il sangue si mescoli al sangue per
formare ruscelli in cui non ci sia acqua.
Facile a dirsi, ma non a farsi.

Isidore Ducasse conte di Lautréamont, I Canti di Maldoror

 

 

 

 

 

 

ALCUNE TESI INTERPRETATIVE SUL DRAGO

 

 

 

Uno

      Ogni discorso intorno alla droga che non parta dai suoi presupposti fondamentali è, se va bene, fuor­viante e mistificatorio e, sennò, direttamente collusivo con la società presente che la produce e riproduce. I presupposti essenziali sono i seguenti:

      * la droga è una merce al più alto livello di concentrazione economica e spettacolare;

     * la droga, nel suo consumo e nella sua diffusione, nasce da bisogni individuali e collettivi frustrati, irrealizzati e costretti in una one way, in una strada a senso unico;

      * la droga ed i suoi fruitori vengono usati per il controllosociale allargato;

      * la droga può provocare gravi malattie (come il carcere, la comunità terapeutica, l'aids eccetera) non tanto per la sua qualità intrinseca come sostanza, ma per la voluta interdizione sociale di cui il proibizionismo è l'aspetto più evidente;

      * per questi stessi motivi, la droga produce cri­minalità, devianza, demenza ed ideologia, fenomeni che da sé sola non potrebbe produrre o produrrebbe in misura assai limitata;

      * la droga, infine, assume il suo completo senso neomoderno, fronte alla glaciazione sociale ed alla scomparsa di qualsiasi ipotesi credibile di progresso (produttivo, intellettuale, etico eccetera), solo se riveste i panni del Drago, figura mitica ricorrente ma che trova la sua massima angoscia descrittiva nei troppo popolati deserti contemporanei.

 

Due

      Prima di affrontare partitamente i sei presupposti fondamentali enunciati sopra, sono necessarie alcune chiarificazioni metodologiche, di merito ed attinenti alla politica (ovviamente massmediatizzata).

      Per quanto concerne il metodo, assumiamo come droga la definizione corrente, il concetto di sostanza stupefacente, facendolo solo per comodità analitica e non certo per adesione ideologica. Senza volerci dilungare su quanto abbiamo già scritto in altre occasioni, ci pare immediatamente palese che l'uso di altre sostanze, a partire dall'automobile (che così finalmente smette di sembrare forma per tornare a ciò che non ha mai smesso di essere: sostanza), all'uso di condizioni sociali precostituite, dalla famiglia alla discoteca, possa rientrare a giusto titolo nell'uso di droghe, talora pesanti, spesso pesantissime. Se, del tutto provvisoria­mente ed in attesa di un adeguato manuale per distri­carci tra le droghe nella società contemporanea, intesa anch'essa come drogata e drogogena nonché neomoderna, accettiamo l'equivalenza droga=sostanza "stu­pefacente" (quando evidentemente la stupefazione non è più materia dei nostri desertici giorni) soltanto per­ché, per l'appunto, è un oggetto del contendere; su questo, in particolare, si esercitano e sviluppano interessi, ideologie, repressioni di Stato e riproduzioni di capitale. Accettiamo, quindi, di scendere al livello del­la falsificazione per colpire duramente il falso, al livel­lo del nemico per sostanziare vieppiù la nostra inimicizia radicale verso l'esistente.

      Riguardo al merito, va subito affermato che la "sostanza stupefacente" (droga) determina assai poco la figura sociale del "drogato". Vi sono due sovra­impressioni ideologiche che è tempo di svelare e vedre­mo di farlo con esempi. Se il bevitore di Campari o di Glen Grant non viene immediatamente definito come alcolista, solo per il fatto di assumere quelle sostanze (si parla di alcolista o alcolizzato solo ad alti livelli di dipendenza), se i fumatori non vengono usualmente chiamati tabagisti, se non nel linguaggio sedicente scientifico ed in casi di elevata intossicazione, se al termine "automobilista" o "lavoratore" o "padre" non viene quasi mai data una connotazione negativa, ed anzi spesso ne ha una positiva, mentre sono evidenti l'assuefazione ed i danni che questi ruoli reiterati producono, il frequentatore di sostanze cosiddette stupefa­centi è per ciò stesso un "drogato". E ciò anche nel caso di consumatori rapsodici o nel caso di consumatori di sostanze a bassissimo o nullo rischio di assuefazione, ma comunque indicate come "stupefa­centi". Il linguaggio svela l'ideologia di cui si nutre, così come l'ideologia denuncia palesemente i suoi linguaggi. Queste merci, dunque, hanno una sovraim­pressione: sono droghe e pertanto drogano. E la valenza sedicente morale vi è sempre sottesa.

      La seconda sovraimpressione è ancora più sotti­le: nei sostrati del concetto di drogato vengono inserite immediatamente delle connotazioni repulsive che consentono la repressione o, del pari, il tentativo di recupero. «Rapina nel posto x: erano probabilmente drogati». La rapina, moralmente riprovata da una società normalmente rapinatrice, in questi casi viene in qualche modo "spiegata" dalla presunta natura dei re­sponsabili. Lo stesso direttore generale degli Istituti penitenziari, Niccolò Amato, in una recentissima intervista al giornale torinese "La Stampa" sostiene che i comportamenti delittuosi dei drogati sono essenzial­mente di due tipi: quelli messi in opera per procurarsi la sostanza e quelli compiuti sotto l'effetto delle sostanze medesime. Se il primo aspetto (assolutamente vero) dovrebbe, da sé solo, mettere in crisi tutte le ipotesi proibizioniste, il secondo (sostanzialmente falso o comunque irrilevante) tende invece a ribadirle. Se un individuo, sotto l'effetto di sostanze definite stupefacenti, tende a commettere dei delitti, il còmpito della società è quello di difendersi e quindi di proibire queste sostanze criminogene. L'ironia è sin troppo facile. Prendiamo l'automobile come esempio. Molti possono commettere reati per potersi permettere un'automobile, specie se di lusso eccetera (vero) e molti li possono commettere sotto l'effetto dell'automobile medesima (vero), se per questi si intendono le varie stragi automobilistiche. Ma nessuno pensa di mettere sotto accusa, neppure sul terreno linguistico, l'automobilista, cioè l'automobilista in sé e per sé.

      La droga, quindi, esiste non solo come merce materiale ma anche come merce immateriale: fonte di rappresentazione collettiva e di collettiva rimozione di ciò che vi sta alla base.

      Va da sé che il drogato, inteso come fruitore occasionale o stabile di certe merci, le sostanze stupefacenti, esiste e possiede delle sue caratteristiche particolari. Ma non esiste il drogato come entità a sé stante, se non nelle menti ammalate degli specialisti; dopo la scomposizione delle classi sociologicamente intese, solo gli imbecilli possono approdare all'ideologia di queste nuove "classi" del tutto surrettizie. E poco importa che uno sia pro, l'altro contro e l'altro ancora agnostico. Il drogato è una figura tipologica e topologica volutamente astratta dalle condizioni materiali che vi sono sottese e dalla vasta ricchezza dei comportamenti soggettivi. Né le altre definizioni, come tossicomane, tossicodipendente eccetera, valgono molto di più, se non nelle classificazioni sociologiche, criminologiche o mediche. Evidentemente, al fine dell'analisi, si può tipicizzare, e dunque fissare, un dato comportamento, ma questa tipicizzazione è ancora una volta riduttiva rispetto alla realtà, usa un procedimento che si vuole scientifico ma che in realtà è solo metodologia di metodologia ed avanti così. La vita, anche disperata e "deviata", sfugge alle statistiche, quanto i cultori delle statistiche sfuggono alla vita.

      Per quanto attiene alla politica, è evidentissi­mo che su un simile problema, reale sulla pelle dei soggetti, si giocano importanti ruoli e sostanziosi poteri. Lo dimostra lo stesso modificarsi delle leggi, dato che le leggi sono un' espressione della poli­tica, dei suoi giochi e dei poteri che sono in ballo.

      Limitiamoci all'Italia. Nel 1954 gli USA, per mantenere meglio il controllo statalmafioso di una merce la cui domanda era in ascesa, imposero una leg­ge fortemente repressiva: per valorizzare la merce bi­sognava ricorrere alla proibizione. Fu la spinta per la creazione di valore aggiunto, sebbene in Europa il pro­blema allora non si ponesse se non a livelli individuali e limitatissimi. Nel 1975, quando la merce circolava già con una certa abbondanza ma senza essersi ancora del tutto affermata sul mercato, sotto spinte sedicenti liberali (in realtà volte al consolidamento ed all'allar­gamento del mercato) l'Italia adottò una legge che si pretendeva permissiva, anche se la condanna dell 'uso di droghe doveva rimanere, e non solo in campo etico, ma "mitigata" dal concetto di "modica quantità".

      Dopo lunghi colloqui americani con Rudolph Giuliani, e sotto la spinta del mercato internazionale, Bettino Craxi nel 1988 si impuntò per far passare una legge fortemente sanzionatoria anche nei confronti dei consumatori, lasciando un ampio margine discreziona­le e valorizzando le comunità terapeutiche (merce so­ciale ed ideologica). La ottenne nel 1990 ed è la legge che va sotto il nome di Vassalli-Russo Jervolino.

      In questi ultimissimi tempi, sembra esservi un 'ulteriore "sterzata", assai pubblicizzata massmediaticamente, che dovrebbe correggere gli aspetti più ideologici e repressivi della legge oggi in vigore. Il mercato va stabilizzato ed è in questa chiave che va letta la proposta Amato-Pannella.

      Da questo indecoroso balletto scaturiscono an­che indicazioni politiche. La "droga" viene usata come cavallo di battaglia per sostenere questa o quella alleanza, per creare un'immagine del ceto politico. Se nel 1988 Craxi e chi lo sosteneva voleva mostrarsi come partito d'ordine, oggi, dopo il progressivo sfarinamento dei partiti, i suoi successori, fronte al nuovo partito d'ordine leghista, lamalfiano, neofascista eccetera, cercano di rivestire spettacolisticamente i panni dei difensori delle libertà. I repressori ed i recuperatori hanno in comune la difesa di questa società, la sua perpetuazione. E questa società deve essere terapeutica rispetto ad ogni sommovimento, individuale o collettivo che sia. Non per caso l'arco delle scelte possibili di comunità è vastissimo e va, per l'appunto, dai musco­losi repressori ai pallidi recuperatori: quello che importa è che la terapia e la cosiddetta risocializzazzione vengano imposte. Le leggi sono solo il suggello di tale percorso di autonomizzazione di una società che deve amministrarsi, essendo giunta al capolinea nella pro­duzione di idee, di innovazioni materiali, di progettualità. Con la progressiva caduta dell'economia, la politica assume un ruolo centrale nell'amministrazione, determinando a sua volta una nuova economia, quella fondata sull'imposizione autoritativa di valore e di mercato. Il senso delle leggi va interpretato in questi termini.

 

Tre

      Il primo dei presupposti essenziali esposti all'inizio è che la droga, come merce, rappresenta uno dei più alti livelli di concentrazione economica e spettacolare che si conoscano nella società neomoderna. L'ossessivo processo di valorizzazione è sotto gli occhi di tutti e possiamo fare anche i conti della cuoca. Nel cosiddetto Stato degli Shan, tra Birmania, Laos e Thailandia, retto dal famoso Khun Sa (al proposito si veda Intorno al Drago, Nautilus, 1990), un grammo di eroina può costare, se la quantità acquistata è considerevole, non più del corrispettivo di 5.000 lire italiane, con ciò comprendendo anche la tangente che si deve versare per entrare in quel territorio. In Italia, a livello medio, viene a costare al consumatore circa 150.000 lire, dopo vari passaggi e vari tagli. Vogliamo porre, per ipotesi, che il costo dei passaggi vada a pari con il guadagno dovuto ai tagli? (E ciò non è comunque vero perché si sa, a dispetto di giornalisti e sedicenti esperti, che un chilo di eroina in Italia, e pura sopra il 75%, lo si compra con 50 milioni circa, sicché il grammo viene a costare 50.000 lire. E' altresì risaputo che la purezza, al dettaglio, difficilmente supera il 10%, di modo che i conti sono presto fatti. Da un grammo, che costava 50, ne vengono ricavati circa 7.7 per 150.000 che fa un milione e cinquanta, il che significa che in ogni grammo c'è un valore addizionale di un milione.) Ma ritorniamo pure all'ipotesi iniziale, spropositata per difetto. Quale merce si autovalorizza di 30 volte, pagati lautamente tutti i costi possibili? Nessuna, ideologia e spettacolo a parte, ma sarebbe un discorso diverso. (Per la cocaina la valutazione è analoga, se non maggiore. L'hashish, il "parente povero" delle droghe, ha un'autovalorizzazione, tutte le spese pagate, solo di dieci volte!) Allora, in modo manifesto, la droga è una merce eccellente, cioè ad altissimo tasso di auto­valorizzazione. Naturalmente a causa del proibizionismo che determina e sostiene il mercato. Tutto ciòdal punto di vista economico, cioè della cuoca.

      Ma va considerato tutto l'indotto e qui si entra in Un terreno che fluttua tra l'economico e lo spettacolare e che fa assumere una vigenza di valore assai superiore alla merce. Sarebbe futile qui calcolare quanti mercanti, quanti ricettatori, quanti poliziotti, quanti carabinieri, quante guardie di finanza, quanti secondini, quanti magistrati, quanti avvocati, quanti giornalisti eccetera ricavano la loro paga per il lesso dall'esistenza della droga e del drogato. E medici e psicologi e psichiatri. Nonché, ovviamente, i professionisti del supposto recupero della materia prima, il drogato.

      Si giunge così, quasi scivolando, all'alto tasso di concentrazione spettacolare della merce droga. La droga non potrebbe avere il suo valore economico senza possedere uno specifico valore spettacolare, dato da un miscuglio di esibizione e di presunto rischio, da un 'im­magine della trasgressività e dalla realtà repressiva e recuperatoria. Chi vende droga ha bisogno di chi vende recupero (comunità) e viceversa. Lo Stato, vigile, re­gola il traffico. Chi assume sostanze stupefacenti deve credere nella droga, poi odiarla, poi sperare di "recuperarsi socialmente" e via così, almeno in buona parte dei casi. Senza l'ideologia, le sostanze cosiddette stu­pefacenti sarebbero delle merci povere; con lo spettacolo diventano merci eccellenti, inferiori solo al danaro. (Si pensi soltanto al cosiddetto costo del danaro, del tutto fittizio e sovradeterminato.)

      Eccoci: questa merce che si valorizza in pro­gress e che per ciò ha bisogno di trafficanti e poliziotti, ma anche di giuristi e di mafiosi, di giornali­sti e di politici, di Stato, è divenuta la merce per eccellenza della società neo moderna, quella in cui il valore d'uso è quasi irrintracciabile nella frenesia insensata del valore di scambio.

      Eccoci: la fine storica del progresso ha determinato il suo mostro spettacolare: la riproduzione drogata e drogogena, supportata dalla drogorepressione.









Quattro

      La gamma dei bisogni umani a cui le droghe dovrebbero rispondere è vastissima. Le sostanze euforizzanti o calmanti o che alterano comunque gli stati di coscienza, cioè le cosiddette droghe, sono es­senzialmente piacevoli, seppur in misura diversa ed a seconda della sensibilità di ciascuno, come tutti sap­piamo. Infatti, neppure la caricatura di un Muccioli, già di per sé caricaturale rispetto all'intelligenza, potrebbe sostenere che la gente assume sostanze stupefacenti solo per farsi del male o per culto del Male. Le pulsioni tanatiche sicuramente esistono ed hanno il loro peso specifico nel processo di assunzione di dro­ghe, ma sono assai più complesse, stratificate, profon­de e soprattutto coinvolgono molte condotte umane an­che al di fuori della droga.

      Bisogna affermare in tutta serenità intellettuale che le droghe danno, o possono dare, degli effettivi piaceri, oltre alla simulazione dei medesimi. E' pur vero che la coazione a ripetere, insieme all'ossessiva ricerca del danaro necessario per procurarsi la sostanza e della rete di rapporti indispensabili per stare nel "giro" (e tutto ciò è essenzialmente collegato alla tossicodipendenza), è stressante e può diventare odiosa al punto da cancellare i piaceri iniziali o momentanei. Ma anche qui bisogna essere precisi, senza veli ideolo­gici o moralistici. Spesso proprio questa iterazione fa parte dei "piaceri" della tossicodipendenza e peraltro già quasi quarant'anni fa William S. Burroughs, scrittore per certi altri versi insopportabile e neoavanguardista, affermava che la migliore sostanza è quella che dà più rapidamente assuefazione, proprio perché spesso il tossicodipendente cerca la dipendenza, la coazione a ripetere, vale a dire qualcosa che gli invada l'esistenza e ad essa dia un senso, ancorché stravolto. (Nella fattispecie, Burroughs esaltava, non senza evidenti venature di ironia, la straordinaria capacità di gregarizzazione dei tedeschi, inventori, dopo l'eroina Bayer, di un'eroina sintetica conosciuta come Eukodol e commercializzata in Italia come Eucodale, la cui capacità assuefattiva è decisamente superiore a quella dell' eroina "naturale".)

      La questione è più semplice di quel che può apparire a prima vista. A chi va tutti i giorni, iterativamente, a scuola o al lavoro ed intrattiene, nella vita corrente e famigliare, rapporti che si riproduco­no indefinitamente può anche sembrare strano o malato che qualcuno cerchi l'iterazione nella e della droga, ciò che va sotto i nomi di "schiavitù", di "tunnel" eccetera. In realtà è proprio questo che molti drogati cercano: una normalità nell' (apparente) anormalità, una costanza nella (apparente) diversità. Il consumo di droghe che procurano assuefazione può riempire le giornate, può riempire intere vite, sinché morte non li divida. Nell'evidente impresentabilità ed insopportabilità della sopravvivenza coatta (scuola, lavoro, famiglia, soldi, consumi eccetera) la droga può sembrare un' avventura, un essere o trovarsi al di là di quei recinti. A cui, ovviamente, va aggiunto il piacere diretto che la sostanza può procurare. In una certa fase della sua evoluzione tossicomane, non vi è persona più attiva del consumatore di droghe ad alto tasso di assuefazione fisica o psichica (in particolare gli oppiacei o i derivati della coca): cerca e trova continuamente soldi, cerca e trova continuamente chi gli fornisce l'ambita sostanza, cerca e trova con ogni mezzo.

      In una società che colonizza le esistenze di ciascuno può avvenire il paradosso: la schiavitù volontaria. L'horror vacui della sopravvivenza spinge a rifu­giarsi in ogni apparente eccesso o, viceversa, in una normalità caricaturale.

      La droga ha questo grande potere attrattivo: oltre ad offrire un qualche piacere, impone un ciclo di attività onnivore ed onnipresenti. In assenza di vita reale, il massimo grado di simulazione è ciò che com­pensa, o sembra compensare, la mutilazione e l'assen­za. In una società in cui il consumo è tutto, natural­mente non può che trionfare il consumo più paros­sistico, specie se è eterodiretto e consente un alto tasso di profitto nell' amministrazione e per essa.

 

Cinque

      Non cadremo certo anche noi nell'iperbole dell'ultrasinistra minoritaria per cui la diffusione di droghe "pesanti" sarebbe stata voluta dai "padroni" per contrastare la sovversione sociale, inquinando le menti e le braccia migliori della nostra generazione. Ben labile sarebbe stata questa intenzionalità sovversiva se fosse bastata una manciata di polveri per ridurla in polvere. Il movimento è stato esattamente opposto: quando il "sogno di una cosa" non è stato all'altezza delle esigenze contemporanee, e spesso è diventato un incubo, quando il progetto rivoluzionario, o presunto tale, si è rivelato inconsistente e si è sgretolato nel suo possibile senso, riducendosi a microstorie politiche, di capetti senza abbastanza gregari e di gregari alla dispe­rata ricerca di uscire dal gregariato, ma senza alcun progetto, allora la droga è stata un approdo anche per molti di quell'ultrasinistra che immotivatamente si autodefiniva rivoluzionaria. Vada sé che dopo un Brandirali o dopo un Sofri il cantuccio delle droghe possa sembrare caldo. Vada sé che tra un dirigente militante ed un normale spacciatore nessuno avrebbe dei ragionevoli dubbi. Vada sé che fra l'impotente schema operai sta o la velleità anarchista o l'improbabi­le sicumera lottarmatista e la prepotente voglia di vive­re degli individui si è facilmente insinuata la droga. Va da sé. Ma, come sempre, l'ultrasinistra parla solo di se stessa e per se stessa, come se a pochi metri dalla sua miopi a ci fosse un altro continente, che forse c'è.

      In realtà, la droga è un fenomeno intrinsecamen­te e profondamente sociale. Ha toccato gli ex ribelli quanto, se non più, i potenziali integrati. Possiede una valenza politica soltanto in seconda lettura. Perché possiede una sua particolarissima economia, frutto della società della riproduzione, dello spettacolo e del­lo spreco, e perché incatena i soggetti, quanto il lavoro se non di più, a quella iteratività che consente la conti­nuazione della gestione politica. Il suo specifico uso politico sta nella falsa e coartata contrapposizione: drogaggio e recupero sociale.

      Quando parliamo di controllo sociale allargato esprimiamo letteralmente quella che è la verità di fatto. Non è che la società matrigna si inventi forme di con­trollo sociale per impedire la crescita dei suoi antago­nisti, anche se questo è un obiettivo intrinseco e dun­que sempre presente. La società in quanto tale è votata al controllo, per il suo mantenimento, ed usa tutti gli strumenti opportuni per consolidarlo, estenderlo, allar­garlo. La droga rappresenta controllo sociale non tan­to perché disinnesca potenzialità sovversive, quanto perché i suoi fruitori vengono spinti alla coazione a ripetere ed all'auto gratificazione, alla rappresentazio­ne di sé come "diversi". Il controllo si esercita attraverso l'anestesia; è, quindi, una misura intrinseca alla forma del dominio.

      Chi potrebbe onestamente sostenere che la coca in sé è un male? Eppure è servita per secoli per far sopportare meglio la fatica ai contadini peruviani o colombi ani eccetera, ed ancor oggi si risolve spesso in un input per attività per lo più irragionevoli. Chi po­trebbe dire che l'alcol è in sé spiacevole? Eppure gli operai delle prime industrie inglesi, e non solo, con l'alcol potevano tollerare una condizione altrimenti inaccettabile, ed ancor oggi è veicolo di un'euforia al­trimenti del tutto immotivata (si pensi agli hooligans, per esempio). Il controllo è preventivo ed anestetico, come dimostrano le grandi istituzioni: famiglia, scuola, (luogo di) lavoro, (fascino del) danaro eccetera, per tacere dell'ignominia dell'alienazione religiosa che, mutando i suoi panni nei vari continenti e riammo­dernando costantemente le sue forme, è uno degli esempi massimi della schiavitù in qualche modo volon­taria e compartecipata.

La droga sta dentro il controllo sociale perché il controllo sociale è di per sé drogato. La sostanza stu­pefacente c'entra ben poco in questo meccanismo. Quello che invece c'entra è l'obbligo a movimenti quo­tidiani ossessivi, ad atteggiamenti più riproduttivi che produttivi.

Il controllo sociale attraverso il controllo dei fruitori di sostanze stupefacenti è esattamente di que­sto tipo: indotti determinati bisogni, il controllo diven­ta automatico, nel senso che le condotte dei singoli o dei gruppi divengono facilmente prevedibili. La previ­sione è la base del controllo. La proliferazione delle comunità terapeutiche, favorite da leggi proibizioniste, da investimenti economici, da interventi politici, nasce proprio dal bisogno di controllare e gestire interamente il ciclo. Come il cittadino diventa sempre più drogato, il drogato deve divenire sempre più cittadino. I concet­ti stessi di recupero e di risocializzazione sono, nella loro ripugnanza, assai indicativi: si recupera qualcuno ai valori glaciati di questa società, si risocializza qual­cuno rendendolo membro attivo (cioè totalmente passi­vo!) nella società della merce e dello spettacolo.

 

Sei

      La qualità intrinseca delle sostanze definite dro­ghe spesso è assai irrilevante rispetto al peso che viene loro sovraggiunto dal contesto sociale e nell'uso che in certa misura viene favorito o consentito od obbligato. E ciò vale soprattutto per le malattie indotte dalla dro­ga. Le droghe in quanto tali possono provocare varie alterazioni, a volte piacevoli ed umanamente positive ed a volte spiacevoli. Ed anche talune malattie in quanto sostanze (per esempio depressioni polmonari o epatopatie) e per il tipo di assunzione (ad esempio, le flebiti sono frequenti in chi ricorre all'uso dell'ago, così come riniti ed affezioni rinolaringee sono frequen­ti in chi ricorre all'inalazione). Ma le malattie più gra­vi sono quasi sempre determinate dall'interdizione so­ciale, dalle leggi e dalle morali, dalla condizione di minorità in cui il soggetto definito drogato viene a ritrovarsi. Per comodità e sveltezza di analisi, trala­sciamo qui le malattie che in qualche misura possono essere considerate "minori" ed affrontiamo le tre più gravi: il carcere, la comunità terapeutica e l'aids.

      Ad alcuni potrà sembrare bizzarro che si consi­deri il carcere come una malattia, ma, schiettamente, non sappiamo trovare dei termini migliori per definir­lo. E' una malattia dell'intera società, è un forte ripro-







duttore e diffusore collettivo di malattie, è direttamente patogeno rispetto ai soggetti che sono costretti ad at­traversarlo. E' il segno di un morbo sociale e, a sua volta, è induttore di malattie specifiche, mentali e fisi­che. E' pur vero, come si dice, che siamo tutti in qual­che misura prigionieri dei nostri ruoli e dei comporta­menti imposti, ma è altresì vero che il carcere è uno dei punti massimi di concentrazione dell' espropria­zione, dell'innaturalità a cui tutti siamo sottoposti. Chi parla di un carcere "dal volto umano", di un carcere "a misura d'uomo", di uno strumento di risocializzazione, mente sapendo di mentire. L'unica cura riguardo a questa grave malattia è evidentemente l'abolizione del carcere medesimo, provvedimento non solo socialmen­te possibile e legittimo, ma umanamente necessario.

      Esaminiamo il rapporto droga-carcere, e vice­versa. Non ci rifacciamo a dati statistici precisi, per­ché per lo più confusi e spesso introvabili, eccettuate le più fredde descrizioni (tot detenuti per reati di dro­ga, tot detenuti che si sono dichiarati tossicodipenden­ti eccetera), e soprattutto perché sono essenzialmente inaffidabili (la statistica è, per sua natura, una "scien­za" appiattente, che dunque descrive solo ciò che già intende descrivere). Nondimeno tutti sappiamo che i frequentatori delle carceri - ed è significativo il deli­rante aumento in questo periodo della popolazione de­tenuta, nonostante il considerevole incremento delle "misure alternative" - in buona misura, in maniera di­retta o indiretta, hanno a che vedere con le droghe. I dati ufficiali parlano di più di un terzo della popolazio­ne carceraria, quantificandolo in 15.000-18.000, ri­spetto ad un totale che si aggira sulle 45.000 unità e che è in costante aumento. Secondo calcoli comparati­vi e fondandoci su esperienze ed informazioni dirette, sosteniamo che i detenuti che in qualche modo hanno a che fare con le droghe sono più della metà della popo­lazione prigioniera complessiva.

      I perché di questa situazione sono di un'eviden­za così palmare che ci si vergogna quasi ad affron­tarli e discuterli. Le leggi proibizioniste hanno sicu­ramente un 'incidenza diretta (i reati specificatamente relativi alle droghe), ma assai di più indiretta, e cioè influenzando il mercato ed i suoi prezzi. Nei due sen­si: quello del commerciante e quello del consumatore. Se una consistente fetta di società di affari, e non solo di origine malavitosa e mafiosa, si è riciclata nel traffico di stupefacenti è palesemente per l'altissimo tasso di profitto che questo tipo di attività commer­ciale consente, come si è già descritto. A parte pic­cole attività microimprenditoriali che possiamo defi­nire quasi artigianali, si tratta per lo più di oligopoli diffusi territorialmente. Ma gli alti profitti determi­nano una serie di altre attività indotte che conducono al carcere. Non si parla soltanto, per esempio, del riciclaggio del danaro "sporco" (noi tuttavia non co­nosciamo danaro "pulito"), ma del potere che deriva da queste grosse potenzialità di investimento e che, da un lato, consente un ampio arruolamento di mano­valanza a basso costo - non solo per il traffico in sé, ma anche per il reperimento di armi, per azioni vio­lente eccetera - e, dall' altro, un costante intervento nelle e sulle strutture pubbliche per la realizzazione del plusvalore già accumulato. Questo dal lato del commerciante.

      Dal lato del consumatore, i prezzi elevati delle sostanze spingono assai spesso ad attività delin­quenziali (e di ciò tratteremo nel prossimo paragrafo) per far fronte a delle spese che altrimenti sarebbero ingestibili. Va da sé che i due aspetti spesso si interse­cano: molti venditori diventano progressivamente con­sumatori, molti consumatori diventano progressiva­mente venditori o comunque collegati direttamente al ciclo della valorizzazione delle droghe.

      Il carcere, dunque, è una delle malattie più forte­mente determinate dalla merce droga e dal suo valore imposto.

      La comunità terapeutica è la seconda malattia che vogliamo prendere in esame. Sappiamo che molti potranno stupirsi o addirittura scandalizzarsi, in quan­to, vedendo la realtà con lenti che fanno apparire i fatti in modo rovesciato, credono, o fingono di credere, che la comunità terapeutica sia - ed il nome stesso indur­rebbe a crederlo - la cura, o almeno una delle cure, rispetto alla vera malattia, cioè la droga. Questo è falso in senso stretto ed in senso ampio.

      Non ci riferiamo soltanto a quelle comunità lager che usano metodi altamente coercitivi e che van­no piuttosto accomunate al carcere, ma all'essenza di tutte le comunità terapeutiche.

      Lo scopo dichiaratamente salvifico della comu­nità si fonda su un assioma: la droga, ancorché feno­meno di diffusione sociale, è fondamentalmente un problema individuale e spinge i soggetti nell'emar­ginazione. Il còmpito della comunità è quello di rimodellare la personalità dell 'individuo e di renderla compatibile con l'ambiente circostante, alias la socie­tà. Dunque, lo si voglia lucidamente o meno, la comu­nità si erige come pilastro nella perpetuazione della società esistente. Non a caso i termini più usati sono quelli di "recupero", di "risocializzazione" e di "re inserimento" (alcuni, più raffinati o solo più cinici, parlano di "rifunzionalizzazione", neanche che il "drogato" non fosse già di per sé funzionale, sia alla socie­tà che alle loro tasche). La società esistente viene as­sunta come parametro e sostanzialmente immutabile, se non attraverso gradualissime modificazioni. Ma se questo, da un punto di vista teorico radicale, è già nauseabondo, nonché sconfessato dai fatti di ogni gior­no, ben più gravi ne sono i risultati pratici sui singoli individui, o su gruppi di essi, ed è per questo che a buon diritto parliamo di malattia.

      Malattia, in quanto la rimodellazione della "per­sonalità" del soggetto considerato malato perché "dro­gato", richiede una sua più o meno volontaria aliena­zione: il drogato si aliena negli operatori, più in gene­rale nell'ideologia proposta dalla comunità, più in ge­nerale ancora nelle ideologie dominanti della società di cui la comunità è espressione. Il "drogato" che ritorna "sano" in realtà diventa comunitàdipendente, tossico dell'ideologia che gli viene propinata. Nei fatti, spesso ritorna alle sue pratiche precedenti, ma con molti mag­giori disturbi psichici e fisici, dato che, ai disagi dovu­ti all'assunzione di droghe in un mondo che le interdi­ce, si somma il senso di colpa e, fisicamente, una scar­sa, ridotta capacità di "galleggiare" nell'ambiente abi­tuale. I casi di overdose sono notevoli, come fra i di­messi dal carcere. Chi, invece, si normativizza di soli­to ha un bisogno costante di riferirsi all'entità di ap­poggio, la comunità con le sue ideologie. Una sorta di bambino adulto ed adulterato. Nessun segno di su­peramento, quindi, ma una particolare forma di regressione e di dipendenza. Una malattia ideologica, insomma. Neppure la psicoanalisi è giunta a tanto, a causare così gravi danni. Ma evidentemente il business delle comunità è di tutt'altre proporzioni. Né la solita giustificazione («intervenire sul disagio, togliere sofferenza») può essere credibile. Non per caso esistono pochissime strutture pubbliche, non per caso in quasi nessuna comunità viene accettato un soggetto in stato di crisi di astinenza acuta, che è il momento più alto del "bisogno", non per caso i programmi terapeutici hanno essenzialmente una valenza ideologica.

      Possiamo dire che il presunto rimedio, la comu­nità, è spesso peggiore del male. Non per nulla viene proposta come opzione rispetto al carcere. E se inten­diamo come stato morboso l'aggressione incontrol­labile di agenti esterni che tendono a ledere l'organi­smo vivente, allora affermiamo tranquillamente che la comunità è un agente patogeno.

      La terza "malattia" che vogliamo considerare è l'aids. Non ci dilungheremo troppo, rimandando al li­bro La Mal' aria. Aids e società capitalista neomoder­na di recente pubblicazione a cura del gruppo T4/T8. Evidentemente il retrovirus Hiv non colpisce soltanto soggetti tossicodipendenti, ma è altresì vero che attual­mente, almeno in Italia, fra i contagiati è molto alta la percentuale di tossicodipendenti. Anche in questo caso le cause o concause sono palesi. Se è vero che l'Hiv si propaga essenzialmente per via sanguigna e per via spermatica, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è una delle maggiori cause di contagio, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è dovuto alla clandestinità della pratica, di modo che spesso non si possono osser­vare le necessarie precauzioni igieniche (per non parla­re del carcere, dove praticamente è impossibile ottene­re siringhe sterili), è altresì vero che i soggetti mag­giormente "a rischio" sono i soggetti più deboli, a cau­sa del tipo di vita che conducono, dello stress eccetera. E' evidentissimo che l'alto prezzo della merce droga, la sua circolazione spettacolarmente clandestina (in realtà si trova ad ogni angolo di strada, ma sempre av­volta in un' aura di illegalità e di pericolo) determinano comportamenti che riducono sensibilmente le difese dell'individuo, aumentano lo stress, spesso impedisco­no condizioni alimentari, igieniche, abitazionali all' al­tezza della società capitalista neomoderna, costringen­do i consumatori nell' angolo buio ed infetto della so­cietà, che è già buia ed infetta per suo conto.

      Ma, a differenza di quel che si può credere, l'aids, al pari delle leggi proibizioniste e repressive, aggiunge valore alla merce droga invece di togliervene. Questa è una merce che si valorizza attraverso l'immagine diffusa del rischio, che non viene quasi mai assunta in quanto tale, cioè senza forti connotazioni ideologiche, e che dun­que si alimenta con il "rischio". E' una trappola ben congegnata. E se non vengono compiuti efficaci interven­ti è proprio per la valorizzazione della merce. In una società ridotta all' autoriproduzione costante è necessario che queste "malattie" esistano: un esercito di professioni­sti mantiene la riproduzione ideologica e materiale della società stessa. Nei casi citati si pensi soltanto al numero di persone che vengono coinvolte nell' amministrazione di leggi e carceri, di comunità, di "aiuti" psicologici e medi­ci eccetera, nonché di tutte quelle che vi fanno sopra diffusione ideologica, cioè informazione. E' senz'altro una delle più potenti industrie della riproduzione iterativa, allargata ed amministrante fra quelle che esi­stono, ed impiega molte più persone delle maggiori indu­strie produttive che conosciamo.

      Nella società neomoderna queste malattie sono in­dispensabili e la droga è uno dei suoi principali vettori. Nella putrescenza dell'esistente societario, la droga, tra­sformata di senso e di uso, è la merce eccellente della putredine, il valore neomoderno quasi allo stato puro.



Sette

      Dopo quanto sin qui esposto, sarebbe inutile di­lungarci sui motivi che determinano, attraverso le dro­ghe, la criminalità (micro e macro) e la devianza. Po­tremmo ribadire l'importanza del prezzo di mercato, l'essenzialità delle leggi proibizioniste, la ripulsa so­ciale e morale a cui il "drogato" viene sottoposto. Non ci pare il caso. Ci pare il caso, invece, di sottolineare tre punti.

      * La delinquenza è una forma fondamentale di riproduzione economica e per questo viene non solo tollerata ma spesso favorita nella società neomoderna. Sia a livello alto, sia a livello minimo. La gestione mafiosa dell' economia su vasta scala non è affatto dif­ferente da quella "legale": gli uni hanno imparato dagli altri e viceversa. Richiede una forte coesione del "gruppo", una gerarchia determinante, un controllo territoriale e sociale notevole, una gestione politica. Soprattutto richiede che il processo di valorizzazione delle merci venga dato essenzialmente dal potere auto­ritario e dalla circolazione ossessiva. Il potere autori­tario serve come fissazione del mercato, come imposi­zione di questa o quella merce, come autonomizzazione del valore di scambio che, a quel punto, dipende sol­tanto dal potere autoritario stesso. In questo senso e riguardo alle droghe, le leggi proibizioniste e la gestio­ne mafiosa del mercato funzionano in modo comple­mentare. L'essenziale è che il valore di scambio sia sempre più sganciato dal valore d'uso e tenda ad una sua autonomia che, a livello parossistico, non può ve­nir controllata che da forme delinquenziali, cioè che sappiano ricorrere opportunamente all'intimidazione ed alla violenza. Lo Stato, gestore monopolista della violenza, in una sua fase di ristrutturazione, e dunque di crisi, non può che delegare, almeno in parte, ad altri il suo aspetto delinquenziale. Ma c'è un secondo livel­lo, che potremmo definire di microdelinquenza. La microdelinquenza altro non è se non una forma di per­versa autogestione della circolazione di certe merci. Il tossicodipendente, che, per esempio, ruba automobili per comperarsi la roba, inconsapevolmente serve più padroni. E' nel momento della circolazione ossessiva delle merci che queste aggiungono valore. L'automobi­le rubata andrà ritrovata o sostituita, interverranno le assicurazioni, ci saranno i ricettatori e rivenditori, i quattrini del furto andranno agli spacciatori (in scala) e via così. Nel processo, l'automobile si è autovalo­rizzata, mentre la roba conserva intatto il suo valore, già autovalorizzatosi in precedenza. Il "lavoro" del tossico diventa così effettivamente lavoro, realmente riproduttivo e sociale. La droga, quindi, esalta al mas­simo la circolazione delle merci, in base al nuovo mo­dello societario: la merce deve valorizzarsi soprattutto al di là del suo momento produttivo.

      * La droga, si è detto, funziona benissimo come produttrice di delinquenza, ma la delinquenza a sua volta è perfettamente funzionale al sistema di gestione amministrativa ed ideologica della società. Per la coe­sione di una società che non ha più ragioni di esistere, la ricerca e l'individuazione del "nemico" è basilare. Il nemico è quella cosa che ricompatta individui o gruppi sociali che altrimenti potrebbero entrare in collisione. La delinquenza, specie se massmediatizzata e spettaco­larizzata, è il "nemico" che consente il ricorso ad emergenze continue, che sono, tutte, delle boccate di ossigeno per un sistema asfittico. La droga, che è già un "nemico", genera l'attuale nemico per eccellenza, la Mafia (perché ovviamente è dalla droga che nella fase attuale le mafie ricavano i loro più alti profitti), e con­temporaneamente la microdelinquenza che crea nella gente "dabbene" quello che viene definito un clima di "allarme sociale". La droga sta alla delinquenza come lo Stato sta alla mafia: si alimentano mutuamente e tutti servono molti padroni.

      * Sulla creazione di devianza e sulla funzione delle comunità di recupero o delle istituzioni più dichiaratamente repressive, non ci ripeteremo. Che la droga serva anche a questo, ed assai, ci pare sin trop­po evidente. Ci preme invece un aspetto spesso troppo sottovalutato: la produzione di comportamento, di ideologia. Ancorché deviante, il "drogato" esprime e manifesta un modello. Si tratta di un modello che sta a cavallo tra la normalità e la trasgressione. Indica l'adesione al consumo al suo stato più puro ed alto. Il suo consumo forzato rimanda a tutti i consumi, per lo più forzati. La sua normalità consiste nella ripetizione maniacale del consumo, la sua trasgressione nell'aver scelto come merce principale una merce illegale. Si creano così delle microcomunità autogratificantisi che in certo senso sono esemplari, indicano dei modelli. Il drogato è, sì, oggetto di pubblica riprovazione, ma spesso anche, in ambienti socialmente e territo­rialmente ben definibili, di privata ammirazione, specie nella fase "ascendente" del suo iter (quando ruba mol­to o si mette a spacciare, ha tanti quattrini, li sperpera volentieri eccetera). La devianza così, prima di finire in pasto alle pratiche repressive e recuperatorie, è mo­tore ideologico, è punto di riferimento sociale - positi­vo e negativo al tempo spesso. La diffusione iterativa ed allargata di ideologie è uno dei presupposti, oltre che una delle conseguenze, della società dello spettacolo, della società neomoderna, quella in cui lo spettaco­lo da sé solo non basta più ma può avere forza soltanto attraverso il suo incessante "riammodernamento".

      Il drogato, anche in questo caso, è la materia prima.

      Sostenere che la liberalizzazione delle droghe (non la loro statalizzazione, ciò che va sotto il nome di legalizzazione, che affiderebbe maggiore autorità allo Stato senza toglierne al mercato) è l'unica so­luzione possibile è una banalità di base, che natu­ralmente bisogna diffondere in ogni situazione pos­sibile. Ma è altresì certo che questa ipotesi non può nascere dall'illusione di porre rimedio alla delinquen­za ed alla devianza, ma dalla convinzione che è ne­cessario cominciare a porre rimedio al capitale ed allo Stato.

      La delinquenza, dopo essere stata opportuna­mente utilizzata e spettacolarizzata, deve trasformarsi in devianza istituzionalizzabile. La devianza in pro­gressiva demenza, onde concludere il ciclo. Con buo­na pace della materia prima. Ed è in questo percor­so, e solo in esso, che la materia prima, cioè il co­siddetto drogato, deve ricostituirsi come soggetto, ri­fiutandosi di essere materia prima, negandosi al sen­so della colpa, impedendo si di funzionare realmente come materia prima. Sabotando gli architetti ed i muratori che, usandola come mattone, edificano quel­l'orrore che la droga da sé sola non potrebbe mai costruire.



Otto

      Ma, affinché l'intero meccanismo funzioni, la droga deve venir trasformata nel Drago, in un' entità terribile e venefica che ci fa sperare tutti nell'interven­to di San Giorgio. Il processo di spettacolarizzazione raggiunge qui il suo punto più elevato, la sua vetta. La droga viene scorporata non solo dalle sue caratteristi­che intrinseche, di sostanza, ma anche dalla sua effetti­va valenza sociale, dall'impulso sociale alla creazione di drogati. Così astratta, la droga, uno dei motori della società mercantile neomoderna, assume un aspetto quasi mitico e maligno. Serve a nascondere la glacia­zione a cui tutti siamo sottoposti, a dimostrare che la ricerca dei piaceri si trasforma nella loro mostruosa negazione. L'immagine del Drago, che spesso abbiamo usato, non è stata scelta per caso né è soltanto frutto di un anagramma (droga-drago). Il drago è un "mostro" incerto, di cui si disconosce la natura e la provenienza, che in certe culture viene adottato come simbolo di forza, di potenza, ed in altre di malignità, espressione del male. Noi della droga conosciamo perfettamente la natura e la provenienza, ma nel processo di rimozione eteroguidato tendiamo a dimenticarle, a trasformarla in una mostruosità. L'inibizione morale e sociale non sa­rebbe possibile se la droga non venisse trasformata nel Drago. E, senza inibizione, la merce droga non sareb­be quel motore di cui si è detto sin qui. Né i falsi sciamani potrebbero presentarsi come dei San Giorgio. Riproduciamo qui, non per gusto della ripetitività ma per amore dell'essenzialità, il manifesto LIBERARSI, accluso a suo tempo nel volume Intorno al Drago.

      «Il Drago è stato evocato, risvegliato dal sonno del mito, lo si è fatto aggirare tra i gas delle metropoli affinché fiammeggianti potessero stagliarsi le immagini dei nuovi San Giorgio rilucenti d'armi e di parole.

      Il Drago di oggi si chiama Droga. Ma ov­viamente, trattandosi di professionisti della men­zogna, nessuno dice la verità: né i pretesi San Giorgio, né i molti untorelli, né gli specialisti d'ogni specialismo, né i terapeuti interessati, né i preti voraci d'anime, né i liberals illuminati dal­la vanità, né, certo, i poliziotti, i giudici, gli av­vocati, i giornalisti. Né i mafiosi e gli spacciato­ri. Nessuno dice: in verità siamo tutti amici del Drago, l'abbiamo costruito, imposto, prodotto e riprodotto, sceneggiato, è la merce per eccellen­za, quella che tutte le contiene e le spiega, spie­gandone i perversi meccanismi.

      Nessuno dice: abbiamo gonfiato ed arric­chito le mafie perché Stato e Mafia devono vivere in simbiosi mutualistica, devono presupporsi ed alimentarsi a vicenda, rappresentarsi come So­cietà, la Seconda Natura, per la maggior gloria del Dio-Capitale, della sua Merce, del suo Spet­tacolo.

      Liberarsi dalla subordinazione alla droga, compresa quella ideologica e produttivistica, si­gnifica liberarsi dalla società mercantil-spet­tacolare. Liberarsi dalle Mafie è liberarsi dallo Stato.

      I Draghi ed i San Giorgio stanno dalla stes­sa parte. Già solo questa ragione, e mille di più ne esistono, basterebbe per scegliere di stare dal­la parte opposta: quella della liberazione.»



Nove

      Il ramo dell'ago di Narco che più ci sta infettan­do è quello intriso dal sangue delle ideologie e delle fal­se spiegazioni. Quello che, miserevole ago, si spaccia come rutilante spada. Quello che non può fare a meno di Narco, costruito a sua immagine e somiglianza.

      L'altro ramo dell'ago di Narco fa assai meno paura perché si disvela da sé, non nasconde le sue miserie.

      Chiunque parli di liberazione dalla dipendenza dalle droghe senza parlare della necessità della libera­zione dalla società presente, parla con lingua biforcuta ed è nostro nemico, un sostenitore dell' esistente.

Chiunque parli, invece, della riscoperta della stupefazione, come moto irrinunciabile dell'animo lan­ciato nei difficili percorsi dell'avventura e della fonda­zione della comunità umana e lo colleghi con la critica radicale di tutti gli aspetti della società capitalista neomoderna e del suo Stato, parla con lingua diritta, ed è nostro amico, sostenitore della più ampia delle "cure" che si possano ipotizzare.




 

 

 

 

La ferocità del quale spettacolo fece quelli
populi in uno tempo rimanere satisfatti e
stupidi.

N. Machiavelli, Il Principe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEL DRAGO E DELLA SUA DRACONIANA

PERSECUZIONE

 

 

 

 

      La critica del diritto, soprattutto quella sedicente marxista, ha da sempre assolto al compito di emenda­re, affinare e razionalizzare i vari sistemi giuridici nel­l'improbabile sogno di addivenire ad una piena coinci­denza di legalità e legittimità. Se appaiono dunque particolarmente aberranti le varie Costituzioni dei mo­struosi ordinamenti sovietici, altrettanto sconfortanti si profilano i frettolosi e spesso indecorosi revirements di quella sinistra che, già spacciatrice della nefasta ideo­logia sottesa al disegno del socialismo reale, cerca di riciclarsi attraverso la promozione di battaglie per i diritti civili e piagnucolando il rispetto di un preteso Stato di diritto.

      Ma quale Stato di diritto? Sicuramente non quel­lo affermato si nel secolo scorso e travolto dalla crisi del 1929, che aveva principalmente la funzione di ga­rantire sicurezza e ordine, quali condizioni per la libe­ra e selvaggia accumulazione capitalistica, e che risul­tava caratterizzato dalla sovranità della legge, dalla rigida divisione dei poteri, dalla certezza del diritto, dal principio della irretroattività delle leggi eccetera.

      E' peraltro evidente che il disegno neoliberista dispiegatosi nel corso dell'ultimo decennio al fine del superamento dell'irreversibile crisi dello Stato keyne­siano, poggi le sue fondamenta su una solida base am­ministrativa, che per il carattere restaurativo sia di se­gno spiccatamente reazionario, e che nessuna confu­sione sia possibile con l'antico progetto liberi sta. Se pertanto lo Stato di diritto poteva molto tempo fa mo­strarsi alquanto indesiderabile e sgradito - specie agli occhi dei salariati, degli eserciti di riserva e dei prole­tari tutti - ora non gli è più possibile nemmeno presen­tarsi come Stato di diritto, per la semplice ragione che sono venute meno le condizioni materiali (libero mer­cato, libera concorrenza eccetera) che avevano deter­minato la sua fortuna. Sicché deve ritenersi ridicola la petizione di vetuste garanzie giurisdizionali - oltre tutto mai esistite se non nel senso di privilegio di classe - e di tante altre siffatte amenità afferenti ai principi dello Stato, così come formulati dalle teorie liberali dell'Ot­tocento. Non occorre infatti un acume particolare per comprendere come il vecchio Stato-Nazione, smarrite da tempo le caratteristiche peculiari inerenti alla territorialità della propria sovranità, in conseguenza della dimensione multinazionale assunta dal comando capitalistico, si trovi attualmente a ricoprire funzioni meramente amministrative, complessivamente volte alla gestione delle continue crisi attraverso il ricorso a continue emergenze, intendendo con quest'ultime il flusso di sovradeterminazioni necessarie all'arresto della circuitazione della crisi.

 

***

 

Una prospettiva critica che intenda assumersi l'onere di demistificare le molte ideologie che concor­rono alla deprivazione dell'esistente non può non sot­trarsi alla ricorrente trappola che la dittatura dello spettacolo sempre più sottilmente tende: il gioco delle parti fine a sé medesimo.

      Qualora si considerino le polemiche relative alla legge Vassalli-Russo Jervolino ed allo pseudo scontro molare fra proibizionismo ed antiproibizionismo, oc­corre registrare che financo le più clamorose incon­gruenze politico-giuridiche possono utilmente far da sfondo a dotte disquisizioni ed infuocati dibattiti fra gli agonisti professionali dell'invettiva al vetriolo. Pie­tra angolare dello scandalo è stata, in questo caso, la norma prevista dall' art. 13 che recita: «E' vietato l'uso personale di sostanze stupefacenti o psico­trope...». Si tratta invero di un vistoso pleonasmo giu­ridico: tale disposizione potrebbe essere espunta dalla legge senza che questa ne risulti minimamente modifi­cata, se non nel numero complessivo di articoli. Una corretta tecnica normativa esige infatti notoriamente che alla descrizione di un precetto venga fatta seguire la comminazione di una sanzione, risultando chiara­mente l'enunciazione di un'isolata prescrizione un vero e proprio telum imbelle sine ictu.

      Dai banchi della sinistra parlamentare si è ben tosto mossa la levata di scudi dell' opposizione democratica e umanitaristica: se i tossici rubano e scippano vadano in galera, se poi costoro, difettando di coraggio e destrezza, preferiscono dedicarsi all'immondo mer­cimonio, ebbene, che in galera ci marciscano, ma che non si osi proibirgli solennemente il sacrosanto diritto a farsi le pere, perché ciò significherebbe un'inammis­sibile e pericolosa propensione alla risorgenza di uno Stato etico, in riprovevole contrasto con i principi di un moderno Stato di diritto.

      Nessuna meraviglia, anzi, che simili argomenti vengano snocciolati dall'insigne persona di Stefano Rodotà, noto giurista, e noto soprattutto per non aver mai sporto il naso oltre le cinta della propria dimora e di prestigiose sedi altoaccademiche. Decisamente grot­tesca, invece, si mostra l'affannosa rincorsa dei no­strani gauchiste a queste strane macabre modernità: comunisti penti ti, riaffondatori, ex stalinisti, stalinisti, anime belle, incazzati e abbronzati, unitamente al resto del caravanserraglio dei sinceri democratici per me­stiere, eccoli tutti in coro a celebrare l'intangibilità delle libertà del singolo ad autodeterminare la propria condotta, a condizione che questa non vada a ledere diritti altrui. Il principio in gioco sarebbe dunque quel­lo della non punibilità degli atti contro se stessi, secon­do il migliore insegnamento di Voltaire, Bentham e Beccaria.

      Ovviamente tale riesumazione presuppone una scoperta teorica di non poco conto, rappresentata dal fatto che la società si compone di cittadini e non più di classi.

      V'è da chiedersi peraltro cosa voglia veramente significare, allo stato dei fatti, la non punibilità degli atti contro se stessi. Un' elencazione minuziosa dei casi più evidenti sarebbe troppo lunga, ma si considerino, a titolo di esempio, il legarsi intorno a un palo per prote­sta contro la perdita del proprio posto di lavoro, il sottoporsi a estenuanti e snervanti code alle quattro del mattino per acquistare l'orologio di una marca alla moda, il dissipare il proprio tempo "libero" in dispen­diose fabbriche di noia e chiamare ciò vacanze per meglio dissimularne la miseria. Ebbene, non si è forse in tali casi, palesemente, in presenza di contegni rivolti contro se stessi?

      Non deve quindi apparire troppo singolare se, a fronte del dilagare di simili fenomenologie, per così dire, di autosfruttamento, la nostra ineffabile sinistra non trovi di meglio da fare che preoccuparsi dell' asso­luta insindacabilità delle azioni incidenti sull' esclusiva sfera privata, del sacro diritto all'autodeterminazione di ogni individuo in quanto eguale davanti alla legge e di tante altre simili facezie, tutte ammantate da un' ama di tronfia modernità mutuata dall' originale riproposizione dei classici dell'Illuminismo.

      Dopo la legittimazione dello sfruttamento for­malizzata nell' enunciazione del primo articolo della Co­stituzione del 1948 e dopo il reiterato spaccio di immodi­che quantità di etica del lavoro, mutatis mutandis, e mutata la morfologia del dominio capitalistico, nel sen­so di una sua accresciuta subdola impercettibilità, vec­chi e nuovi sinistri si intrattengono amenamente in una delle più pertinenti apologie dell'autocrazia della mer­ce: la strenua difesa delle libertà individuali allorquando l'ultima di esse si è notoriamente estinta da un pezzo.

      La critica del diritto positivo di marca neoillumini­sta, oltre il velo della retorica persuasiva e della raffi­nata costruzione dottrinaria, cela, faticosamente, il pro­fondo cinico disincanto che accompagna, con una certa fatalità, ogni parto ideologico contemporaneo.

      Quale civiltà, quali valori, quale morale possono interessare il capitale, nel tempo della compiuta sussunzione reale della società nel suo paradigma, al di fuori dell' eticità della merce e della merce del­l'eticità?

      Forse che il legislatore del 1990 intendesse, con l'inutile (giuridicamente) e solenne proibizione dell' ar­ticolo 13, veramente influenzare e condizionare la co­scienza dei propri sudditi onde dissuaderli dall'ingiusto e sconveniente consumo di sostanze in sé venefiche?

      Magari in nome della tutela delle più nobili ed alte prerogative del genere umano, quali l'integrità psicofisica, dopo che la cosiddetta salute è stata inte­ramente ridotta a base materiale del più grande business e della più clamorosa ascesa al potere di que­sto secolo.

      O la capacità produttiva, giusto quando il capi­tale, esaurita l'iniziale funzione storicamente progressiva - essendo venuta meno la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo - di nulla più si cura se non della preservazione delle condizioni per la pro­pria eternizzazione.

      O i valori della tradizione, quelli dei padri, della famiglia, della religione, delle sagge massime d'espe­rienza dei vecchi saggi, dell'obbedienza al rispetto del­la virtù dell'obbedienza, e di tutto ciò che rimane del poderoso armamentario della millenaria cultura della schiavitù umana.

      Questo ignobile coacervo di idiozie, miniera ine­sauribile per gli sproloqui dei cattolici integralisti, dei revanchisti più ostinati e dei Muccioli d'ogni risma, rappresenta evidentemente quanto di peggio la sempi­terna industria dell'ideologia riesce ancora oggi a foggiare.

      Ma, al contempo, ad un quanto di peggio corri­sponde un quanto di vero. La verità del meccanismo in base al quale tale complesso di artati e posticci valori funge da formidabile dispositivo nell 'incommensu­rabile processo di valorizzazione della merce droga, il cui sproporzionato prezzo sui mercati occidentali può essere calcolato attraverso la sommatoria di un minimo principio attivo afferente alla sostanza stupefacente o psicotropa e di un massimo di principio attivo ideolo­gico ascrivibile all'eticità della merce.

      Il proibizionismo opera come necessario elemen­to funzionale alla creazione, al mantenimento, ed allo sviluppo di un simile mercato, ed assolve un ruolo fon­damentale nel generare una domanda "qualificata", come quella illecita, nel meccanismo di riproduzione allargata del medesimo. In questo senso è possibile affermare che se la produzione "economica" di stupe­facenti fornisce un materiale al bisogno, la produzione legislativa provvede non solo a creare ma anche a qua­lificare il bisogno prodotto per il materiale.

      Le oscillazioni che si sono registrate in Italia nel controllo penale delle droghe, seppur originate da di­verse contingenze politiche e congiunture economiche, mostrano piuttosto chiaramente come tale processo di qualificazione rappresenti, è proprio il caso di dire, la regola aurea di ogni proibizionismo.

      Dalla prima normativa, quella risultante dal combinato disposto della legge n. 396 del 1923 e dell' art. 151 del Testo Unico delle leggi sanitarie del 1934, alla riforma della legge del 1990, il consumo non ha mai cessato di avere rilevanza penale, nemmeno nella disciplina del 1975, ove veniva concessa una causa di non punibilità per il caso di detenzione di modiche quantità, mantenendo però ferma la sua illiceità. In tal caso la predisposizione di un simile salvacondotto era funzionale alla necessaria elimina­zione di quegli elementi di rigidità, connessi al prece­dente rigoroso regime disegnato con la legge del 1954, che ostacolavano una penetrazione diffusiva e capilla­re dell'offerta, come del resto ampiamente testimoniato dall'inaudita quantità di sostanze stupefacenti riversa­te sul mercato nazionale nel secondo quinquennio degli anni Settanta. In questa fase il proibizionismo, si fa, per così dire, discreto. Immanente, ma incline ad una sorta di latenza. Quel tanto che basta a favorire il rigoglio della più spettacolare delle fiere: quella del­l'ideologia ad un tale grado di purezza da divenire al­terazione della percezione.

      E solo i sociologi politicanti antiproibizionisti possono malandrinamente teorizzare il "libero mercato illegale" muovendo dalla banale constatazione che or­mai le droghe costituiscono una delle rare merci che siano disponibili ed acquistabili ventiquattr'ore su ven­tiquattro in migliaia di punti vendita sparsi sul territo­rio, giacché tale mercato, come d'altronde tutti i mer­cati neoliberisti di cui questo rappresenta un modello esemplare, lungi dal configurarsi come libero, si pre­senta al contrario profondamente caratterizzato dal ga­loppante processo di amministrativizzazione dell'esi­stente.

      L'impresa, la sua libertà ed il suo rischio nulla hanno a che fare con il modello organizzativo delle associazioni mafiose che controllano i lucrosi narco­traffici, così come possono ormai essere ritenuti corpi estranei alle aziende produttrici di beni e servizi "puli­ti". Sembra pertanto assolutamente condivisibile l'opi­nione di chi ritiene essere la mafia il modello di tutte le imprese commerciali avanzate e che probabilmente debbano reputarsi inappropriati, non solo ogni con­trapposizione fra poteri segreti e mafiosi e poteri tra­sparenti e progressisti, ma anche il mero riferimento ad una loro collusione. Smarrita ogni verità capitali­stica originaria, il mercato si è trasmutato nel teatro della finzione capitalistica della verità.

      Il battage proibizioni sta tardoreaganiano, orche­strato dagli italici magnaccia socialisti, pare dunque piuttosto preordinato, a fronte della pressoché compiu­ta saturazione dei mercati occidentali, allo scopo di fornire nuova linfa alla iperfruttifera ideologia della droga, in vista di una efficace azione che arresti o quantomeno freni la tendenziale caduta di prezzi e pro­fitti (leggi: rendite parassitarie) che tale saturazione ha determinato. (Una vera e propria sorta di "terapia di mantenimento" del capitale.)

      Ed è proprio l'evidente omologia con il disegno restauratore sotteso al piano neoliberista che connota in senso regressivo la novella. A dispetto delle accuse di destro eticismo che tanti inveterati moralisti muovo­no oggi dall'ormai completamente incredibile pulpito dell'"autonomia del politico" giacché miopia e, talo­ra, masochistica malafede, impediscono loro di occu­parsi dell'unico vero eticismo sovrano, quello della merce e dello spettacolo.

      Intanto il diritto, quello "buono", quello dei ga­rantisti e dei cultori della materia, se non scompare dalla scena, ne è sempre più momento accessorio, coreo­grafico. L'articolo clou dell'intera campagna anti­proibizionista, come si è visto, altro non è che uno sciente artificio pubblicitario. Nel mondo del diritto è assolutamente inessenziale. Chi consuma sostanze stu­pefacenti o psicotrope proibite viene oggi punito in base ad altra norma, contenuta nell'art. 14 della legge, il





quale prevede che: «Chiunque senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, tra­sporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope, è punito con la reclusione (...)».

      Il rigore della formulazione rivela però la pro­pria inadeguatezza di fronte alle esigenze della società dell'immagine, la propria incompatibilità con i tempi ed i ritmi del circuito multimediale. Certo, i massmedia si sono occupati fino alla noia, ad ogni livello, in ogni sede, con ogni "esperto", delle diverse modifiche ap­portate. Riuscendo peraltro nell'impresa, salvo rare eccezioni, di non dire pressoché nulla.

      Ma il messaggio che doveva essere veicolato, e che non doveva essere discusso, se non successivamen­te e fra pseudospecialisti, non sopportava la pesan­tezza della tecnica normativa, né poteva essere abban­donato all'equivocità delle diverse letture ed interpre­tazioni.

      Ecco allora il ricorso ad un articolo non giuridi­co, ad una norma formale che viene investita del carat­tere della cogenza direttamente dallo spettacolo, e non dall'ordinamento.

 

***

 

      Analoghe considerazioni potrebbero essere svol­te a proposito del dislocamento della funzione general­preventiva dell'astratta previsione sanzionatoria sul terreno dell'immaginario costruito ad hoc dalle nume­rose agenzie mediatiche.

      La riforma, nel suo complesso, è stata infatti rappresentata, tanto dagli apologeti quanto dai detrat­tori, come una svolta di centottanta gradi, in senso repressivo, della disciplina e del controllo del fenome­no droga. Il passaggio prefigurato è stato così quello da un regime di relativa tolleranza ad uno di totale proibizione, dove tutti i contegni afferenti all'insano vizio, e dunque non solo più quelli dei cosiddetti vendi­tori di morte, ma anche quelli dei corrispettivi acqui­renti, vengono, pur con le debite graduazioni, sanzio­nati inesorabilmente (come appunto la morte).

      Tale rappresentazione è però spudoratamente falsa, nonostante il buon successo incontrato. Succes­so vieppiù rimarchevole alla luce della circostanza che l' ossessiva insistenza sulla svolta - morale o autorita­ria a seconda di come viene dipinta - e sulla rottura con il precedente indirizzo, ben poco, tutto sommato, si sia preoccupata della propria credibilità.

      Occorre d'altra parte rilevare che alla sua base esiste un elementare accorgimento, costituito dall'offu­scamento della separazione tra fatto e diritto, in modo tale che sia possibile discorrere indifferentemente in­torno all'uno argomentando attraverso l'altro, e snatu­rare così opportunamente i reali termini della questio­ne. Sicché si rende necessario fare un po' d'ordine.

      Per quel che attiene alle novità giuridiche è dato innanzitutto osservare come esse, al di là di taluni aspetti suggestivi, siano, sotto il profilo sanzionatorio, essenzialmente portatrici di elementi di continuità piut­tosto che di cesura.

      L'unica parziale verità divulgata dalla concitata campagna promozionale concerne un certo inasprimen­to generale. Naturalmente per questa, come d'altronde per tutte le parziali verità, il confine con la mendacia, o peggio con la mistificazione, si configura di difficile individuazione.

      Il sistema repressivo continua infatti a poggiare e ad articolarsi sulle medesime tipologie sociologiche già utilizzate per la descrizione delle principali fatti­specie che caratterizzavano la precedente normativa. Si tratta delle figure del consumatore, del piccolo spacciatore e del trafficante d'alto bordo. Ad ogni fi­gura provvede una specifica disciplina.

      La partizione, va da sé, è del tutto arbitraria e comunque alquanto significativo è il fatto che sia stata tenuta per buona anche nella nuova legge. Sia pur sommariamente, vediamo come è stata adattata alle singole ipotesi.

      a) Sanzioni amministrative

      Quello che nell'immaginosa ricostruzione del le­gislatore viene considerato mero consumatore risulta, facie prima, formalmente penalizzato dalla riforma. La liquidazione della categoria "modica quantità" per far luogo alla più rigorosa "dose media giornaliera" ha in­dubbiamente ridotto in maniera drastica il quantum di stupefacente con il quale è possibile essere pizzicati dai birri impunemente. In teoria è previsto un bizantino iter amministrativo che si conclude con la comminazione di una sanzione non penale (sospensione temporanea della patente, del passaporto eccetera) o con una semplice ammonizione prefettizia. Per il cartellino rosso della galera bisogna profondere un certo impegno: sono in­fatti a disposizione due bonus e solamente per coloro che, non avendo sfortunatamente mai giuocato a "guar­die e ladri" nella propria infanzia, si fanno sorprendere per ben tre volte con tali risibili quantità - che corri­spondono mediamente, per le sostanze più diffuse, ad un paio di spinelli, a 3/4 buste di eroina, e ad un po' di coca per i piccioni - è prevista l'inflizione di una pena contravvenzionale assai tenue. Nella pratica questo mac­chinoso congegno si è da subito arenato nelle secche dell'ineffabile burocrazia cosicché, per quanto circo­scritta, deve ritenersi tuttora esistente un' area di impu­nità, o meglio di comportamenti che non importano, di fatto, conseguenze sfavorevoli per chi li tiene. (Tranne chiaramente l'incomodo e fastidioso eventuale abbocca­mento con qualche imbecille in divisa, alea peraltro in­combente anche sotto il vigore della vecchia legge.) Un simile fenomeno, sia detto per inciso, si osserva con cre­scente frequenza nella produzione del diritto contempo­raneo: un profluvio di norme viene emanato per i più diversi motivi, magari per tutti, eccetto quello di vederle applicate (e le tecniche per predeterminare tale esito sono innumerevoli).

      Ora, questo è un fatto che attiene all'inap­plicazione del diritto, a quella che suol definirsi cattiva implementazione di una normativa.

      Poi vi è, ovviamente, il fatto del mercato e dei suoi soggetti. Rimandando ad altra sede una sua ap­profondita analisi, interessa qui considerare una suddi­visione dei soggetti tanto approssimativa quanto diffi­cilmente refutabile: quella fra coloro che hanno fatto delle sostanze stupefacenti l'esclusiva ragione della propria sopravvivenza, e tutti gli altri consumatori sol­lecitati da un qualsivoglia motivo (ricerca del piacere, giustificata insofferenza per l'esistente eccetera) che invece non sovraordinano la sostanza diletta in manie­ra assoluta.

      Per comodità terminologica è possibile qualifica­re i primi, secondo l'uso comune, come tossicodipen­denti. Con l'avvertenza che si tratta di una convenzio­ne alquanto imprecisa, non essendo evidentemente tut­ti gli altri individui immuni da diverse forme di dipen­denza non meno tossiche - dal lavoro, dai consumi, dalla famiglia eccetera - avvalorate dalla collettività.

      Orbene, per quel che riguarda l'incidenza del­la nuova legge sulle sorti dei tossicodipendenti nul­la quaestio: costoro, al di fuori di una minoranza facoltosa, erano, e continuano inevitabilmente ad es­sere, probabili frequentatori delle patrie galere. Que­sto non certo a cagione del solenne divieto di dro­garsi, e, solo in minima parte, a seguito della vio­lazione della legge sugli stupefacenti, ma soprattut­to in conseguenza della commissione - resa quasi inevitabile dall' enorme costo della sostanza - di reati contro il patrimonio. Tant'è che la criminalizzazione dei tossicodipendenti non è affatto un portato della riforma del 1990, come recita il tormentone di tutta la sinistra democratica, bensì un fatto preesistente, evidenziato dal massiccio ingresso di questi sogget­ti nelle carceri durante il corso degli anni Ottanta.

      D'altra parte, per chi si procura il denaro ne­cessario attraverso l'esercizio di piccoli negozi aven­ti ad oggetto la sostanza medesima, l'innalzamento della soglia del penalmente rilevante importa uno sturbo organizzativo che incide sulle fluttuazioni del prezzo.

      Se prima i pusher di strada si muovevano tenen­do con sé una quantità di sostanza non superiore a quella considerata modica, facendo un certo numero di spostamenti, a scopo di rifornimento, nel sito ove veni­va previdentemente imboscata la quantità eccedente, è chiaro che l'introduzione della dose media giornaliera ha determinato per questi il solo effetto di accrescere il numero di tali spostamenti (e dunque di intralciare il funzionamento della distribuzione complessiva) ma non quello, come si vedrà fra poco, di aumentare il rischio dell' attività intrapresa.

      Le ripercussioni della riforma sulla moltitudine di consumatori non tossicodipendenti sono invece di maggior complessità: è sicuramente corretto in prima approssimazione affermare che la scomparsa della mo­dica quantità ha avvicinato lo spettro del cosiddetto circuito penale. Ma si tratta per l'appunto di una pri­ma approssimazione.

      b) Sanzioni penali

      L'acquisto e la detenzione di una quantità supe­riore a quella corrispondente alla dose media giornalie­ra ed inferiore a quella precedentemente ritenuta modi­ca viene ora sanzionato penalmente dall'art 14. Le pene stabilite in questo caso dalla norma prevedono nel minimo la reclusione di un anno allorquando si tratti di droga pesante e di sei mesi qualora la droga sia legge­ra. Si fa riferimento al minimo perché questa è stata l'indicazione della Corte costituzionale (che nel corso di una acrobazia interpretativa si è spinta fino ad asse­rire la non punibilità penale per il caso in cui la quan­tità sia di poco superiore a quella fissata dalla dose media giornaliera). Per effetto della concessione delle attenuanti generiche e della conveniente scelta di un rito speciale la pena che può essere comminata è dunque in concreto di pochi mesi (tre o cinque, all'incirca, a seconda del tipo di sostanza).

      Questo il diritto. Sicché in pratica l'ipotetico "li­bero" cittadino che senza compiere attività di spaccio e senza delinquere altrimenti, si procaccia una modica, ma non irrisoria, quantità di droga corre il rischio di assistere ad un seccante procedimento penale a suo carico, ma molto improbabilmente alla sua, ancor più spiacevole, carcerazione. (Al momento infatti non si registrano simili casi.)

      Sembra poi opportuno rammentare che, sotto l'imperio della precedente legge, il reato di coltivazio­ne di una sostanza proibita (anche di una domestica pianticella di marijuana) era colpito con la pena della reclusione da quattro a quindici anni per le droghe pesanti, e da due a sei anni per quelle leggere, mentre ora questa viene modulata in ragione dell' entità del fatto, cosicché per il caso di una circoscritta "produ­zione propria" le conseguenze sanzionatorie sono pressappoco le medesime viste poc' anzi per l'acquisto di modiche quantità.

      Ma non solo. La stessa considerazione vale per l'ipotesi di importazione, antecedentemente sanzionata con le gravi pene succitate anche allorché oggetto ma­teriale fosse un modesto quantitativo - e molte sono state le pesanti condanne, ai sensi della vecchia legge "democratica", per gli improvvidi vacanzieri che si fa­cevano cogliere al ritorno in patria con qualche grammetto conservato a titolo di souvenir - mentre adesso la sua disciplina è equiparata a quella dell' ac­quisto e della detenzione.

      Ma non solo. Se è vero che prima non veniva punita la detenzione per l'uso proprio di modiche quantità - che la giurisprudenza della Cassazione aveva approssimativamente fissato in sessanta grammi di hascish, sette grammi di cocaina e poco più di un grammo di eroina - è altrettanto vero che era ormai invalsa la consuetudine presso gran parte degli affezio­nati consumatori, per ovvie ragioni economiche, di provvedere alla formazione di una piccola scorta, esor­bitando spesso così dai limiti tollerati.

      Per questo caso la giurisprudenza aveva, a più riprese, perentoriamente escluso che fosse possibile la declaratoria di non punibilità, ritenendo il divieto di accumulo uno dei principi fondamentali della legge del 1975 e che quindi, ogniqualvolta si fosse in presenza di eccedenze, occorreva infliggere le gravi sanzioni ap­pena ricordate per la coltivazione e l'importazione.

      Anche in tal caso, peraltro, le modifiche appor­tate dalla riforma si configurano come mitigatrici del precedente rigore, a tal punto che la stessa situazione molto difficilmente di schiude oggi le porte della galera.

      La solfa non cambia per il delitto di piccolo spaccio: il raffronto fra le sanzioni contemplate dalla vecchia legge (pena della reclusione da due a sei anni per le droghe pesanti e da uno a quattro anni per quelle leggere), e quella in vigore (che prevede la pena da uno a sei anni per le prime e da sei mesi a quattro anni per le seconde), anche senza tener conto delle nuove ipote­si premiali (in grado di abbattere la pena base fino a ridurla ad un suo terzo), indica l'inequivocità di un generale disegno di temperamento punitivo per i fatti diversi dal grande traffico.

      Per converso, è sicuramente innegabile, questo sì, un severo rincrudimento repressivo di quest'ultimo (con l'astratta previsione, senza risparmio, di decenni di carcere), reso peraltro nella pratica piuttosto ininteressante dalla pervicace riluttanza dei narcotrafficanti di un certo credito ad intervenire personalmente nel vivo della realtà processuale.

      Succede poi sporadicamente che taluno di questi signori subisca la non richiesta ospitalità di qualche reclusorio, ma si tratta della classica eccezione da cui la regola viene confortata. Del resto è cosa risaputa anche dalle pietre più disinformate che tutte o quasi le maggiori operazioni di polizia in materia vengono effetuate sulla base di puntuali "soffiate": qualche boss di cosche perdenti, qualche quadro rampante che non rispetta i rapporti di forza, qualche sprovveduto "autonomo" che tenta di infilarsi in un mercato già rigidamente controllato.

      Tutt'al più presenta un qualche interesse il fatto che fra costoro si annoverino talvolta i funzionari dele­gati alla repressione di attività illecite. Risulta infatti particolarmente curioso come, allorché si scoprono i lucrosi affari del tale agente della digos di Torino o del tale ex pretore di Imperia, riesca straordinariamente persuasiva la rappresentazione dell'esecrabile caso di corruzione. Nonostante non sia necessaria una grande sagacia, specialmente alla luce dei recenti avvenimenti, per adombrare l'ipotesi che simili casi, lungi dall'esse­re isolati, costituiscano piuttosto l'epifenomeno di un sistema dove parte del valore aggiunto ad una merce dall'ideologia della Legge serve a rimunerare i tutori di questa. E che le differenze fra le varie forme remunerative (stipendi, pizzi, tangenti, profitti derivan­ti dalla gestione diretta) piuttosto che attenere ad una inverosimile "questione morale", tradiscano al contra­rio la loro profonda compatibilità con la moralità mer­cantile.

      Anche volendosi limitare ad una superficiale ri­cognizione dei principali contenuti normativi, emerge









dunque chiaramente come, accanto a modifiche di se­gno repressivo, convivano emendamenti di segno oppo­sto, che in una valutazione complessiva, se non elidono, sminuiscono grandemente l'effettiva portata innovativa, sotto il profilo sanzionatorio, della rifor­ma. Se, ai tempi attuali, le leggi dormono, questo av­viene perché la loro immagine risulta ben più agile ed efficace per il raggiungimento dello scopo per cui ven­gono apprestate, nonché soprattutto più congrua ad una gestione ottimale dell 'ininterrotta situazione di cri­si. Così come, a monte, la continua produzione di emergenze, al di fuori delle circoscritte contingenze vincolate ad opportunità tattiche, è sostanzialmente in­differente a quali oggetti esse abbiano, alla stessa maniera, a valle, anche la produzione normativa si dimo­stra a sua volta sempre più disinteressata ai contenuti dei propri istituti. (Ed è ormai sotto gli occhi di tutti l'abissale discrasia esistente fra le prescrizioni del di­ritto positivo amministrativo e quelle che governano la materialità dei contratti d'appalto e, in generale, di tutti gli affari concernenti la pubblica amministrazio­ne.) Pertanto non v'è da stupire se persino gli stessi compilatori della legge sugli stupefacenti, nelle loro interviste e dichiarazioni pubbliche, hanno ritratto un quadro ben più fosco di quello tratteggiato effettiva­mente nella realtà giuridica, dal momento che è sul campo della rappresentazione che viene giocata la partita dell' emergenza.

 

***

 

      Molti altri sono gli spunti contenuti nella legge Vassalli-Russo Jervolino particolarmente significativi, sia se inquadrati all'interno delle profonde mutazioni intervenute recentemente nel diritto penale, quali l'in­troduzione della flessibilità della pena e del processo, e sia se considerati sotto il profilo dei riflessi, di non poco momento, sui principali dispositivi della Costitu­zione materiale. La sempre maggiore discrezionalità delegata dal legislatore alla magistratura, le norme in­centivanti il cosiddetto pentitismo, le misure alternati­ve alla pena, segnano infatti il declino irreversibile dei principi fondamentali della democrazia formale, o, per dirla con il luogo comune della retorica, delle conqui­ste capitali della Costituzione repubblicana.

      Nessuna lacrima, per ciò, verrà versata.

      Per chi assume l'esistenza e la libertà in radicale opposizione alla dittatura del capitale ed alle mistificazioni statualistiche, di qualsiasi segno e colore esse siano, la legge, tutte le leggi, altro non rappresentano che odiose gabbie da rimuovere. Senza indulgere ad estremismi viscerali, ma senza nemmeno prescindere dal diritto di resistenza, di opposizione al potere e di affermazione delle autonomie. In tale prospettiva, le battaglie per i diritti civili non possono certo appassio­nare, se pensate in termini di conquiste legislative, ma possono essere necessarie se soggettivamente sostenute nella radicale espressione del diritto di resistenza. Una campagna per la liberazione immediata dei detenuti sieropositivi, a titolo di esempio, rivela la manifesta­zione di tale diritto, qualora sia realmente consapevole del suo oggettivo limite di programma minimo, quando cioè non si traduca nell' indiretta legittimazione della carcerazione di tutti gli altri detenuti.

      La questione relativa al libero uso di droga è, per il vero, terribilmente complicata dalla fitta ragna­tela delle sottigliezze metafisiche, che percorrono quel­la che può essere, a ragion veduta, definita la merce per eccellenza. Pare superfluo insistere sulla minor indesiderabilità di un regime non repressivo. Ma assai insidiosa si profila la cattiva dialettica fra le posizioni del proibizionismo e quelle dell' antiproibizionismo, omologate sul terreno comune dell'enfatica e un po' ridicola "lotta alla droga", della predisposizione di (di­versi ma speculari) strumenti normativi di controllo, mirati alla risoluzione del problema della tossicodipen­denza, e dell'ancor più grave e diffusa opinione che i tossicodipendenti (gli "utenti", come li chiamano medi­ci e recuperatori d'anime) siano, in buona sostanza, persone incapaci di intendere e di volere.

      Contrapporre il diritto di resistenza è qui dun­que, immediatamente, l'affermazione della necessità di un ribaltamento dell'approccio conoscitivo. Della ne­cessità di passare dalla droga come fatto oggettivo alla messa in discussione della sua nozione, dall' analisi della realtà sociale della droga a quella della droga della realtà sociale, dall' interesse ad un migliore inter­vento di giudici, assistenti sociali, poliziotti, preti, pre­ti poliziotti e giudici preti, a quello per un ottimo inter­vento diretto su tutti costoro.

      Per l'eliminazione delle loro speculazioni, delle loro imposture, delle loro sottili, quotidiane efferatezze.

      Per l'abolizione dei loro nefasti ruoli.

      Per il dissolvimento del tempo in cui la differen­za fra le comunità e il Gemeinwesen (essenza della comunità) può incontrastatamente essere svilita ad una democratica questione di pluralismo.












Quando questo fumo si dilegua molte cose
appaiono cambiate. Un'epoca è passata.
Che non
si domandi ora cosa valevano le
nostre armi: esse sono rimaste nella gola del
sistema di menzogne dominanti. La sua aria
d'innocenza non tornerà più.


Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni

 

 

 

 

 

 

 

LEGALIZZAZIONE

PARADIGMA

DELLA SIMULAZIONE IDEOLOGICA

 

 

 

      La confusione è di vari tipi e possiede spesso caratteristiche diverse, ma, checché ne pensasse il Ti­moniere nuotatore, assai di rado crea una situazione eccellente. Almeno per i rivoluzionari. Di solito la con­fusione serve al potere e lo serve.

      La confusione, inoltre, è terreno di base di un movimento che in tempi non lontani venne definito dai radicali come del confusionismo interessato; natural­mente si tratta di un movimento non dichiarato, ma, del pari, non silenzioso, informale e trasversale al tem­po stesso. I confusionisti interessati si applicano a campi diversi ma con analoga disposizione politica dell'animo: impedire il disvelamento delle radici della realtà e quindi impedirne, o almeno ritardarne, il rove­sciamento.

      La cosiddetta battaglia per la legalizzazione del­le droghe è un tipico esempio di confusionismo interes­sato. Si parte dalla chiara, savia e sacrosanta esigenza di contrapporsi al proibizionismo, che tanti guasti ha determinato e determina (ma non alla merce), per giun­gere a spacciare come ipotesi di libertà e di liberazione delle nuove forme di regolamentazione autoritativa ed autoritaria.

      Varie sono le sfumature dell' ipotesi di legaliz­zazione e non è certo il caso di esaminarle qui partitamente: lasciamo volentieri questo còmpito ai co­siddetti specialisti ed alle loro oziose disquisizioni. Ve­diamo piuttosto il nucleo centrale del programma poli­tico, perché di politica si tratta, riguardante la legalizzazione.

      Anzitutto va sgomberato il campo da un equivo­co linguistico di cui i confusionisti interessati spesso si servono. Cosa vuol dire legalizzare? Secondo un dizio­nario frequentabile (Devoto-Oli, ed. Le Monnier, Fi­renze) significa "ricondurre sotto il segno dell' ordine o della disciplina legale". La legalizzazione significa, perciò, la restaurazione dell'imperio della legge su ter­ritori che in una determinata fase in qualche misura vi si sottraggono o ne sono avulsi. In concreto, per quan­to riguarda le droghe, significa razionalizzarne il con­sumo in base a precise leggi ed a controlli che da esse discendano. Ancor più in concreto, fra gli abolizionisti fautori della legalizzazione, l'ipotesi prevalente è que­sta: liberalizzazione delle droghe cosiddette leggere (e liberalizzare, sempre secondo il Devoto-Oli, vuol dire "render libero, abolendo una programmazione, o elimi­nando norme restrittive o divieti", com'è per l'appunto nel caso delle droghe) e legalizzazione, cioè statalizza­zione, delle droghe cosiddette pesanti. Non preoccupia­moci troppo delle droghe liberalizzate: sarà solo il mercato a dimensionarne costi e consumi. Per quanto riguarda invece la legalizzazione, che noi non a torto preferiamo sempre definire statalizzazione, il discorso è assai più complesso ed implica la corresponsabilità di diversi agenti.

      La legalizzazione vorrebbe rivolgersi soprattut­to, anzi essenzialmente, ai "drogati" cronici, a quelli che vengono definiti tossicodipendenti. Le finalità sono dichiarate: togliere dalle strade questi soggetti, render loro accessibile (più o meno) l'uso della sostanza pre­ferita, liberarli da spese esorbitanti, ridurre quindi il tasso di microcriminalità o di prostituzione a cui spes­so i tossicodipendenti sono costretti per pagare i sala­tissimi prezzi delle sostanze, colpire così il mercato nero, le varie mafie, il tessuto dell' indotto eccetera ec­cetera.

      Quanto esposto qui sopra, che riassume assai onestamente le tesi sostenute dagli impavidi legaliz­zatori, è, ad una prima lettura, un coacervo di scioc­chezze e, ad una seconda, il miserabile tentativo di regolamentare autoritativamente quanto oggi sfugge al controllo sociale imposto e può determinare "schegge impazzite".

      In primo luogo, la giurisprudenza non riguarda, ovviamente, soltanto i consumatori cronici, ma tutti i consumatori, come tutti gli spacciatori eccetera. La modifica proposta è sostanzialmente di questo tipo: con un cambiamento della legge, il tossicodipendente non solo non sarà punibile ma potrà recarsi in appositi centri (medici, ambulatori, strutture di sostegno ecce­tera) dove, riconosciuta la sua tossicodipendenza, gli verrà concessa una sorta di drug card in grado di per­mettergli l'acquisto di una certa quantità della sostan­za a lui cara a prezzo calmierato, cioè statalizzato, in vendita presso spacci autorizzati (si suppone possano essere le farmacie). Un simile provvedimento sottrar­rebbe ai rigori della legge soltanto chi si rivolgesse ai suddetti centri, comprasse la roba statalizzata e solo quella, si facesse schedare ed accettasse tutto ciò. La demenza di una simile ipotesi, che demente non è bensì riformi- sta-autoritaria, salta agli occhi. Riguarda sol­tanto i tossicomani, in particolare eroinomani - perché per la cocaina, per non parlare di altre sostanze, è molto più difficile stabilire il grado di dipendenza ­ormai conclamati e che non hanno più alcun problema nel farsi schedare, nel perdere ore nelle code negli am­bulatori eccetera. Tutti gli altri sarebbero comunque fuori e fuorilegge. Non solo. Ma anche i primi non sarebbero al riparo da sanzioni amministrative o addi­rittura penali. Infatti c'è da credere che molti non sa­rebbero soddisfatti, almeno non tutti i giorni, della dose consentita loro da medici, operatori, assistenti so­ciali, farmacisti e preti e che quindi si rivolgerebbero, per una sorta di "integrazione", al mercato clandesti­no. C'è da credere inoltre che non tutti, e non tutti i giorni, amerebbero le code e le attese (il tossicomane è paziente, ma sino ad un certo limite e, soprattutto, quando non può fare diversamente, come ha ben dimo­strato la somministrazione controllata del metadone) e, se con soldi in tasca, rapidamente si rivolgerebbero ad altri centri di spaccio, ancorché non autorizzati. I se­condi, vale a dire i consumatori occasionai i o anche quelli abituali ma non di eroina, non avrebbero alcun vantaggio a ritrovarsi nella penosa situazione di ricor­rere a questi centri legalizzati. Per celia, ipotizziamo una situazione estrema. Un giovane si rivolge ad uno di questi centri. Passati i "filtri" dei vari operatori so­ciali, morali e clinici infine riesce a raggiungere lo spacciatore capo: il medico. Il dialoghetto immorale è immaginabile. «Lei è qui perché vuole drogarsi, vero?» «E perché sennò?». «Che sostanza usa attualmente ed in quale quantità?». «Nessuna, ma voglio provare ics, ipsilon e zeta». Apriti cielo. Quale medico mai conce­derebbe una droga legalizzata a chi gli facesse un di­scorso simile? (Va da sé che nessun tabaccaio chiede quante sigarette e di che marca ha già fumato il richie­dente, e lo stesso vale per lo spacciatore di alcol o di automobili eccetera.) A ragione si può sostenere che, anche a legalizzazione avvenuta, soltanto un numero minimo di consumatori di droghe se ne potrebbe av­vantaggiare e, per di più, che molti di essi rischiereb­bero di incorrere in sanzioni tutte le volte che acqui­stassero al "mercato nero".

      In secondo luogo, e già notevolmente sgrossato il numero dei potenziali fruitori della statalizzazione ri­spetto al numero globale dei fruitori, va considerato l'aspetto del peso morale che una simile normativa gra­verebbe sui singoli soggetti. Per ottenere lo spaccio controllato della sostanza dovrebbero giocoforza en­trare in una particolare categoria di cittadini, quella dei "drogati". E' pur vero, come sostengono i solerti legalizzatori, che potrebbe rimanere un rapporto per così dire privato tra il fruitore ed i centri di assistenza e di spaccio, in certo qual modo anonimo, senza che sia necessario stampare una siringa gialla sui vestiti dei drogati, ma è altresì vero che il peso psicologico sarebbe comunque enorme e con altrettanto grave senso di impotenza, come sa chiunque abbia frequentato o studiato la distribuzione statalizzata del metadone. Il potere del medico e dell' operatore sociale diverrebbe gigantesco (addirittura maggiore di quanto non lo sia già, e già è abnorme e causa di molteplici danni), ecci­tando alla piaggeria ed alla menzogna, incitando alla reciproca delazione («Perché a me date solo x di so­stanza, quando ad Achille ne date x + y, mentre io so che Achille comunque si rifornisce quotidianamente anche da Mariotto? Perché viene concesso tot di so­stanza a Leoluca, quando io so che poi una parte la rivende a Fermino, che non vuole sputtanarsi andando ai centri?»). Ben si sa che la società neomoderna ha come suoi capisaldi "morali" l'adulazione, la falsifi­cazione e la delazione diffusa, ma è oltremodo grave che queste forme vengano proposte sotto sotto anche dai tardogarantisti. Non dimentichiamoci che la prima forma di "pentitismo" previsto legalmente è stata pro­prio riguardo alla materia "droga", per cui lo "spac­ciato" poteva ottenere considerevoli vantaggi denun­ciando lo spacciatore, che, magari, a sua volta, era lo spacciato di altri e così via. Il territorio della droga, in quanto merce per eccellenza, è un terreno di avanguar­dia anche per le miserabili pantomime del Diritto.

      In terzo luogo, per quanto sin qui detto, risulta di ben scarso peso un' argomentazione cardinale dei fautori della legalizzazione, e cioè che con la sua en­trata in vigore si toglierebbe il terreno sotto ai piedi agli spacciatori ed alle mafie. Il mercato attuale è co­stituito solo in piccola parte da persone che accettereb­bero la trafila e la normativa per ottenere la droga statalmente spacciata. Si può addirittura ipotizzare ra­gionevolmente un apparente paradosso: con la stataliz­zazione tenderebbe ad aumentare il mercato nero o, per lo meno, il prezzo al mercato nero. Affinché non si pensi che giochiamo sempre alle esagerazioni o alle provocazioni, si segua il ragionamento. Un certo nu­mero, relativamente basso, di consumatori di droghe si reca nei centri appositi, ma la loro (apparente) assenza dal mercato non riesce a calmierare il medesimo, anzi. Chi si rivolge al mercato nero è in condizioni di parti­colare sfavore: mentre adesso è in certo senso nascosto e protetto dall' ampia schiera di clienti, poi si autode­nuncerebbe subito come uno che, per le ragioni più svariate, da questi centri non vuole passare o uno a cui le quantità fornitegli legalmente non bastano. La lega­lità degli uni aumenterebbe l'illegalità degli altri e, dato che il prezzo delle droghe sul mercato è dato es­senzialmente dalla loro illegalità e dalle ideologie che le circondano, viene facile da pensare che non si ve­drebbe alcuna diminuzione del prezzo ma, forse più probabilmente, un suo rincaro. Di più: si verrebbe pre­sentando sul mercato una nuova figura, come già era successo all'apogeo della distribuzione controllata del metadone, e cioè quella dell'assistito-spacciatore. Po­tendo acquistare la sostanza a prezzi nettamente infe­riori a quelli del mercato nero, molti sarebbero tentati di rivendere immediatamente parte del prodotto onde garantirsi un apparente guadagno, fornirsi di un' appa­rente fonte di sussistenza. L'apparenza di ciò è eviden­te: venduta parte della "propria" sostanza ed avendo ne più tardi ancora bisogno o voglia, il microspacciatore si trasforma immediatamente in potenziale o attuale spacciato. Si può comprendere come questo meccani­smo tenderebbe a rafforzare e consolidare il mercato, invece che ad indebolirlo. Questo per quanto riguarda l'attività dello spaccio. Per le mafie vale un discorso analogo, con una precisazione. Già adesso, avendo accumulato delle fortune con le droghe ed essendo in lieve ribasso il mercato, le mafie tendono a riciclarsi in altri campi, cosiddetti legali. Questa simbiosi tra atti­vità illegali ed attività legali tendenzialmente aumente­rà, visto che la struttura mafiosa è connaturale alla società neomoderna. Sicché, anche se il mercato ten­desse a ridursi (ed abbiamo visto com'è improbabile), le mafie continuerebbero a controllarlo, salvo dirottare su attività legali una parte maggiore dei superprofitti: esattamente quello che sta già avvenendo. Ma sulla mafia andrà sviluppato in altra sede tutto un discorso, un' analisi sulla sua funzione nella società attuale. Se, come sosteniamo da tempo, Stato e Mafia si alimenta­no mutuamente e mutuamente si convalidano, si vedrà facilmente come una statalizzazione delle droghe non sarebbe neppure in piccola parte una soluzione del problema più complessivo.

      Altre asserzioni dei legalizzatori non vale neppure troppo la pena di confutarle con grandi ragionamenti. Ne citiamo qualcuna alla rinfusa. «Con la legalizzazione del­le droghe diminuirebbe la criminalità.» Sappiamo che per lo più l'attività illegale del tossicodipendente nasce dal suo bisogno di procurarsi la sostanza e dagli alti prezzi di mercato ed abbiamo visto sopra come la situazione, anche dopo la statalizzazione, tenderebbe a rimanere per lo meno immutata, se non peggiorata. Questo argomen­to, come quello abusato della "lotta alla Mafia", è pura­mente demagogico, vuole paludarsi di un'utilità sociale assai discutibile.

      Un'altra tesi sventolata è che «con la legalizzazione si invertirebbe la tendenza: dalla spinta repressiva attuale si giungerebbe ad una certa tolleranza nei confronti dei con­sumatori di droghe». E' una falsità che nasconde delle pes­sime intenzioni. Se è vero che il drogato verrebbe progressivamente considerato più come un malato da curare che come un degenerato da reprimere, è ancor più vero che lo statuto di malato e di irresponsabile è forse più pesante e gravido di conseguenze di quello di delinquente. Non si con­tribuirebbe affatto ad una liberalizzazione delle opinioni ri­guardo alla droga ed ai drogati, ma si demanderebbe il loro monopolio allo Stato ed ai suoi assistenti sanitari, salvo ri­correre ai suoi assistenti polizieschi in tutti i casi "anoma­li". Dove c'è più Stato, di certo non c'è più libertà: è que­sta è una delle pessime intenzioni dei nostri umanitaristici legalizzatori: avere più Stato.

      L'ultima, e forse più sensata, affermazione che vo­gliamo considerare è che: «per lo meno la qualità della sostanza, il suo grado di purezza, l'assenza di tagli nocivi eccetera sarebbe garantita». A parte il fatto che si potreb­be discutere assai a lungo sulla maggiore "onestà" dello Stato (basti pensare alle industrie statalizzate), va rico­nosciuto che molto probabilmente ci sarebbe un netto mi­glioramento della qualità delle sostanze anche nel mercato nero, proprio per la competizione tra i due circuiti di dif­fusione dei prodotti, quello legale e quello illegale, e di questo miglioramento non ci si potrebbe che rallegrare, ferme restando tutte le altre obiezioni ed in primis quel­la della Statodipendenza e medicodipendenza cui molti verrebbero costretti. Ma la questione vera è semplice­mente un' altra: con la liberalizzazione assoluta delle dro­ghe si otterrebbe un risultato sicuramente assai maggio­re su questo piano (la concorrenza spingerebbe le varie ditte a presentare sul mercato prodotti sempre migliori ed a prezzi competitivi) e senza tutti gli aspetti negativi su­gli altri piani che abbiamo descritto. Ridicola è la giusti­ficazione addotta dagli statalizzatori: bisogna procedere a piccoli passi, oggi è già difficile una campagna per la legalizzazione, figuriamoci una per la liberalizzazione. E' ridicola perché mai si sa quali sono i passi piccoli e quelli grandi se non quando vengono compiuti: è la prassi della trasformazione l'unico criterio di misura. E' ridicola perché nasconde un' esigenza reale della riorganizzazione neomodema della società (maggiore normazione, maggio­re controllo sociale e statale) sotto abiti di falsa libertà: è l'oppressione che non vuole essere conosciuta con il suo vero nome. E' ridicola perché offre pseudosoluzioni mi­serabili, ma, nel contempo, cerca di negare le basi mate­riali su cui tutto ciò si fonda: la società mercantil-spet­tacolare. La droga è palesemente una merce, come tutto è palesemente una merce. L'ipotesi savia a cui ci rifaccia­mo è proprio questa: considerarla per ciò che è ed è per­ciò che, considerandola una merce, le si vuole togliere quell' eccellenza specifica assegnatale dal proibizionismo, dagli interessi alla sua supervalorizzazione, dalle ideolo­gie e dalle cosiddette morali. Sostenere, come sosteniamo, che le droghe andrebbero vendute, tutte, liberamente in drogherie ed affermare risolutamente che questo solo fat­to risolverebbe molti dei problemi accessori determinati dal suo attuale status, e che abbiamo analizzato sopra, non significa affatto che noi amiamo il libero mercato, né il mercato tout court, né la società del capitale che fonda il mercato, né che ci siamo convertiti ad una qualche ideo­logia liberista. Significa semplicemente dire le cose come stanno e porre i presunti riformatori di fronte alle loro re­sponsabilità.

      Nessuna battaglia, almeno da parte nostra, per il trion­fo della merce. Ma una battaglia durissima contro tutti co­loro che pretendono che la droga sia e continui ad essere una merce eccellente, con i guasti che tutti conosciamo.

      Se la libertà reale sarà la fuoriuscita dal mondo do­minato dalla merce, è pur vero che la schiavitù reale sta nel non chiamare le cose con il loro nome.

 

 

 

 

E rumino ancora a questi speculatori, che
tante volte hanno fatto fare il tuffo in mare
alle loro speculazioni per scoprire le origini
del flusso, del riflusso e della amaritudine,
ma nemmeno uno, a mia idea, ha dato nel
segno. Queste ragioni salate mi sembrano
così anemiche che concludo che
infallibilmente…

Cyrano de Bergerac, Il pedante gabbato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PROIBIZIONISMO FRUTTO

DELLE SPECULAZIONI DELLA SCIENZA

E DELL'ESPROPRIAZIONE DEL SENSO

 

 

 

 

      Sia poi chiaro che la nostra attenzione per l'ana­lisi delle implicanze di una specifica normativa nulla ha a che fare con una particolare vocazione alla cono­scenza per amore della conoscenza. Né ci interessa la improponibile assunzione di un punto di vista scientifi­co e imparziale. Semmai, il disvelamento della sua na­tura truffaldina e della sua straordinaria valenza repressiva, per contrapporgli la prospettiva della no­stra insofferenza e della nostra insopportazione. Con­tro l'arroganza di un sapere che vuol mostrarsi come neutro ed obiettivo e riesce, sempre più destramente,







ad evitare imbarazzanti discorsi sulla propria essenza, disperdendosi nei rivoli dei mille specialismi e dei mil­le tecnologismi, non possiamo che riproporre, ancora una volta e con sempre maggiore attualità, l'arcano concernente il cui prodest: chi può trarre beneficio, in termini umani, dall'insensato accumulo di nocività che si affastella a ritmo sempre più frenetico sotto il nostro sguardo? L'interrogazione rimanda ad una questione di giustizia, ma ancor prima, inevitabilmente, ad una di senso.

      Malgrado le lugubri note dei cantori della fine della Storia, al vuoto dell'assurdo tecnocratico e del delirio del Capitale si oppone, con tutta la gravità della sua irriducibilità ontologica, il rifiuto antimoderno del­l'umana tensione alla produzione di senso, unica fra tutte le produzioni a non poter essere assoggettata alle dinamiche riproduttive. E si tratta di un'opposizione, soggiungiamo, che oggi non può coagularsi che intor­no ad un pieno di intelligenza inoperosa e di prassi rivoltosa.

      Il proibizionismo drogastico, quale modello esemplare di tutti i proibizionismi e di tutte le proibi­zioni, altro non è che uno dei paramenti che avvolgono tale vuoto di senso. Dietro le forti tinte degli allarmi e dei moralismi bacchettoni e bacchettanti non si scorge che la macchina della riproduzione autoritativa e del controllo fine a se stesso ed alla sua reiterazione. An­che in una prospettiva mercantile, ragionevoli fonda­menti, che giustifichino la parossistica quantità di va­lore aggiunto (nell'ampio senso che si è fin qui illustra­to) a quello che le sostanze stupefacenti avrebbero in mancanza di un regime repressivo, non se ne avvistano nemmeno col binocolo.

      Giacché tali sostanze non sono in sé e per sé più perniciose di altre liberamente in commercio bensì ri­sultano perniciosissime in ragione dei rapporti sociali e di potere che veicolano, al pari di tutti i beni (anche i più innocui), in quanto merci.

      Nonostante le suggestioni misterico-superstizio­se evocate da più parti, talvolta purtroppo anche da improvvidi "sacerdoti" del movimento, nessuna natura magica può ragionevolmente ritenersi insita nei princi­pi attivi contenuti dalle sostanze stupefacenti. Quando si parla di dipendenza ingenerata dall'uso di questa o quella droga si rovesciano, consapevolmente o meno, i reali termini della questione: invero, il rifugio nelle piacevoli sensazioni che queste offrono rinviene la pro­pria origine nella profonda spiacevolezza delle molte dipendenze e delle tante subordinazioni che ammor­bano l'esistente. E ciò nondimeno, riesce a tutt'oggi piuttosto agevole al proibizionismo criminalizzare un Contegno falsamente etichettato come spiacevole (al più spiacevoli sono le conseguenze di intossicazioni acute e croniche), ed ai recuperatori cimentarsi nelle blandizie intorno alla falsa piacevolezza della "vita normale". Quella che loro devono inventarsi per fab­bricare devianza e produrre ricchezza. Naturalmente, per loro.

      Da accumulare nell 'unico pozzo senza fondo che "presiede" tale sordido consesso, quello della contraf­fazione e dell' inganno. L'altro pozzo, quello rappre­sentato da questi malviventi con beffarda ed astuta icasticità (a mo' di contrappasso alla rovescia), quello della favola della roba che piega a sé la volontà degli individui, vorrebbe raffigurare la negazione della liber­tà e dell' autodeterminazione come effetti consequenti all' assuefazione, nel tentativo di rimuovere la fastidio­sa verità, ovvero il fatto che tale negazione è nelle premesse quale candido sin e qua non di ogni potere, e dunque causa di vincoli e subordinazioni.

      Vero è che le sostanze psicoattive, lecite o illeci­te che siano, danno luogo a quella che viene impropria­mente chiamata dipendenza fisica, un fenomeno farma­cologico per cui, dopo l'assunzione protratta per un certo lasso di tempo, un'improvvisa sua sospensione determina l'insorgenza di sgradevoli disturbi fisici (e tesi accreditate nella comunità scientifica ravvisano nel tabacco la sostanza maggiormente "uncinante"). Ma del tutto inconferente a criteri di razionalità si con­figura evidentemente la confusione dello studio di tali effetti con quello della cosiddetta dipendenza psicolo­gica, confusione indotta dalla scellerata ambizione scientista di ridurre il complesso e variegato universo delle pulsioni e delle emozioni umane ad una variabile, quantizzabile e prevedibile, di forze "naturali", intera­gente con le altre. lnput-output.

     Né Bene, ne Male, né Buono né Cattivo, l'oriz­zonte prefigurato è impregnato di sola cattività. Giacché la Scienza non si preoccupa di controllare e soffo­care la libertà, accidente per lei morbifero, ma ben più radicalmente preferisce decretarne implicitamente l'inesistenza nei propri postulati epistemologici e nelle proprie prescrizioni metodo logiche.

      Quasi vent'anni fa Thomas S. Szasz ironizzava argutamente sulle acquisizioni "scientifiche" in tema di sostanze stupefacenti: «La farmacologia, non dimenti­chiamolo, è la scienza dell'uso dei farmaci - cioè dei loro effetti curativi (terapeutici) e dannosi (tossici). Se, ciononostante, i testi di farmacologia si ritengono in diritto di contenere un capitolo sull'uso di droga e sulla tossicomania, per gli stessi motivi, i testi di gine­cologia e di urologia dovrebbero contenere un capitolo sulla prostituzione; i testi di fisiologia dovrebbero con­tenere un capitolo sull'inferiorità razziale degli ebrei e dei negri; i testi di matematica dovrebbero contenere un capitolo sulla mafia del gioco d'azzardo; e, natural­mente, i testi di astronomia dovrebbero contenere un capitolo sull'adorazione del sole (Thomas S. Szasz, Il mito della droga, Milano, 1977).

      In definitiva, per quanto assordanti e moleste, le grancasse della Scienza e della Neosuperstizione, non possono in alcun modo offrire una parvenza di assen­natezza ad una proibizione, a ben vedere, fondata solo su una arrogante tautologia: le droghe sono vietate perché sono la Droga.

      E' il deserto della ragione ove si rincorrono stolidamente argomenti di menti dementi. Purtroppo le sostanze stupefacenti non cagionano disaffezione ai doveri lavorativi, come paventa la: demenza muccio­liniana, ma anzi ne costituiscono generalmente un for­midabile incentivo, sia direttamente (sempre più diffu­sa è la pratica dell'uso di eccitanti per lavorare meglio e di più), sia indirettamente (attraverso il mantenimen­to di una fonte di reddito che garantisca la possibilità di accedere al costoso trastullo). Né miglior figura fan­no le demenze senili della donna-Nobel Rita Levi Montalcini, che dopo faticosi lustri dedicati all'Alta Ricerca, e dopo ancor più faticose ricerche dedicate agli Alti Lustri, rivela pubblicamente, la tapina, che la cocaina spacca le cellule del cervello. Impresentabile anche nel più triviale bar dello sport.

      Quanto alla questione della dipendenza psicolo­gica, occorre far piazza pulita dei radicati luoghi co­muni cresciuti infaustamente sui purtroppo sempre troppo fertili terreni del pregiudizio e dell' ignoranza. Si è sostenuto che essa, alla stregua di elementari cri­teri di buon senso, non può essere indotta dalle pro­prietà peculiari delle sostanze stupefacenti. Se così fosse risulterebbe incomprensibile quella particolare e tenacissima forma di dipendenza, nella specie di asti­nenza, da sostanze alimentari, che va sotto il nome di anoressia, fenomeno sempre più diffuso e importante, con conseguenze devastanti, quando non letali. Non occor­re infatti una spiccata perspicacia per escludere che tale fortissima dipendenza psicologica sia originata da una maligna e invincibile natura inerente alla composi­zione chimica del cibo.

      Per chi non ama abbeverarsi alla fonte dell' ideo­logia e dell' insipienza, la manifesta verità, incon­fessabile dalle sanguisughe del baraccone repressivo-­recuperatorio che campano sul suo offuscamento, è che né sotto il profilo della dipendenza fisica, né sotto quello della pretesa coartazione psicologica, le sostan­ze stupefacenti illecite, in sé considerate, si distinguo­no particolarmente e da quelle lecite e da quelle non stupefacenti.







     L'eziologia delle sudditanze connesse alle dro­ghe rimanda invece, direttamente, a quella generale della sovradeterminazione dei rapporti sociali. E non ci possono interessare, a questo riguardo, né l'ozioso chiacchiericcio intorno ad operazioni sociologiche definitorie, né l'addentrarsi nella decadente tenzone della politica per assidersi, dialetticamente ed irenica­mente, ai suoi tavoli. Giacché per venire a capo della liberazione dalle tossicità sociali e dalle dipendenze spettacologene, qui, ora, e con urgenza questi tavoli vanno rovesciati. Fra la prospettiva di liberazione dal­la soggezione che gravita intorno alle sostanze stupefa­centi e quella dalle catene della società psicotropa non v' è alcuna soluzione di continuità.

      Inutile, se non addirittura patetica, sarebbe una nostra esortazione alla promozione di una battaglia, di una campagna o di una lotta (con tutto il bieco sapore emergenzialistico ormai assunto da tale termine) per la liberalizzazione delle droghe. E, si badi bene, tale scetticismo pertiene non solo e non tanto a considerazioni relative ad un piano oggettivo, non consentendo gli attuali rapporti di forza alcun margine per una effi­cace pressione che si traduca in accettabili modifiche legislative. (Come si è veduto poc'anzi affrontando il tema della legalizzazione, il riformismo delle conquiste minime è, in questa materia, immediatamente valo­rifico di controllo e repressione.) Di maggior rilievo sono infatti le inconseguenze che fanno capo al livello della soggettività, alle concrete possibilità che da simi­li campagne possano germogliare costituzioni realmen­te antagoniste allo stato delle cose, senza che vengano individuati e minati i dispositivi reinglobativi del domi­nio spettacolare, senza che cioè venga messo in atto il necessario spariglio dei sintagmi comunicativi (in 415: Prime indicazioni teoriche, 415, Torino, 1992).

      D'altra parte riteniamo, a ragion veduta, che non sia possibile sottrarci alla tensione etica che, sempre più stringente, richiede l'esercizio di una critica radica­le dell'esistente, affinché altrettanto radicali siano gli eventuali e auspicabili moti che ad esso si rivoltino. E in tale ottica la preferenza per l'abolizione di ogni con­trollo giuridico sulle sostanze ora proibite, rinviene un pregnante significato solo se non disgiunta dalla com­plessiva ricusazione di ogni ordinamento eteronomo, qualunque ne sia la fonte addotta a fondamento ultimo. Al diritto vigente che proibisce l'uso di droghe risulte­rebbe vano e sventato opporre un supposto diritto natu­rale che contempli la legittimità del loro libero consu­mo, poiché la contrapposizione fra diritto positivo e giusnaturalismo attiene, e da sempre, alle dinamiche dei conflitti per il potere mentre ben più interessanti e commendevoli sono da prefigurarsi quelli contro di esso.

      Tanto l'epico eroismo di Antigone, che in nome delle "leggi non scritte ed immutabili" va incontro alla morte pur di seppellire le spoglie del fratello Polinice, quanto il cinico giuspositivismo di Creonte, denuncia­no parimenti la derivazione della loro condotta da prin­cipi esterni ed estranei alla propria sfera volitiva, e dunque la riaffermazione di un ordine di valori eteronomo. Alla riduzione dello scontro alla antinomia fra la concezione che ravvisa quali valide le leggi che sono giuste e quella che sostiene essere giuste le leggi valide, a quest'infame imbroglio dialettico, noi non ci stiamo.

      Alle molte ragioni delle molte Leggi non possia­mo che opporre il sedizioso rifiuto anti-ideologico di cui è portatrice la "legge" della ragione e delle proprie ragioni, quelle che sgorgano dal prepotente bisogno di libertà ed autonomia, e che lo alimentano.








 

Il balletto immobile

 

12 gennaio 1993: il governo presieduto dal so­cialista Amato modifica, con decreto legge, la normativa sul consumo individuale di sostanze stu­pefacenti. Irrilevante.

16 gennaio 1993: la Corte costituzionale ammet­te la proposta di referendum abrogativo della legge Vassalli-Russo Jervolino avanzata da Pannella, so­cio di Amato. Spettacolare.

Di fatto, nulla cambia realmente. Il "ricomincio da tre" di Amato (vale a dire che oggi è possibile, dimostrando la propria tossicodipendenza, avere presso di sé tre volte la dose media giornaliera) è stato sbeffeggiato dalla stessa Corte costituzionale riconoscendo l'ammissibilità del referendum e dun­que sostenendo che il decreto legge Amato era giuri­dicamente irrilevante.

Di fatto, il referendum proposto, qualora ed im­probabilmente vincesse, ci riporterebbe alla legge precedente. Con l'aggiunta di uno spettacolo "li­bertario" .

Craxi e i democristiani hanno pubblicamente di­mostrato di avere le mani sporche, Bruto e Cassio, i loro eredi, si lanciano sulla sponda della "tolleran­za" intollerante. Sono i giochi della politica, la Poli­tica della politica. Miserabili.

Esultano i proibizonisti e gli antiproibizionisti, ciascuno con le proprie ragioni ed a ragione.

Fuori dal circo!

Né più altra parola venga spesa, né tantomeno spacciata





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