INTORNO AL
LA DROGA E IL SUO
SPETTACOLO SOCIALE
NAUTILUS
Contiene testi di:
WYSTANT
HUGH AUDEN, RICCARDO D'ESTE, MALCOLM D'IDD, GOFFREDO FIRMIN, DADA
FUSCO,
ANNAMARIA PES, VINCENZO RUGGIERO, NICOLA SERGIO SERRAO.
IN
APPENDICE
COME MEMORIA STORICA VIENE RIPRODOTTO UN TESTO DELLA RIVISTA CONTROINFORMAZIONE.
Poiché persistiamo nella
nostra inimicizia verso le regole della proprietà, ancorché intellettuale,
questi testi non sono
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che si desidera ricevere, a Nautilus. Il prezzo è assolutamente soggettivo, arbitrario.
Nero fu il
giorno in cui Diesel
concepì il
suo truce motore che
generò te,
vile invenzione,
più perversa,
più criminale
perfino della
macchina fotografica,
mostruosità
metallica,
afflizione e
infezione della nostra Cultura,
principale sciagura della nostra
Comunità.
Come osa la
Legge proibire
l'hashish e
l'eroina e al tempo stesso
autorizzare
il tuo uso, tu che gonfi
tutti i
deboli Io inferiori?
I drogati
danneggiano soltanto
la loro vita:
tu avveleni
i polmoni
degli innocenti,
il tuo
fracasso sovreccita i pacifici,
e su strade intasate ne
muoiono
a centinaia nel ghiribizzo del caso.
AVVERTENZA PER IL LETTORE
il curatore
Questo libro
tratta di "droga”, del Drago, in maniera abbastanza inusuale, almeno secondo i
modelli diffusi. Vuol essere essenzialmente una tessera nel mosaico unitario
della critica allo spettacolare integrato. In questo caso, scegliendo il
"fenomeno droga" come osservatorio privilegiato.
Vi
sono state molte esitazioni nel redigerlo sotto questa forma che è, volutamente,
sufficientemente teorica ma anche frammentaria, sufficientemente analitica ma
anche "di battaglia", sufficientemente polemica ma anche descrittiva, talora
narrativa o poetica.
In realtà, c'era chi stava
pensando e lavorando ad un libro sul Drago‑droga da tempo. Però in un'ottica
diversa e sganciata dalle immediatezze e dalle contingenze, con la pretesa di
dire qualcosa di definitorio, se non di definitivo, sul tema. Sul suo carattere
di merce per eccellenza, su ciò che ha significato nella gestione degli Stati
contemporanei, sui suoi risvolti politici, ideologici, morali e repressivi,
sulla sua immensa forza produttiva (di nulla) e riproduttiva (di società
spettacolare e di merci).
In tempi recentissimi, è
parso più utile sospendere momentaneamente quella ricerca ambiziosa e
intervenire immediatamente, coagulando e restringendo le ricerche già
compiute, ma valorizzandone le "tesi" fondative. Un testo di battaglia, quindi,
ma anche di documentazione, di testimonianza, di analisi. Perché la traccia
teorica è rilevabile comunque, e comunque questo libro non vuole inserirsi nelle
diatribe da pollaio fra gli ultra e muscolosi repressori e gli anemici difensori
delle "libertà" sotto l'egida, comunque, dello
Stato.
Però ai nostri lettori si deve dar ragione di
questa scelta. Non vi è dubbio che il clima di guerra "a tutto campo" lanciato
da Bush e, si parva licet, da Craxi in Italia ha giocato la sua parte; come l'ha
giocata la drogata attenzione massmediatica al "problema", di modo che
non v'è speranza che passi giorno senza dover leggere o ascoltare opinioni in
merito da parte dei soliti politici ed "esperti". Sì, tutto ciò ha avuto il suo
peso. Ma, onestamente, non sarebbe bastato per far (momentaneamente)
interrompere un lavoro di tutt'altro spessore, né per far "scendere in campo"
chi scrive, né, soprattutto, per farci intervenire in una "polemica" già di per
sé squalificata, rompendo così un nostro gusto per le cose ben fatte, la giusta
lentezza e, se si vuole, l'amata pigrizia.
Due sono
stati gli elementi decisivi.
Il primo è che non si
riusciva, e sino ad ora non si è riusciti, a leggere, ascoltare, vedere alcunché
di veramente accettabile, di davvero interessante, di non vieto e ripetitivo nel
"dibattito" in corso, fatte salve alcune rarissime ed encomiabili eccezioni. E
si dice solo accettabile, non buono od ottimale. Si è giunti così alla
conclusione a cui già altri in passato erano giunti: se volevamo leggere
qualcosa degno di interesse, capace di stimoli, ebbene: dovevamo scriverlo noi.
E’ stata una molla fondamentale.
Il secondo è stato
quello della solidarietà reale con tutte le vittime dello spettacolo integrato,
dello Stato muscoloso ed etico, noi per primi. Se molte vittime ‑ i più ‑ non
hanno voce o non la sanno usare o non sanno di possederla, è compito di chi sa
riconoscerla, di alzarla ancora di più. Non per un avanguardismo che presupponga
una delega, entrambi ripugnanti, ma come prima e legittima autodifesa. Di sé e,
se possibile, di tutti. Tra cui soprattutto i "drogati", materia prima, forza
lavoro, utensili e consumatori in questo enorme mercato che avviene,
letteralmente, sulla loro pelle, che scorre, letteralmente, nel loro
sangue.
Nel silenzio della schiavitù si ode solo il
rumore delle catene, la voce dei delatori e le grida dei moderni aguzzini - per
parafrasare Châteaubriand. Prendere parola in difesa della verità, così negletta
e maltrattata in quest'epoca di menzogna organizzata e diffusa, ci è parso un
compito irrinunciabile, ancorché faticoso. E questa è stata una molla ancor più
decisiva.
Il libro non sarà quello che alcuni di noi
avrebbero voluto che fosse, nei loro motivati sogni radicali, ma per lo meno
sarà, è.
Con l'esplicito impegno a non
considerare chiusa la faccenda con questo intervento. Tutt'altro. Una prima
base, nulla più. Di lancio, si spera.
Perché i conti
con il Drago, i suoi inventori e i suoi amici siamo ben lontani dall'averli
regolati.
Un'ultima avvertenza. In questi testi, non
cerchino suggestioni per facili slogan coloro che in passato hanno cercato, e
tuttora lo fanno (ridotti, ahiloro, a ciò a cui i fatti li hanno ridotti), di
usare la "lotta alla droga" come una "campagna” meramente politica ed
ideologica, cadendo nella trappola voluta dal sistema spettacolare e costruendo
formule riprovevoli, (tipo "sbirri e tossici fuori dai coglioni" accomunando
carcerieri e carcerati), per accattivarsi le simpatie dell'opinione cosiddetta
pubblica e certamente drogata. Questo libro non è solo contro Bush o contro
Craxi, ma contro l'insieme della società dello spettacolo, del dominio delle
merci, del potere dello Stato.
Ci prendano sul
serio, invece, coloro che ci accuseranno di essere degli “irresponsabili fautori
del permissivismo, di tutte le libertà". Forse lo siamo, ma soprattutto,
radicalmente, di una libertà: quella di vivere a gusto.
Un Drago si aggira per il
mondo. Con le sue lingue di fuoco, il fiato mefitico e velenoso, i terribili
colpi di coda che diffondono distruzione e morte. Che sia di origine satanica
non sembrano esservi dubbi, anche se taluni ne parlano come di un "flagello di
Dio", della risposta di un Jahvé vendicativo e risentito con gli uomini per lo scarso rispetto sinora
portatogli.
Ma i San Giorgio non sembrano mancare, anzi
sempre di nuovi si propongono sulla scena internazionale, da quelli con la spada
fiammeggiante consentitagli dal potere, dalle leggi e dalle polizie a quelli più
dimessi che, "nel concreto", come dicono, si contentano di combattere i più
periferici ma decisivi effetti di qualche lingua di fuoco, di qualche zaffata
del letale alito.
Il quadro pare suggestivo, articolato e
complesso. Lo si vede quotidianamente delineato sulle pagine di giornali e
riviste, trasmesso e ritrasmesso iterativamente da tutte le televisioni (bisogna
pur che i giusti concetti entrino, magari a forza, anche nelle teste dure come
sono quelle degli scettici) sul Drago vengono scritti libri d'ogni sorta, da
quelli con maggiori pretese scientifiche ai romanzi ed alle autobiografie
dolenti e pentite; i San Giorgio occupano la scena con uno sferragliare d'armi
ed un rimbombo di parole e minacce che di per sé soli inducono al timore
qualsiasi persona di medio buonsenso, che tuttavia tollera tutto ciò, proprio
per l'atroce incubo del Drago.
E’ uno stato d'emergenza ormai pubblicamente
dichiarato. Le forze sane delle nazioni sono chiamate a raccolta, quale che sia
la loro condizione sociale o la loro ideologia, dietro gli stendardi di questa
santa guerra contro il Male. Certo, con le dovute differenze e le inevitabili
polemiche, anche perché le regole dello spettacolo richiedono apparenti
sfumature, concorrenza, competitività tra simili.
E’ ormai risaputo che gli Stati contemporanei
vivono di emergenze successive, reali o presunte o inventate; dichiarare
un'emergenza dopo l'altra giustifica la loro esistenza, che è, essa sì,
un'emergenza seppur ormai storicizzatasi, ma che nondimeno continua ad apparire
a molti come un'escrescenza della vita sociale, spesso addirittura un bubbone.
Lo stato d'emergenza è divenuto l'emergenza di Stato, lo Stato delle emergenze.
Ma serve, comunque, a compattare la popolazione, a creare un clima
interclassista ed interideologico: se straripa un fiume o c'è un'alluvione, ci
si rimbocca le maniche tutti, dal parroco al sovversivo, dal padrone
all'operaio. Si costruisce la comunità fittizia della solidarietà. (Non che la
solidarietà in sé sia fittizia, tutt' altro, ma quelle di questo tipo lo sono
senza dubbio, essendo rivolte ad obiettivi fra loro diversi, spesso
contrastanti). Il clima di unità fallace che così si costruisce serve soltanto a
chi si è fatto gestore del fittizio, amministratore dell'unità sui
contrasti.
Ma non tutte le emergenze sono uguali. Ve ne
sono alcune che parti considerevoli di società non accettano come tali, ed
allora è possibile che le divisioni che si provocano siano maggiori delle unità
cui lo Stato aspira; ve ne sono altre che sono prettamente interne ad uno Stato,
che altri Stati non riconoscono come proprie, e dunque la solidarietà e il
coinvolgimento risultano alquanto limitati; ve ne sono, infine, altre ancora che
pretendono l'universalità, che coinvolgono cittadini e Stati, che sono al tempo
stesso interclassiste e internazionali e, naturalmente, queste sono le migliori,
le più utili.
Le guerre hanno sempre svolto egregiamente
questa funzione. In effetti, dividevano il mondo in tre: le due schiere
belligeranti ed una terza porzione, spesso non esigua, disimpegnata dal conflitto. Però, all'interno di ciascuno
schieramento, provocavano il mirabile risultato di una cooperazione e
solidarietà nazionale (e internazionale, con i paesi alleati) altrimenti del
tutto insperabile. E’ pur vero che spesso esistevano voci di dissenso o
addirittura di opposizione, ma non era difficile metterle a tacere, dato il
clima di guerra. Galera, campi di concentramento, eliminazione fisica: queste
erano le misure adottate contro gli oppositori ed assolutamente giustificate con
quell'emergenza dell'emergenza che è una guerra. Questo in entrambi gli
schieramenti, con un ondeggiamento utilitaristico dei paesi neutrali che si
compattavano sotto la profittevole bandiera della neutralità, commerciando con
gli uni e con gli altri, in attesa dei vincitori. Se nell'ultima guerra
mondiale, l'astuto, prudente quanto immondo staff dirigenziale hitleriano
concentrò e poi liquidò fisicamente prima i comunisti (specie se di sinistra e
radicali) e successivamente i socialdemocratici e poi gli ebrei, non si contano
i fucilati per "tradimento" da parte dei democraticissimi inglesi. Non solo, ma
anche la solidarietà internazionale, all'interno dello stesso campo, funzionò
perfettamente. A sentire George Orwell, persona sicuramente degna di fede, mai
l'Unione Sovietica di Stalin riscosse tante simpatie popolari nell'Inghilterra
di Churchill come durante l'alleanza bellica tra i due paesi. E lo stesso
Orwell, già allora criticissimo verso il regime staliniano, si vide costretto,
nelle trasmissioni BBC che conduceva, rivolte all'India, a difendere e in
qualche modo esaltare l'URSS perché "paese alleato", contro la "barbarie
nazista" (in sé assolutamente vera e dunque immeritevole di virgolette, ma che
peraltro serviva da demone unificante, giustificativo di altre e non molto
minori barbarie ‑ se pensiamo alla politica coloniale inglese o a quella
staliniana).
Ma fra
tutte le guerre, è la guerra santa
quella che funziona da massimo collante, all'interno di una nazione e nei
rapporti fra le nazioni. Essa deve soprattutto contenere in sé un alto valore
morale, almeno dichiarato, propagandato ed apparente; deve partire da dati di
fatto inoppugnabili, riscontrabili da tutti, ancorché interpretati secondo
un'ottica del tutto particolare; deve proporre o promettere soluzioni
universalmente vantaggiose, anche quando queste, ad un'analisi spassionata e
dettagliata, mostrano facilmente la corda e indicano la loro verità ultima: sono
delle spudorate menzogne che nascondono interessi
inconfessabili.
La guerra al Drago possiede queste
caratteristiche, contiene tutti questi vantaggi. Con uno supplementare: di
liquidare a priori tutte le possibili critiche, soprattutto se radicali,
tutti i possibili oppositori, in specie se esterni ai rackets politici ed
ideologici, con il potente e ricattatorio richiamo all'unanimità morale. Se in una guerra il
dissenziente viene sempre considerato disfattista, nemico di quel bene
supremo che dovrebbe essere la patria , e dunque passibile di condanna per
tradimento, nella guerra al Drago, dove tutti i valori cosiddetti morali e
sociali vengono spregiudicatamente buttati sul terreno, chi critica, dubita o si
differenzia pubblicamente dall'opinione corrente passa immediatamente per "amico
del
Drago", viene bollato e
squalificato, se non criminalizzato, affinché trionfi il surrettizio unanimismo.
Se, poi, qualcuno osa affermare che il
Drago in quanto tale non esiste, che è un prodotto, peraltro assai materiale, dello spettacolo integrato,
ebbene, costui ' è un nemico pubblico, con tutte le conseguenze che ne
derivano.
Una manovra assai abile per mantenere un clima
costante di guerra interna ed
internazionale.
Gli avvertimenti sono stati già lanciati, e con
quella grossolanità ed arroganza che contraddistingue gli
amministratori della
glaciazione sociale. Tutti (o quasi) gli intellettuali e gli opinion‑makers corrono a supporto, da
brave salmerie.
Il terrorismo si diffonde. Il Drago è ovunque.
Il Drago ti ascolta. Il Drago uccide. Mentre la verità è che lo Stato ed il
Drago si sono unificati, l'uno essendo partecipe agli interessi dell'altro,
mutuamente.
Pur con il timore che queste condizioni
eccezionali impongono a chiunque non sia santo e martire, noi osiamo affermare
ed argomentare alcune verità di base: che il Drago non esiste o, per dir meglio,
che è stato così abilmente simulato da cominciare ad esistere, non come Drago ma
come mortiferi effetti; che i San Giorgio sono i suoi migliori alleati, perché
senza un Drago da debellare i San Giorgio apparirebbero per ciò che sono in
realtà, dei miserabili faccendieri dell'economia o della politica o della
morale; che la menzogna reiterata e diffusa rischia di divenire terribile
realtà; che il Drago, oltre che fermamente voluto e costruito, è un colossale
business nelle sue tre componenti: ideologica, economica, poliziesca; che non ci
si potrà mai liberare dal Drago senza liberarci dai San
Giorgio.
Il Drago di cui si sta parlando è la droga,
anzi la Droga, se ancora non si era capito. Né interessano in questa sede i
sottili e spesso acuti distinguo operati da alcuni (pochi) studiosi seri del
problema, riguardo alle differenti caratteristiche e pericolosità delle varie
droghe.
Salta agli occhi che il concetto di droga è
inadeguato, generico, indifferenziato ed usato per lo più in senso terroristico
e criminalizzante. t evidente a chiunque non sia troppo ottenebrato
dall'ideologia e dalla martellante propaganda che hashish e cocaina non sono la
stessa cosa, come non lo sono anfetamina ed eroina. Ma, di più, è immediatamente
percepibile da chicchessia che tè, caffè, nicotina, alcol sono anch'essi delle droghe, sia
pur legalizzate e legali, ma non per ciò meno nocive soprattutto per quel che
riguarda tabacco e alcol che sicuramente determinano un tasso di mortalità o di
infermità assai più alto non solo rispetto a quello prodotto dalla bonaria
marijuana, ma anche dalla stessa cattivissima eroina. E, poiché si è degli
estremisti coerenti, non ci spiacerebbe aggiungere all'elenco delle droghe
l'automobile (che, è statisticamente provato, procura un 200% di decessi in più
della pur mortifera eroina e un grado di assuefazione e dipendenza
incomparabile, soprattutto come effetti sociali) o il culto delle vacanze, a cui
si sacrificano intere vite, o lo stesso lavoro, in società capitalista: i morti
da lavoro, diretti o indiretti, sono incommensurabili rispetto a quelli da
eroina (una stima cauta potrebbe parlare di 1000 a 1). Ma, nel clima della guerra santa questi possono sembrare dei
sottili distinguo, la difesa di un avvocato che, alla fine, è costretto ad
appellarsi al buon senso della Corte, mentre si sa che ogni Corte ne è
orgogliosamente sprovvista, altrimenti non sopravvivrebbe alle sue
contraddizioni.
Qui invece interessa esaminare la droga come
Drago, la sua utilizzazione spettacolare quanto materiale, i giochi politici,
ideologici e, ovviamente, economici che le ruotano intorno. Sicché
volontariamente si accettano le banalissime, volgari e profondamente inesatte
definizioni di droga che vengono propagate, gonfiate artatamente e diffuse dai
mass media. Quando si parla di droga, qui, se ne parla come la intenderebbe
qualsiasi bottegaio o qualsiasi craxi.
Il Drago è questo: non una realtà specifica e
specificamente determinata, bensì il Drago, un demone da esorcizzare,
un'operazione ideologico‑politica da condurre in porto, con innegabili vantaggi
economici, e vedremo quali. A buon titolo, si assume il concetto di droga per
com'è stato socialmente imposto e la figura del drogato, come quella del
traviato, senza valori, capace di scippare le vecchiette, inetto ad ogni
partecipazione sociale, secondo le descrizioni che se ne danno.
Quando si tratta di suggestioni simboliche ed
esorcistiche, non servono i distinguo interni, cioè riformisti, vale a dire
che assumono il quadro concettuale dato per contestarne parte. Una critica
radicale, e questa vuole esserlo, assume fino in fondo il dato avversario per
contrastarlo fino in fondo.
Per dirla in termini chiari e preannunciativi,
non interessa, dal punto di vista della teoria, che i drogati vengano chiamati
così, o tossicodipendenti, o devianti o quel che è; che venga loro ritirata la
patente per un mese invece che per sei; che vadano in comunità terapeutica (le
lucrose fabbriche di dementi ed integrati di cui i drogati forniscono la materia
prima) invece che in carcere; che vengano chiamati utenti invece che
delinquenti. Interessa invece stabilire che ci troviamo in una società drogata, drogogena e drogorepressiva, che la droga, proprio
per la sua proibizione, è il business del secolo, la merce per eccellenza, in
cui il valore di scambio si è quasi totalmente autonomizzato dal valore d'uso;
che droga‑Drago e Stato sono interconnessi e interdipendenti, entrambi
valorizzando la necessità del controllo etero ed autodiretto; che la
ricompattazione morale contro il Drago è il trionfo della glaciazione sociale;
che la droga appare "bella" perché la sopravvivenza sociale è orribile, grigia,
incolore; che non si va lontano, tranne che per i politici e le loro menzogne,
"studiando" soluzioni limitate; che se la droga ‑ intesa non come insieme di
sostanze ma come Drago ‑ è il male del secolo, con la degna coda spaventevole
dell'Aids, essa è la figlia naturale di cotanti genitori: la società del
capitale e dello spettacolo.
Per società drogata intendiamo una società
che si euforizza artificialmente, alterata nelle sue condizioni reali o
potenziali, che si intossica delle sue produzioni e ideologie e da esse viene
inquinata e condizionata, che è dipendente da quei meccanismi economici,
politici, spettacolari che peraltro la consumano e distruggono, che è incapace
di riconoscersi in quanto tale ‑ come comunità di esseri umani ‑ ma che, per un
processo di autoidentificazione, ha bisogno di alienarsi collettivamente, che ha
ridotto tutto a merce, anche le relazioni umane, amorose, amicali. Ebbene, la
società presente è una società
drogata.
Per società drogogena intendiamo una società
che, rendendo l'esistenza di tutti e di ciascuno di difficile sopportazione,
spinge gli individui a drogarsi, attraverso droghe considerate lecite oppure
illecite (quelle propriamente dette). Fra chi corre allo stadio o in discoteca
nella disperata ricerca di "dimenticare" almeno per un giorno, per un'ora,
l'insopportabile pesantezza della sopravvivenza e chi, perseguendo il medesimo
scopo, sniffa a cocaina o si inietta eroina, la differenza è assai più apparente
che reale. Spesso addirittura i fenomeni entrano in combinazione
moltiplicatoria. Una società che condiziona la domanda attraverso l'offerta,
seguendo precise regole mercantili, che produce droghe e le diffonde e che, con
la seduzione e contemporanea proibizione di quelle definite illecite, crea dei
mercati fittizi, gonfiati, drogati, per l'appunto, com'è quello delle cosiddette
droghe e favorisce così un'organizzazione di
accumulazione capitalistica
e di controllo sociale di tipo criminale, parallela a quella ufficiale, statale,
è una società drogogena. Ebbene le società presente è una società drogogena.
Per società drogorepressiva intendiamo una
società che persegue i consumatori di droghe classicamente intese, dopo aver
stimolato il loro diffondersi, la loro "necessità", il loro commercio, dopo aver
assunto in sé quella valorizzazione della merce che la droga evidenzia al
massimo livello. Senza la repressione delle droghe e dei loro consumatori, una
simile valorizzazione non sarebbe stata né sarebbe possibile, come sarebbe stata
impensabile la creazione di un simile, gigantesco indotto. La repressione, come
accresce smisuratamente il valore di scambio della merce droga (da cui
l'interesse delle organizzazioni mafiose che dispongono di molto materiale umano
da "sacrificare" e di cospicui capitali da far rendere al massimo, nonché di
strutture "clandestine" capillari, così come richiede il mercato), così fa
lievitare la loro appetibilità da parte di tutti quei soggetti che patiscono
questa società e che, attraverso il consumo di droghe, cercano un'ipotetica
trasgressione. In ultimo, ma non come importanza, la repressione consente il
permanere di un esercito di repressori di vario tipo e ideologia e delle loro
strutture, di veicolare ogni sorta di
ideologia conservativa sotto forma di impegno morale, di amalgamare, agglutinare
ed appiattire diversi soggetti sociali potenzialmente antagonisti sotto lo
stendardo della "lotta alla
droga", di rivalorizzare ideologie altrimenti intaccate dalla crisi (quella della famiglia,
del lavoro, quella religiosa ecc.). Ebbene, la società presente è una società
drogorepressiva.
Ed è appunto questa società, attraverso gli
Stati che se ne assumono la rappresentanza e gli uomini politici che, a loro
volta, vogliono condensare in sé l'essenza dello Stato contemporaneo, che si è
costruita il Drago per celare il più a lungo possibile la sua reale natura. Il
mantenimento del mistero sulle reali connessioni sociali, affumicate ed oscurate
dalle false rappresentazioni, e sull'essenza della società attuale è la
condizione indispensabile per la perpetuazione della società stessa. Ma il
mistero lo si conserva ed alimenta attraverso due tecniche spesso tra loro
combinate: quella del segreto in senso stretto, come ben sanno i vari "servizi", utile quasi esclusivamente
durante la preparazione e la commissione di determinate attività, e quella
dell'informazione eccessiva, sovrabbondante, nella quale dati veri e dati falsi
risultano così strettamente commisti che nessuno riesce più a districarsene e
soprattutto a prendere efficacemente partito.
Le singole operazioni vengono mantenute il più
rigorosamente possibile segrete; successivamente, attraverso i media, si lascia
filtrare l'informazione che esistono dei segreti‑ in una fase ulteriore, molti segreti, o presunti tali, vengono
" denunciati" (assai raramente svelati in senso proprio) pubblicamente, diffusi
massmediaticamente con sovrabbondanza di dettagli più o meno interessanti e, in
questo eccesso, "verum et falsurn coincidunt". Se Hegel poteva formulare la tesi
che il falso è un momento del vero e Debord, utilizzando e rovesciando
acutamente l'assunto, in termini contemporanei, che "nel mondo realmente capovolto il vero è un momento
del falso", noi possiamo affermare che la falsificazione del vero e
l'inveramento del falso sono momenti complementari della medesima strategia,
attuata attraverso differenti e complementari tattiche (il segreto, la
disinformazione, l'informazione eccessiva e indifferenziata), volta a mantenere
tutto e tutti nell'incertezza, sicché
l'unica "verità" venga costituita da ciò che appare più
"immediatamente".
Cosa appare più immediatamente? L'esistenza di
droghe e drogati, gli effetti nefasti, la presenza della Mafia e così
via.
Assume queste “come verità”
e in qualche modo chiunque le può toccare con mano, non è troppo lungo il passo
successivo, quello che conduce a parlare di Droga, del
Drago.
E le informazioni che vengono fornite sul
fenomeno tendono semplicemente ad accrescerlo. Altrettanto fanno le
deformazioni. Le informazioni trasmesse divengono inutilizzabili da ciascun
soggetto, mentre le deformazioni lo influenzano, lo condizionano. Gli elementi
informativi di cui si può venire in possesso si presentano scollegati, cioè
indisponibili ad un'analisi critica unitaria, mentre l'immagine del Drago, essa
sì, appare unitaria, anzi granitica.
Qualsiasi lettore attento può essere
"informato" della stretta amicizia e collaborazione fra l'attuale presidente
USA, Bush, e l'ex dittatore di Panama, Noriega, quando il primo era a capo della
CIA ed il secondo suo agente "mille usi", compreso quello di spacciare droghe,
se ciò serviva ad impinguare segretamente le casse del "servizio", nonché quelle
personali dei singoli. E se Noriega è stato davvero al centro di un grande
traffico di droga, come sostengono gli americani, che non hanno esitato ad
invadere lo stato di Panama, con migliaia di morti fra la popolazione civile,
per "assicurare alla giustizia" tanto criminale e, in realtà, per controllare
con maggiore sicurezza il decisivo canale nonché per colpire le indebite
ingerenze in traffici ormai consolidati e, di passaggio ma esemplarmente, per
mettere alla berlina il servitorello che si era voluto metter su bottega in
proprio, non lo era certo da qualche anno e, per giunta, all'insaputa degli
onesti yankees; certi ruoli non si improvvisano e Noriega il suo senz'altro l'ha
ereditato dal suo predecessore, insieme al potere. Così, chiunque può
logicamente dedurre che, per interessi politici ed economici, la CIA e Bush
fossero già da allora implicati in simili traffici con il Drago, anche se oggi
si ergono a San Giorgio internazionali.
Lo spettacolo montato successivamente, il
dispiegamento militare, l'invasione di Panama, l'arresto del "traditore" con suo
conseguente trasloco negli USA, non senza l'intervento della Chiesa cattolica,
sempre attenta ai maneggi terreni oltre che a quelli suppostamente celesti e, in
verità, inimitabile in quanto ad uso della doppiezza ed a sagacia spettacolare,
tutto ciò non ha fatto altro che riaffermare l'esistenza del Drago, e la
necessità della lotta contro di esso, invece di mettere a nudo le reali
connessioni, gli effettivi interessi in gioco.
Infatti, cosa se ne fa uno di tutte queste
informazioni note e notorie? Praticamente nulla. Il problema è stato spostato, l'attenzione sociale attratta
dalle roboanti dichiarazioni bellicose e moralizzatrici del governo americano,
da un lato, dalla "guerra" con i "narcotraficantes" dall'altro e, soprattutto,
dai guasti che effettivamente produce l'abuso di stupefacenti. Così nessuno, o
quasi, si chiede più cosa c'è sotto, chi c'è dietro, quali sono i meccanismi
innescati, quali i valori, materialisticamente intesi, posti in essere o messi
in discussione, vale a dire contesi.
L'opera di falsificazione è
completa.
Così l'informazione della passata amicizia e
alleanza tra Bush e Noriega viene fatta circolare perché già precedentemente sterilizzata, resa innocua al punto che
ben pochi ne possano trarre le dovute conseguenze. (Mentre, va da sé, gli
affari, quando avvenivano, erano coperti da un rigoroso segreto). I pezzettini
del mosaico sono così ben sparpagliati e frammischiati che riesce estremamente
difficile ricomporli e dare un effettivo senso al mosaico stesso. Così sfuggono
taluni, aspetti fondamentali della questione, sforzo ideologico e spettacolare
americano a parte: che gli USA hanno iniziato ad "indignarsi" quando il
cosidetto cartello di Medellín ha cominciato a produrre eroina, il cui controllo
sino ad allora era stato quasi esclusivamente in mano ai "servizi" americani;
che, fallite varie politiche per il controllo stretto del Centro e Sud America,
i cui esempi più clamorosi sono stati la risibile speranza nella forza dei "contras" in Nicaragua e l'appoggio
sfacciato a regimi fascisti in Salvador, gli USA dovevano in qualche modo
ingerirsi "autorevolmente", cioè "moralmente", in quello che definiscono il loro
"cortile di casa"; che dovevano
trovare un collante autoritario per vincolare a sé sempre di più i loro alleati
europei, scegliendo un "tema forte", come si usa dire, e difatti il signor Craxi
ha lanciato la sua campagna antidroga, meramente repressiva, dopo un lungo ed
accalorato incontro con Rudolph Giuliani, allora procuratore capo a New York,
successivamente sindaco trombato e, da sempre, strettamente legato a
quell'ambiente economico‑politico‑militare che ha come suo braccio armato i
"servizi" e che è difficile non definire di stampo
mafioso.
Ma il caso forse più sconvolgente, ed esemplare
per quanto riguarda la povertà di senso delle informazioni nell'epoca della loro
voluta sovrabbondanza, è quello di Khun Sa. Costui regna di fatto sullo "Stato degli Sban", a cavallo tra
Birmania, Laos e Thailandia, nel cuore di quello che è stato definito il "Triangolo d'oro". Si calcola che controlli l'80% della
produzione di oppio e della sua trasformazione in eroina. Questo signore, noto
da tempo al pari dei suoi traffici,
recentemente è salito sulla scena della spettacolo internazionale ' ha
raccontato i complessi rapporti avuti con uomini della CIA, della DEA ed
anche del Kuomintang, offrendo dati e nomi e cognomi di persone implicate nel
traffico internazionale, spiegandone le ragioni politiche. Ma le sue
affermazioni, quasi sicuramente veridiche, hanno avuto il peso di una piuma:
tutto si è risolto dentro H meccanismo dello spettacolo.
Anche in Italia queste informazioni sono state
offerte con abbondanza. Sono state effettuate trasmissioni su RAI 3, su Canale 5
e vari articoli sono apparsi su riviste ed anche su giornali quotidiani. Ma, a
quel che sembra, nessuno ne ha tratto delle conclusioni
logiche.
Le parole e perplessità dello stesso James Bo
Gritz, l'ex colonnello delle forze speciali statunitensi, conosciuto come il
"vero Rambo" (perché dalle sue "gesta" nel Viet Nam sarebbe stato costruito il
personaggio di fiction di Rambo), sono cadute nel vuoto. Questo Bo non
spicca certo per eccessiva intelligenza o perspicacia, ha il cervello imbottito
di stelle e strisce, però non è neppure totalmente rincretinito e, soprattutto,
ama svisceratamente la "sua" America e i "suoi" soldati. Né, ovviamente, gli
manca il coraggio. Solo che in questo caso ha avuto il coraggio
sbagliato.
Riassumiamo brevemente la storia per chi non la
conoscesse. James Bo Gritz, da autentico Rambo, soldato e patriota, ha impegnato
gli ultimi anni della sua vita nella ricerca dei militari americani ancora
prigionieri, soprattutto in Laos e Cambogia, dopo la fine della guerra del Viet
Nam. A questo fine, emarginato dal governo Usa che voleva solo far dimenticare
la guerra, suturare le non poche ferite e far risplendere nuovamente il sogno
americano, si era messo a cercare qualche alleato o qualche possibile aiuto in
zona. Nell'88, dopo vicissitudini inenarrabili e, per l'appunto, "rambiche",
riusci a contattare Khun Sa nel suo "regno" e lì gli capitò la prima sorpresa,
che per un animo semplice e militare come 2 suo, non doveva essere dappoco. Khun
Sa non solo lo ricevette, gli fornì le informazioni di cui era in possesso, ma.
forse perché ignorava la vera realtà politica americana o forse perché
sovraestimava i poteri di un "Rambo", gli fece addirittura una proposta
sconvolgente: era disposto ad abolire nel suo territorio la produzione di oppio
(che, si ripete, è pari all'80% della produzione mondiale) in cambio di aiuti
USA per la riconversione delle colture e del riconoscimento del cc suo" Stato.
Ma l'astuto orientale sin dall'inizio mise sull'avviso il muscoloso cocacolaro:
che stesse attento con chi parlava, perché i suoi migliori clienti erano sempre
stati proprio gli uomini della CIA, che già avevano finanziato con il traffico
di eroina la guerra in Laos e Cambogia, dopo che il Congresso aveva votato
contro i finanziamenti bellici. Bo Stelle‑e-Strisce, da buon americano, non
si diede per vinto, tornò negli USA, corse alla Casa Bianca dove raccontò tutto,
e nessuno manco gli diede retta. Il povero "Rambo" aveva scoperto un segreto di
Pulcinella e addirittura stava diventando fastidioso. Adesso Bo conduce una
guerra solitaria, "contro la droga" e per recuperare i "suoi" soldati ancora
prigionieri, ma il suo fallimento è assicurato e dimostrato proprio dal
"rilievo" che la società spettacolare ha concesso alle sue interviste e
dichiarazioni. Tutto è ormai sotto controllo, tutto
sterilizzato.
I notabili statunitensi non si sono neppure
presi la briga di smentire formalmente, ad alto livello, le dichiarazioni di
Khun Sa successivamente riportate da "Rambo" (e, sia detto di passaggio, è a
tale giustificata noncuranza che quest'ultimo, questo eroe cretino da fumetti,
deve la sua sopravvivenza) né si sono particolarmente impegnati affinché simili
rivelazioni venissero tenute nascoste. In effetti non ce n'era e non ce n'è
bisogno. L'anestesia preventiva aveva
già funzionato sull'informazione. Anzi si può affermare che l'informazione
stessa, intesa come tecnica di diffusione di fatti e notizie, tenda di per sé
all'anestesia preventiva del suo fruitore.
Ritorniamo un attimo a Khun Sa ed alle sue
dichiarazioni che appaiono del tutto verosimili, tanto più che già in passato
alcune indagini giornalistiche serie avevano documentato come la "via della
droga" (allora si trattava essenzialmente di morfina ed eroina; il boom della
cocaina è assai più recente) partisse dal famoso 'Triangolo d'oro" e come i suoi fili
venissero tirati direttamente da agenti americani (CIA e DEA). Dunque, un
lettore medio e di media intelligenza è tendenzialmente incline a ritenere vere
le informazioni di cui viene in possesso e nondimeno ciò gli serve a poco o a
nulla per un giudizio complessivo ed articolato sulla gestione del "fenomeno
droga", sulle sue cause, sulla nascita del Drago, sulla sua diffusione e
spettacolarizzazione. Questo perché nella notizia, anzi nelle notizie e nella
loro circolazione, sono stati già immessi sufficienti "anticorpi", elementi cioè
che ne sviliscono la credibilità effettiva e soprattutto la possibilità pratica
di trarne le debite conseguenze.
In primo luogo, Khun Sa è veramente uno dei massimi produttori e
venditori di droga e dunque viene "spontaneo" (vale a dire suggerito in modo che
sembri spontaneo) ritenere che qualsiasi sua asserzione sia strettamente legata
ai suoi specifici interessi, verso i quali si ha un moto di ripugnanza. Quindi,
le verità da lui eventualmente affermate sono già sottoposte anticipatamente al
vaglio morale, perdendo con ciò gran parte della loro carica pratica. In altri
termini, l'indignazione morale contro il Drago fa aggio sulla ricostruzione
delle effettive responsabilità, impedisce che si operino quei collegamenti
storici e logici che permetterebbero di capire quali sono le ragioni reali,
politiche, economiche e spettacolari, dell'iperdiffusione delle droghe a partire
dalla seconda metà di questo secolo, dal momento in cui gli interessi
capitalistici e statali hanno progressivamente abbandonato le "valvole di sfogo"
dello spreco assoluto determinato da conflitti mondiali, scegliendo quella dei
conflitti locali o delle "guerre interne". In altre parole ancora: Khun Sa e
altri cento dicano quello che vogliono, ma il Drago c'è, questo è quello che
conta, il resto sono inezie.
In secondo luogo, è altrettanto "evidente" (nel
senso che viene offerto alla pubblica vista, è mostrato, è manifesto) che gli
Stati, e i loro capi, si stanno impegnando nella guerra alla droga, nella sfida
al Drago. Questa "evidenza‑, fortemente impregnata di moralità e di difesa
sociale, è ciò che più nitidamente si staglia sull'immaginario collettivo e,
dunque, cancella a priori molte delle
domande che sarebbe lecito porsi: com'è stata possibile la nascita di un simile
fenomeno, a chi ha giovato e giova, i mezzi per combatterlo sono adeguati oppure
no, quali interessi manifesti ed occulti sono in campo, quante sono le relazioni
fra di essi e, più in generale, con la politica degli Stati, il controllo sul
pianeta, le esigenze di un mercato sempre più fortemente ideologizzato e dunque
t( drogato". Ma di fronte a tanta "evidenza", il cittadino medio e di medio
buonsenso, non tende a dubitare: questa è la 44 verità" di fondo, il senso, per
quanto lui può cogliere. E se effettivamente, come racconta Khun Sa e come si
evince da molti altri dati, nello sviluppo dei traffici delle droghe sono stati
implicati alti funzionari governativi, di questo o quel paese "all'avanguardia
nella lotta alla droga", ebbene saranno state delle singole deviazioni, non tali
da mettere in discussione l'insieme, il sistema, la sua logica, il suo modo di
operare.
In terzo luogo, ed infine, vi è la cultura
della s/connessione, che da sempre è stato un obiettivo dell'informazione
sovrabbondante e sprovvista di qualsiasi valenza critica. Vengono offerti dei
fatti, spesso addirittura dei colpevoli di essi, ma questi medesimi fatti
vengono isolati, castrati di quel col legamento analitico e critico che potrebbe
mettere in discussione il senso del sistema stesso e delle sue pratiche. Al
contrario, la pubblicizzazione di
talune magagne anche ai livelli massimi (per esempio, Watergate, Irangate o, in
Italia, la P2 o i "servizi deviati") favorisce l'immagine di credibilità del
sistema, la sua intrinseca controllabilità e dunque la sua democrazia. Ed è
proprio su questa "deviazione", intesa come margine di errore umano, sulle
ipotesi di deviazioni, per ciò stesso correggibili, che ottiene il consenso, e
dunque fonda il suo potere, quel capitalismo mondiale integrato di cui
parla Guattari e che, in modo molto più corretto teoricamente e pregnante,
Debord definisce come lo spettacolare
integrato.
Quelle che sono delle contraddizioni
intrinseche al sistema vengono offerte come contraddizioni marginali. I servizi
segreti deviati, gli abusi delle polizie, i capi di stato corrotti o
corruttibili, e via discorrendo, sono tutte deviazioni che ritrovano la loro
unità ed utilità nello spettacolo diffuso. A questo punto, tornando al tema,
data per scontata l'esistenza di un Drago e della necessità della Difesa
Sociale, cosa può importare che questo o quell'uomo di governo sia stato
implicato in simili affari? Una volta inghiottita l'esca, e cioè che la "piaga
sociale del XX° secolo" ha un'origine malefica indecifrabile, com'è per le
sventure naturali, l'importante è stringersi a coorte, salvare la società e le
sue regole, colpire i malvagi (di cui vi è addirittura una sovrabbondanza
esposta alla pubblica attenzione), recuperare i devianti ai valori sociali
predominanti, rispolverare i valori antichi su cui si è fondato lo "sviluppo"
della società: l'etica del capitalismo, prima e, poi, l'immagine
spettacolare.
Ne consegue, paradossalmente, che tutte le
‑informazioni" fornite su questo o quel traffico, su questa o quella
"corruzione", le varie "rivelazioni" o le grida d'allarme, le divergenze
politiche e massmediatiche, in realtà servono a costruire l'esistenza del Drago,
a diffonderne lo spettacolo quanto i letali risultati.
E’ la logica per cui gli avversari si ritrovano
alleati quando c'è o si inventano un comune nemico, anche quando questi è stato
da loro direttamente prodotto e voluto. I singoli commercianti o bottegai sono
disposti a scannarsi tra loro senza esclusione di colpi, pur di prevalere, ma
tutti soggiacciono alla stessa logica della merce e del commercio; tutti si
alleano momentaneamente, e fondano e rafforzano le polizie, di fronte al
"ladro", a colui cioè che, frutto diretto della logica della merce, serve per negativo alla sua
perpetuazione e riproduzione (la merce ha un tale valore che si può anche andare
in galera o morirne pur di essere compartecipi al suo
possesso).
Alla fine: tutti in comunità. Sociale,
politica, ecclesiale o terapeutica. Qualsiasi, purché fittizia. Purché il
terribile rischio della comunità umana reale e realizzata venga
scongiurato.
Non c'è stato tanto
abuso dei termini "comunità", "socialità", "umanità", "solidarietà",
"democrazia" quanto in quest'epoca che manifesta brutalmente la loro inesistenza
o scomparsa.
Navarro suonava il sax in
una band nella cantina, pezzi semplici, improvvisati, tanto per allenarsi alla
comprensione veloce con gli altri e dare spazio a tutti e quattro. Finivano
uscendo con le ragazze che si spartivano fino all'ultima birra all'alba. Ma
Navarro no, rimaneva in cantina, solo solo, con la sua Signora sdraiata sul
cucchiaino aspettando di essere sciolta e trasparente e calda, la sua puttana
calda su cui lavorava freneticamente con le agili dita di sassofonista, attento
come un seduttore a controllare il sudore delle sue dita, che non si rovesciasse
come gli succedeva di solito quando era in carenza, e stava lì, seduto ad
aspettare di essere qualcos'altro. Stava aspettando una modificazione dolce, che
gli alleggerisse la voglia di esistere e che gli permettesse di suonare senza
soffrire, senza che la sua anima sanguinasse, senza che gli altri dovessero
lamentarsi di lui. Con se stesso aveva trovato il compromesso perfetto: quando
era in carenza e la sua sensibilità era a fior di nervi, immaginava in note la
sua disperazione. Una musica nel cervello fino all'isteria, ma, per eseguirla e
sopportarla, l'accompagnava la sua Signora calda, la sua Signora, la sua bianca,
il suo maglione scaldaanima. Aveva trovato il ponte con se stesso, lo percorreva
ogni giorno. In calo e fuso, fuso e in calo. Si nutriva di se stesso e il suo se
stesso nutriva la Signora. E la Signora si pappava tutta la sua musica,
trasformando il suo jazz in anestesia ascoltabile e dormiva sul suo sax,
soffiava l'indispensabile, il consumabile istantaneo, l'accenno vago che
confermasse la sua esistenza. Aveva la noia e la sua soluzione, poteva
soffermarsi su qualsiasi pensiero e non sentire la viscosità delle sue
contraddizioni, né il respiro delle sue emozioni avvolte in quell'impermeabile
assonnato che era il suo corpo. Il tempo ucciso, le domande strozzate passavano
dentro lo stantuffo e si trasformavano in nulla incrostando il suo bel cervello
di tempo ucciso, di tempo senza memoria. E la mattina gli esplodeva in testa
dopo poche ore di sonno e si ritrovava nella palude delle lenzuola bagnate
d'acqua acida, divorato dalla ripetizione dell'attesa, l'angosciosa morsa di
lucidità che lo percorreva con un tremito, facendo rimbalzare tutti i suoi punti
più deboli, sia fisici che mentali.
Aspettando nell'insopportabilità del tempo che
Vicky arrivasse. Bella Vicky con la roba. Vicky suonava il campanello e Navarro
schizzava dalla sua cuccia con la coperta addosso, percorrendo 2 lungo,
interminabile corridoio senza che il sudore gelato lo pungesse di aghi di pelle
d'oca. Riusciva a rianimarsi e a
prendere forza solo se Vicky suonava alla porta con la roba in tasca.
«Preparamela tu Vicky io tremo
troppo. Fai in fretta piccola non mi reggo più», diceva passandosi una mano
sulla fronte per staccarsi i capelli bagnati. Interrogava i calli del suo
braccio, dove avrebbero permesso all'ago di entrare questa volta. Gli sembrava
che le vene gli rispondessero saltando quasi fuori dalle loro piste nere
callose. E Vicky, che sapeva la storia delle sue vene, si regolava come su una
carta geografica nota, piena di fiumi neri, scegliendo quella meno rischiosa, la
più praticabile e sicura, saggiando con i polpastrelli se erano calli quelli che
sentiva o se sotto c'era ancora un po' di vena disponibile. Gesti rapidi e
sicuri, quelli di Vícky, senza che la sua faccia muovesse un'emozione; levava
l'ago dal braccio e gli diceva: «Navarro ora sei al caldo, sei normale, stai
bene ora. Goditelo il flash. E’ buona la roba del Cinese, è puntuale come lui e
spacca il secondo cioè lo annienta, insomma fa del bene, fa del bene. Corretto
il Cinese ... ». Era tempo ormai che quando Vicky gli preparava la roba parlava
in continuazione scaricando l'ansia del raggiungere la sua vena. Chiacchiere,
concetti, commenti. Navarro l'immaginava come se stesse parlando al finestrino
di un treno mentre stava per partire dicendo le ultime cose prima che il cigolio
e lo strattone delle ruote se la portassero via. Prima che lo stantuffo
arrivasse a zero e di colpo si zittisse. «Per ascoltarsi dentro ‑diceva Vicky
con gli occhi chiusi‑ a diminuire di cinque chili di scimmia» , e ridacchiava.
«Capolinea», pensava Navarro guardandola, «il tuo capolinea è davanti alla mia
porta, il mio quando la apro. Tutti e due viviamo in una
stazione».
«Già, con un Cinese dall'altra parte», rispose
Vícky rauca. «Mi hai letto nel pensiero?», chiese Navarro aprendo gli occhi
allarmati con uno sforzo. «No, no Navarro, hai pensato a voce alta. Tranquillo,
no pasa nada, abbiamo l'Orient Express, il Cinese, l'Orient Express, Navarro.
Siamo in carrozza! ».
«No, Vicky, io sono in una sala d'attesa finché
tu non arrivi. Sono inchiodato al letto. Il tuo ottimismo mi fa incazzare è
esasperante il tuo ottimismo».
«Navarro, io non ce la farei senza, non ce la
farei a portarti la roba tutte le mattine. Il mio ottimismo ... Pensa Navarro, ma
come pensi che si stia nel metrò alle 6 di mattina? Come pensi che si stia in
pieno inferno, dove ti stritolano e gli odori umani ti danno la nausea, ti senti
pesante come il piombo e per un attimo invidi la gente che non ha la scimmia.
Come pensi che farei ad aspettare di avere la roba per buttarmi nel primo cesso
con la chiave, f armi e riprendere il metrò e galoppare fino a casa tua? Il mio
ottimismo ti fa stare bene ogni mattina, Navarro. Sono la tua infermiera, la tua
tetta calda, gonfia di roba. Il tuo ponte col fuori, il tuo pronto soccorso. Se
manco, sei fottuto Navarro, te la dovresti vedere con questo fuori così freddo,
con tutti gli esseri assuefatti te la dovresti vedere, Navarro. E per te non
sarebbe facile. No, no. Chiedere ed aspettare le ore al freddo trascinandoti in
cinque o sei posti diversi chiedendo sempre la stessa cosa mentre magari chi te
la deve portare è fuso e non si rende conto che lo stai aspettando. Magari lo
ritrovi due isolati dopo sdraiato fra due macchine parcheggiate con le labbra
viola, la lingua di cartone che gli sta andando in gola. Come stanotte con un
tipo. Sai, ho dovuto arpionargliela con le unghie per tirargliela fuori, la
lingua, avevo le unghie piene di sangue, aveva l'odore della morte in bocca,
l'alito fermo, i suoi polmoni si stavano bloccando e ti prende un conato di
rifiuto, il terrore che la morte ti comunica e tu non hai nemmeno una fiala di
Narcan e sei in carenza. 1 tossicomani intorno sono spariti tutti, schizzati
via, merde in proprio, loro! Ed una percentuale di infami. Ho sentito qualche
imbecille che farebbe il carabiniere così può sequestrare roba in
piazza.
L'adrenalina molte volte è migliore di
qualsiasi autocontrollo. Mi è salita tutta insieme contro quell'odore di morte,
l'ho sbattuto contro 2 cofano della macchina mandandogli a finire il cuore a
ballare dall'altra parte della cassa toracica, su e giù, gli urlavo di vivere,
figlio di puttana, di vivere, di respirare, respirare. Ecco cosa dovevo fare,
farlo respirare. L'ho sdraiato sul marciapiede, gli avrei prestato i miei
polmoni respirando con lui. Ma Bea non mi aveva mollato come credevo, era andata
a chiamare l'ambulanza. "Bea la sai
fare la respirazione? Aiutami". Ci
abbiamo provato ma non ci riuscivamo. Non potevamo mollarlo proprio
allora; l'abbiamo issato contro 9 muro per caricarcelo e bloccare una
macchina. Due non si sono
fermate benché la strada fosse stretta e andavano piano, ed è la mia isteria che
ha bloccato la terza con un calcio nella portiera. "Sta morendo, muoviti o ci
resta. t in overdose. Sta schiattando, vai più forte che puoi". Io ero fradicia
di sudore incazzata e Bea con un panno fuori ed una mano sul clacson, il tipo
era scioccato e muto, ma guidava velocissimo. Nella corsia all'ospedale sono
riuscita a controllare dai calzini in su che non avesse niente di strano, di
compromettente nelle tasche e nel portafoglio. L'autista balbettava spaventato,
aveva più pronto soccorso.
"Dottore, è in over": l'urgenza della nostra
voce non ammetteva repliche, dubbi o ipotetici shock anafilattici che hanno gli
stessi sintomi dell'over. E stato bravissimo. L'ha salvato, l'ha riportato in
vita, ha fatto in tempo ed è uscito dall'infermeria con la faccia di chi se l'è
vista brutta, ma brutta. Ho stretto Bea che è così minuta ma forte, ma il mio
calo mi ha afflosciato portandomi i reni nei calzini, il culo sulla panca e
tutto il resto in sudore acido. L'adrenalina era scesa, sparita, ero un sacco
vuoto bagnato di febbre. Il dottore mi ha guardata, ero imperlata di sudore fino
ai capelli, gli occhi liquidi e le pupille larghe.
"Fammelo
un pronto soccorso, dottore, non reggo più". Gli avrei baciato i piedi per la
sua conoscenza dei sintomi della carenza. Mi ha misurato la pressione nel
lettino vicino a quello del resuscitato che con gli occhi aperti mi guardava
chiedendomi come mai eravamo in ospedale, ma io non rispondevo limitandomi ad
aspettare che il dottore finisse di farmi l'intramuscolare di morfina mentre Bea
aspettava fuori. "Grazie dottore per la tua conoscenza", sai quante volte si
arriva in ospedale in piena astinenza e quanti dottori nella loro ignoranza o
cattiveria gratuita o vendetta contro questo 'pus' non riconoscono un calo e
diagnosticano: "No, tu vuoi solo sballarti, stai benone" e tu gli auguri che i
loro figli diventino tossicomani e te ne vai più disperato di prima mentre
immagini di chiudere quel dottore in una stanza, fargli roba per un mese di
seguito e poi troncare di brutto e fargli sentire cos'è un calo. Oppure che gli
dai una coltellata nel fegato o nei reni come quelle che senti tu mentre strisci
per i muri di questa città come un animale mezzo morto cercando roba insieme
alla voglia di ucciderti che hai. No, Navarro, li fuori strisceresti per i muri
scaraventandoti nello stridio del metrò. Le rotaie attraggono quando senti che
non hai scampo dalla tua scimmia. Navarro, nella tua malattia sei un
privilegiato. Non abbiamo scampo tutti e due, non abbiamo una soluzione per
vivere in un altro modo e se c'è dovrebbe essere distante da qui, dove il sole
possa scaldarci ed asciugare il nostro corpo ed il nostro cervello. Sarebbe già
una bella sfida decidere davvero e scegliere un posto per smettere. Un buon
posto per smettere.
Navarro, una decisione così, presa per bene e
li inculiamo tutti: strutture, comunità, assistenti sociali, medici, tutti,
Navarro, stan facendo carriera sulla nostra pelle! Il tossico rende. Siamo
materiale umano redditizio, serviamo anche agli esperimenti con nuovi farmaci;
se ti ricoveri per smettere ti fanno firmare e fai la cavia. No, Navarro,
l'unica è smettere da soli. Al sud, al sole. Troppi amici stanno morendo per la
roba, per l'aids.
Forse anche loro avevano un posto dove smettere
nel solaio della loro mente, ma non hanno fatto in tempo ad andarci. Si sono
fermati per sempre su una panchina, in silenzio, sugli scalini, dentro ad un
cesso, ad un letto, sul metrò, ovunque . In silenzio. Qualcuno non ha fatto
nemmeno in tempo a togliersi il laccio. Noi tossici siamo silenziosi e con poco
tempo. Siamo portati a pensare di avere tutto il tempo che vogliamo e così
rimandiamo facilmente la nostra coscienza e prendiamo finte decisioni, sempre
più in là, sempre il prossimo mese, il prossimo anno, il prossimo niente.
Navarro, non abbiamo che 2 vantaggio di sapere cosa ci aspetta attraverso tutte
le fasi, sapendo che il tempo passa lo stesso ed il corpo si rigenera. Dopo
l'aver scalato col metadone o con la roba stessa, tutti i pezzi si reincastrano
e ci si può stupire delle memorie che avevamo scordato di avere e delle
sensazioni vivide ritrovate e riprese in possesso. Il nostro male si guarisce,
si dissolve. La sappiamo questa resa dei conti. Siamo fottuti se non smettiamo.
Da quanto tempo non facciamo l'amore? E da quando non giochiamo più e non
scherziamo e non proviamo più niente che non abbia a che fare con la roba? lo
non ho ancora finito di giocare. Voglio giocare ancora,
io!
La roba ci scava fuori e dentro. Ci fa vecchi e
stanchi ed assomigliamo sempre di più a questa città e sempre meno a noi stessi.
Stiamo diventando indifferenti a tutto. Tutto dello stesso colore grigiomerda.
Col nostro io appallottolato in fondo a qualche vena tappata e sempre più
deboli. No, non possiamo darci in pasto così. Almeno questo atto d'amore ce lo
dobbiamo. Vorrai mica andare a produrre mobiletti o artigianato per le comunità
terapeutiche?! Sai che bello spalare la merda dei maiali e chiamarti numero 128
e dichiarare che sei felice e fare carriera per riconquistarti il tuo orologio
che ti hanno sequestrato insieme ai documenti appena entrato. E la sera, dopo
aver lavato 1200 piatti e aver mangiato i prodotti della "nostra terra", quello
stare tutti insieme e, come tristi boy‑scouts, battere le mani e cantare la
riconoscenza per quel moderno lager
dove la spersonalizzazione è
la prima allucinante regola. E tutto ben organizzato: c'è anche chi si
sostituisce al tuo pensiero. Mettigli in mano a quei bastardi un ragazzo debole
e provato dalla roba, impaurito, che magari non si stima più molto ed il
prodotto finito sarà un perfetto operaio lobotomizzato e tanto devoto da non
volere più tornare nel mondo. E meno perversa la galera, almeno le regole sono
chiare. Preferisco la fottuta galera, allora.
No, sarebbe proprio uno scorno, Navarro, dopo
tutto questo stare male finire in questa specie di succursali della Fiat! t come
finire in qualche pensionato per arresi, aspettando che la vita passi ... e loro
a fregarsi le mani contenti dei loro buoni investimenti. Il tossico rende, è un
buon business. Che rabbia, e che tristezza! Restiamo esseri umani, Navarro,
tagliamo la corda. Quando torneremo qui saremo più forti e nessuno ci avrà
amministrato un bel niente. Quando tutta questa gente saprà che abbiamo smesso
senza il loro controllo ci guarderà con diffidenza e con paura. Schiatteranno di
rabbia, non è bello perdere clienti per nessun Muccioli della terra: gli faremo
ingoiare i loro badili spalamerda e tutto il resto.
Ci preferirebbero morti ad ingrassare le
statistiche, saremmo più comodi che vivi, pensanti e incazzati fuori dal loro
controllo. Andiamocene Navarro, abbiamo ancora un pezzetto di noi stessi.
Andiamogli in culo».
Qui finisce il racconto o il resoconto o il
resoracconto o il resoconto reso racconto. Ma, naturalmente, non la resa dei
conti. Perciò, ad uso dei naviganti , si offrono tre differenti soluzioni o
conclusioni o uscite. Ciascuno scelga la più affine alla sua sensibilità, alle
sue voglie, alle sue inclinazioni. 0 ne scelga due o anche tre (il lettore
problematico).
a)
Navarro si tirò su con una fatica dell'ostia.
La testa gli cadeva sul petto, la roba era buona davvero, ma la voglia di
alzarsi ancora di più. «Sì, andiamocene. Però subito, perché dopo è troppo
tardi, lo sai che da anni viviamo sul lastrico delle buone intenzioni». Parlò
sottovoce, non c 5 era bisogno di proclami, eppoi la lingua era ancora
impastata, la roba era buona. Vicky si infilò il suo giubbottino quotidiano
senza parole, era già una fatica muoversi.
Faceva freddo fuori, quando si ritrovarono
magicamente in strada. Una voglia pazzesca di tornare in casa. Però la casa era
morta, bisognava pur seppellirla. Anzi, che la seppellissero gli
altri.
«Quanti soldi hai?», chiese Vicky in un sorriso
quasi ironico.
Navarro si fece serissimo, concentrato come
quando maneggiava il suo sax o scaldava la Signora o faceva all'amore. Ispezionò
con attenzione tutte le tasche, e ne aveva molte, sapendo che in casa aveva
lasciato tanti sudori acidi ma sicuramente non soldi, la sua unica proprietà era
il suo corpo, arredi connessi, più il sax che però era da un'altra parte. «Beh,
mica tanti.», concluse, «lire quarantaduemila trecentocinquanta, e si notino le
cinquanta».
«Io c'ho un cento tutto intero», soffiò
maliziosamente Vicky, «sai, era per il prossimo round, ma se abbandoniamo la
partita ... ».
Navarro sorrise. «Maledette donne
accumulatrici, per fortuna che ci siete. Quando metterò la testa a partito ti
nominerò segretario».
Il sax, bello e lucido, non lo andarono a
raccogliere. Intanto, a Giorgio sarebbe rimasto un ricordo sonoro, anzi
suonante, eppoi il Cinese non sapeva suonare. Soprattutto bisognava prendere il.
treno subito, prima che la voglia diventasse nebbia acida
b)
«Già gli siamo andati, in culo», scandì
Navarro, quasi fosse uno slogan in una manif , «perché», continuò, «siamo
perfettamente, ontologicamente inutili e, quando ci mettiamo, pure dannosi». E,
con una piccola smorfia, quasi un sorriso, quasi una ferita, «prima che smetta
io, vita mia, gli faccio smettere al Cinese. Come dicevi? Che il Cinese è uno
corretto? Un Cinese corretto con il sax, ti regalo per il tuo prossimo
noncompleanno, mia dolce Alice». Si girò con un sorriso, o una smorfia, o una
ferita.
Nel quartiere se ne parlò a lungo. L'opinione
che prevaleva era: «mah?». 1 giornali, con il loro noto gusto e quel
rabbrividente senso dell'umorismo che li distingue, titolarono: «Il giallo del
Cinese», «Lo chiamavano Cinese, chi l'ha ucciso? Siamo in pieno giallo», «Mauro,
detto il Cinese: è già giallo» (dove, sia detto tra noi, la cacofonia la vince
addirittura sul cattivo gusto).
Insomma, 'sto Cinese ‑ in realtà Mauro Agostini
o, per dirla meglio e più ufficialmente, Agostini Mauro, nativo di Bruzzano,
provincia di Milano, però con gli occhi un po' immandorlati o forse un'epatite
pregressa ‑ fu trovato morto nel suo miniappartamento del suo maxiresidence. Una
bella botta sulla testa, forse anche due o tre. Finis. Era tornato in polvere, dove non aveva mai smesso di
restare.
Gli
acuti inquirenti hanno
parlato di ennesimo morto nella guerra per il controllo della droga nella
città, ma non possiedono, purtroppo, altri dati; i giornali si sono dati al
folklore, giocando sul nomignolo, "il Cinese", ricordando non solo che era un
pregiudicato per spaccio ma anche che in passato aveva posseduto una "Mercedes
Pagoda", che adesso girava su un fuoristrada "Toyota" e giù giù nell'umorismo da
cortile. Nessuno escludeva lo scopo di rapina, visto che non fu rinvenuto né un
grammo né un soldo né un gioiello.
Quelli del quartiere dicono che ridevano, che
erano in due, uomo e donna ‑ o al contrario, se si preferisce ‑, e
chiacchieravano e ridevano quella mattina presto, che fu trovato morto il
Cinese, anzi il signor Mauro Agostini, anzi, Agostini Mauro,
pregiudicato.
c)
Ma Navarro dormiva, non rispondeva. Vicky si
alzò in si lenzio, rimaneva un po' di roba, quella per dopo e Navarro dormiva,
non rispondeva, tanto valeva farsela. Non si sarebbe lamentato, Navarro, poi
gliene prendeva dell'altra o davvero partivano per il sole, o magari restavano,
tanto il sole c'è dappertutto, in giro.
Dai verbali di polizia:
«Alle ore 21,30 del 12 ottobre del corrente
anno, questo Commissariato venne allertato, da parte di persona rimasta anonima
e che si definì genericamente "vicino di casa" , che qualcosa di strano o
illegale era avvenuto al numero 33 di via De Amicis, nell'alloggio sito al terzo
piano, porta destra. Il verbalizzante, brig. Onofrio Gennari, non appena venuto
a conoscenza del sospetto di cui alla telefonata, si recò immediatamente sul
luogo, in compagnia degli agenti Agostino De Nellis e Fabio Padovan (autista).
Poiché nell'alloggio segnalato nessuno rispondeva, nonostante i ripetuti
scampanellii e i colpi alla porta (con le nocche della mano) effettuati dal
verbalizzante e dagli altri colleghi, si consultò via radio il Commissariato e, di comune accordo,
venne deciso di sfondare la porta, che peraltro non oppose alcuna consistente
resistenza. Colà entrati, ci
ritrovammo in numero due stanze di abitazione, sporche e disordinate ma senza
segni apparenti di una precedente colluttazione. Vi giacevano due persone, ormai
prive di vita, come il verbalizzante potè riscontrare personalmente e quasi
immediatamente. Un uomo, dell'apparente età di anni 25‑30, giaceva riverso su un
divano, come se dormisse, accartocciato o, se ci è concesso dirlo, in posizione
fetale. Una donna, sicuramente di sesso femminile, dell'apparente età di circa
anni 20, era immobilmente seduta su una sedia con il capo reclinato sul
tavolo.
Più tardi entrambi i soggetti furono
identificati e trattasi esattamente di Antonio Ansaldi, di anni 27, detto
"Navarro", di professione musicista ma, per quanto risulta a questo Ufficio,
nullafacente, con precedenti penali per furto, rapina, detenzione e spaccio di
sostanze stupefacenti; e di Vincenza Lamanta, di anni 23, detta 'Ticky",
incensurata ma già schedata presso questo stesso Ufficio come prostituta e
tossicodipendente.
Le salme vennero prontamente trasportate, per i
doverosi accertamenti, presso l'Istituto di Medicina Legale, dove, come in atti
documentato, venne redatto un certificato di morte, per entrambi, a causa di una
ingestione eccessiva, presumibilmente per via endovenosa, di sostanza
stupefacente, nella fattispecie eroina.
Non avendo riscontrato alcuna evidente traccia
di violenza sulle persone o anche sulle cose, il verbalizzante, convenendo così
con il giudizio del perito dell'Istituto di Medicina Legale, ritiene di poter
affermare che il decesso dei suddetti è dovuto a cause accidentali o ‑naturali",
se ciò può dirsi, e più precisamente a sovradose (o overdose) di eroina, senza
che vi sia stato dolo da parte di terzi.
Nondimeno questo Ufficio sta attivamente
indagando per individuare e assicurare alla Giustizia il venditore o i venditori
della suddetta sostanza, causa diretta del decesso dei
verbalizzati.
Il verbalizzante è convinto di poter fornire
entro breve tempo notizie rassicuranti a codesto Ufficio e, intanto, si firma,
brig. Onofrio Gennari»
Il Corriere della
Sera:
«Si sono o li hanno uccisi?
Due altri morti per overdose» Il Giorno:
«La morte corre nella vena.
Due morti» Il Giornale nuovo:
«Si muore sempre di droga»
La Stampa:
«Tragico errore o suicidio?
0 era "roba" tagliata?» La Repubblica:
«L'ultimo concerto. Muore
per overdose, con la fidanzata, "Navarro", apprezzato sassofonista
jazz»
Il
Manifesto:
«Ciao Navarro. Se tu hai
perso, non sarà Bettino a vincere»
Sembra che Beatrice Ferri,
detta Bea, reperita e interrogata dal giudice inquirente, dott. Adelmo
Gianquinto, abbia dichiarato, fra l'altro: «Ma che suicidio, che roba tagliata,
che overdose! t la vita che uccide, cioè l'Orient Express!».
(sul
Drago e i suoi dintorni)
A differenza di molte anime belle, non mi
scandalizza particolarmente che oggi, sull'onda della "linea dura", si vogliano
mettere in galera i drogati o, come si preferisce dire, i tossicodipendenti. I
quali, sotto qualsivoglia regime legislativo, in galera ci sono sempre finiti,
prima o poi, per un tempo maggiore o minore, a meno che non possedessero
ascendenze influenti, ricchezze proprie o famigliari, o diventassero attivi
collaboratori delle polizie. Questo per una ragione di palmare evidenza: sul
libero, ancorché proibito, mercato delle droghe, i prezzi sono assai alti; chi
si vuol dedicare con costanza al loro consumo è oggettivamente obbligato ad
infrangere con altrettanta costanza il codice penale, unico modo per tentare di
far quattrini alla svelta. L'infrazione ripetuta del codice penale porta in
galera: le probabilità e le organizzazioni poliziesco‑societarie ti sono contro.
Non c'è scampo: il drogato è carne di galera. 0 da marciapiede (ma le due cose
non si escludono, anzi si convalidano mutuamente).
Perciò mi lasciano abbastanza indifferente le
lamentazioni pseudoumanitarie di chi non vorrebbe vedere in carcere il drogato,
ma sì in specifiche "comunità" sedicenti terapeutiche o di recupero, dove subire
un'evidente lagerizzazione e pure il lavaggio e il risciacquo dell'anima.
Infatti, oltre a costituire un colossale giro d'affari ‑ ormai di miliardi di
miliardi, su scala mondiale ‑ le "comunità", farsa beffarda d'ogni reale
comunità, sono deputate proprio a questo: essere prigioni più efficienti, perché
non si limitano a rinchiudere i corpi, ma tendono anche a riciclare e
condizionare le menti degli sfortunati che vi incappano, che, non a caso, a
volte cercano di "liberarsi" nel modo estremo, il suicidio, come certi episodi
recenti avvenuti in talune comunità italiane hanno ben
dimostrato.
Dunque, quello che mi scandalizza ed indigna
davvero, sempre a differenza delle anime belle, è la stessa esistenza delle carceri e delle
pene, l'accettazione socialmente diffusa della loro "funzione", vale a dire
della loro utilità. Mi scandalizza che chiunque vi possa venir condotto e
rinchiuso, a qualsiasi titolo.
Per il cosiddetto drogato, questa nuova figura
sociale e simbolica, polluzione dell'inquinamento sociale e suo emblema, mi
indigna che l'alternativa fra "duri" e "morbidi" sia fra la galera pura e
semplice o la prigionia più raffinata delle comunità, questi centri di
condizionamento psichico, di normalizzazione, di reclutamento ideologico, rette
per lo più, e non a caso, da intraprendenti preti alla ricerca di sbandate
greggi e, soprattutto, di benemerenze e riconoscimenti, assai più presso la
divinità dello spettacolo che davanti al loro dio, o da affaristi
dell'umanitarismo e della sofferenza altrui che, con buona scelta di tempo,
hanno saputo crearsi un business altamente redditizio: mano d'opera a basso
costo e spesso pagante, interventi istituzionali ampi e crescenti, un giro
d'affari di miliardi. t di tutto questo che è tempo di cominciare a
scandalizzarsi ed indignarsi.
Tanto meno mi sorprende che nell'ultimo piano
americano contro la droga, nel "fronte interno", venga previsto l'internamento
coatto dei "drogati" in campi paramilitari e di lavoro forzato, entrambi
"riabilitativi", dove finalmente quei disgraziati capirebbero cosa significa
essere veri uomini e, per giunta, americani ‑ cioè dei decerebrati attivi e
polivitaminici. La tesi, seppur rozza, è semplice e nessuno sinora l'ha contestata (al
massimo qualcuno, più "illuminato", ne contesta le forme, i mezzi, i metodi): il
recupero del drogato deve passare attraverso la sua assimilazione alla società e
ai valori dominanti, alla sua omogeneizzazione ad essa e ad essi. Perché
stupirsi, dunque se si vuole imporre una sorta di servizio militare particolare
e l'ergoterapia, con l'irrogazione di dosi immodiche di lavoro, dopo che i
cardini stessi di questa società sono gerarchia, autorità, produzione e consumo
"sudato"? t che in questa società deve essere rifunzionalizzato l'anomico, in
questo caso il drogato.
Scandaloso e ripugnante è che tutto ciò venga
ancora proposto, imposto e accettato, per "sani" e per "drogati", e che anzi la
gente ne discuta prendendosi reciprocamente sul serio.
* * *
Recentemente, sul "Wall Street journal" è
apparso uno scambio di lettere tra Milton Friedman, economista della scuola di
Chicago e premio Nobel per l'economia nel 1976, da anni schierato su posizioni
"liberiste" e favorevole alla liberalízzazione della droga, e Willíam Bennett,
l'ideatore e responsabile del cosiddetto "piano Bush" contro la droga che, anzi,
almeno negli USA, viene conosciuto come "piano Bennett".
Questo scambio di '1ettere aperte" è stato
pubblicato anche in Italia, dal quotidiano "La Stampa" di Torino e di Agnelli,
giornale che cerca di distinguersi per le sue posizioni "problematiche"
sull'argomento, al punto da attirarsi gli strali dell'eccitabilissimo onorevole
Craxi, anche se vi è chi sospetta che questa polemica altro non sia che parte
dell'affrontamento fra lobbies diverse e spesso contrapposte, come quelle che
fanno rispettivamente capo alla Fiat e al Garofano, senza che questo comporti
un'effettiva opposizione di interessi; l'opposizione riguarda la gestione degli
interessi stessi, vale a dire "chi comanda".
In questo pubblico e artificioso epistolario,
non mi ha certo colpito la, peraltro legittima, discordanza di opinioni tra
Friedman e Bennett riguardo ai mezzi da adottare nella "lotta contro la droga",
giacché si sa che, nel mercato delle opinioni, tutte sono legittime, o aspirano
ad esserlo, tutte sono tollerate o tollerabili, spesso addirittura stimolate, purché rimangano tali, cioè delle mere
opinioni.
Mi ha semmai irritato un po' la fraseologia utilizzata dai pretesi contendenti, ancheggiante fra l'enfasi e la ridondanza, spesso al confine del delirio, e la falsa umiltà, la modesta ragionevolezza. Ma in fondo era un'irritazione relativa perché tutti ben conosciamo la melliflua arroganza di simili prose ufficiali, e non c'è troppo da stupirsi o indignarsi.
Ciò che invece mi ha davvero colpito è stato il
sostanziale accordo tra questi "acerrimi" duellanti, accordo sul senso del
fenomeno, seppur non sui metodi adeguati per fronteggiarlo e risolverlo.
Entrambi, insomma, parlano del Drago, lo dipingono come un virus alieno che
proviene chissà da dove e chissà perché per intaccare una società che,
altrimenti, sarebbe sufficientemente ordinata, accettabile. Per erodere dei
valori che entrambi i contendenti riconoscono come comuni o addirittura
universali. E la difesa della società, di questa società che sembra stare a cuore
ad entrambi ed ai loro partiti (in senso lato); che i morbi sociali, e la droga
fra essi, siano intrinsechi a questo assetto societario, al tipo di produzione,
di consumo e di spettacolo che viene socialmente imposto, ebbene tutto questo
sembra non interessarli, quasi non esistesse. E la diatriba, dunque, riguarda
soltanto l'uso dei mezzi; una diversa filosofia, certo, ma nel quadro
complessivo della difesa ad oltranza dei valori sociali "di fondo", e di quelli
americani innanzitutto.
"Caro Bill" e "Caro Milton", iniziano le loro
lettere, ma traspare qualcosa di più della formula di cortesia che potrebbe
anche essere soltanto di maniera o addirittura ironica. In realtà, viene
veicolato un messaggio piuttosto preciso: in democrazia è permesso anche il
dissenso più aspro perché è già dato per comunemente accettato che sulle
questioni di base ‑ la democrazia, per l'appunto, e i suoi meccanismi regolativi
‑ si è comunque d'accordo, dalla stessa parte. L'esempio più alto viene dato dai
Parlamenti e dallo spettacolo che offrono. Possono esistere anche situazioni
limite, come in Italia, in Francia e in alcuni altri paesi, dove sono
compresenti formazioni che si definiscono di estrema destra ed altre di sinistra
estrema; quello che importa è che siano tutte riunite sotto lo stesso tetto,
seguendo le stesse regole del gioco, lanciando tutte insieme un identico
messaggio: dentro il meccanismo, e
attraverso la sua accettazione, i margini di divergenza possono anche essere
ampi, a patto che non si trasgrediscano le regole di base; fuori, esistono soltanto il terrorismo,
la follia, la criminalità, la malattia, la demenza.
Nella manipolazione e codificazione del
simbolico, lo stile", in questo caso l'uso dei toni, ha un'importanza decisiva.
Così Friedman, campione della forza della ragione, usa un tono dimesso, a volte
quasi implorante; emblematicamente suggerisce: le mie ragioni sono tali che
posso permettermi di pregarti, di implorarti, "caro Bill" (William Bennett),
affinché tu le riconosca ed utilizzi, per il bene comune, degli Stati Uniti e
dell'umanità tutta.
Bennett, invece, si è deputato ad essere
campione della ragione della forza e, quindi, a dispetto del "caro Milton", è
sferzante, aggressivo, tracotante; non spiega od argomenta, ma ordina ed impone
e fa capire chiaramente che può permettersi di
farlo.
Ma,
ripeto, in questa schermaglia
anche aspra, mai e poi mai esce un barlume di critica sociale, mai e poi mai ci
si interroga sui veri perché della diffusione delle droghe e, benché non si
parli d'altro che di pretesi rimedi, non ne viene offerto alcuno che tocchi la radice vera del
problema.
Scrive Friedman: 'Tei non si sbaglia quando ritiene che la droga sia una piaga che sta devastando la nostra società. Lei non si sbaglia a ritenere che la droga stia facendo a pezzi il nostro sistema sociale, rovinando le vite di molti giovani e imponendo pesanti costi a coloro che sono i meno fortunati tra noi. E lei non si sbaglia quando pensa che la maggior parte dell'opinione pubblica condivida le sue preoccupazioni. Infatti, lei non è in errore nel fine che vuole ottenere".
A parte lo stile retorico e mieloso, queste
affermazioni sono degne di interesse per il senso che esprimono. La droga è una
"piaga" della nostra società, cioè una sorta di malattia contaminante, una
specie di peste che aggredisce quella società che è invece "nostra", cioè di
tutti noi, una società sostanzialmente valida e positiva se non ci fossero
questi "accidenti", fra cui la droga. La droga sta facendo a pezzi il nostro
sistema sociale: nessun dubbio, quindi, sull'intrinseco valore del "nostro
sistema sociale", nessun dubbio che, invece, sia proprio esso drogato e
drogogeno, che la "droga" sia un colossale affare di Stato, e attraverso il
proibizionismo, che valorizza smisuratamente e artificiosamente la merce, e,
ora, con e per questi programmi repressivi su vasta scala. La "NationalDrug Contro 1 Strategy ",
annunciata da Bush il 6 settembre 1989, non esprime soltanto una precisa volontà
politica degli USA di interferire nelle politiche dei paesi terzi (e
terzomondiali), ma anche quella di mettere in piedi un imponente "affare" in
senso strettamente economico: le strutture repressive programmate richiedono un
grande dispíegamento di personale e di mezzi, diventano di fatto, un'industria.
t l'industria del recupero, se così la si vuole definire ed a dispetto dei mezzi
usati (nel Delaware, solo il rifiuto da
parte del "parlamento" statale ha impedito che diventasse legge la pubblica fustigazione dei
consumatori di droghe!). Ma un'industria agguerrita, che naturalmente non può né
vuole farsi mancar la materia prima: i drogatí. Quando si afferma che queste
strategie sono drogate e drogogene, non si vuol fare della banale propaganda: è
esattamente così. Il "drogato" diventa un soggetto importante in queste economie
riproduttive; consuma e diffonde una merce "drogata" nei prezzi, costruisce un
mercato sommerso di lavoro nero o illegale, è la base di strutture pubbliche e
"assistenzialí", nonché repressíve, che occupano migliaia di "operatori";
consente una produzione bellica e, più in generale, una struttura
militarpoliziesca giustificata proprio dalla "guerra alla droga". Il ciclo si
chiude.
Può forse stupire che proprio un
antiproibizionista, e per giunta economista riconosciuto, qual è Milton Friedman
non sappia cogliere gli aspetti economici
di questa merce feticcio e del feticcio della sua pretesa repressione,
accettando implicitamente le banalità secondo le quali la droga è un "male",
arrivato chissà come e chissà da dove, per chissà quale malefico influsso.
Insomma, il Drago.
Ma non ci si può stupire più di tanto, dato che
è proprio la volontà di offuscare o celare i meccanismi di autovalorizzazione
del capitale ad essere I"'anima" degli economisti e dell'economia, ridotta a
supporto del "management", da quella
Il
scienza" che
pretendeva di essere e che, nelle sue espressioni politiche e critiche, fu. E
proprio là dove il carattere di feticcio della merce risalta con maggiore
evidenza, come nel caso della merce
droga, là devono venire compiuti i maggiori sforzi per occultarlo, per
dissimulare la natura di merce della droga, trasportandola su terreni "morali",
"sociologici", "
politici" o
addirittura militari.
William Bennett risponde da par suo, con
l'arroganza che il potere gli conferisce. Si permette di scrivere delle
sciocchezze che forse neppure Reagan , travestito da cow‑boy, si sarebbe
consentito e maggiori addirittura di quelle a cui si lasciano andare San Giorgio
Craxi e i suoi garofani chierichetti.
Benché
le questioni essenziali siano altre, e ben
esplicitate, come si vedrà in seguito, mi piace citare un paio di queste
grossolanità per il puro divertimento del lettore ironico.
"Nei Paesi che producono oppio e cocaina, il
consumo della droga tra i contadini che la coltivano cresce costantemente".
Ebbene, il senso del ridicolo pare essere assolutamente estraneo al "caro Bill"
o, viceversa, possiede un sense of humour
così macabro che a me sfugge. La storicamente famosa "guerra dell'oppio",
voluta dalla Compagnia delle Indie per introdurre forzosamante l'oppio
(coltivazione e consumo) in Cina e in tutto l'Estremo Oriente sparisce con un
colpo dell'autoritaria, sebbene non autorevole, spugna del caro Bill. I
contadini, avendo libero accesso all'oppio (e non perché economicamente
costretti alla coltivazione intensiva del "papaverus albus"!), si lasciano andare
a ogni nefandezza, e si drogano, si drogano. (A titolo di curiosità, si può
riferire che recenti studi, non a caso diffusi soltanto in ambienti
"scientifici" ristrettissimi, hanno rilevato che mediamente la vita di un
fumatore di oppio in "ambiente naturale" giunge ai 75‑80 anni, toccando anche
punte più elevate, quando l'inizio dell'abitudine è intorno ai 14
anni.
Troppo facile risulterebbe l'ironia intorno alla vita media del consumatore di
derivati dall'oppio in "ambiente innaturale", in specie nelle metropoli, e di
qualsiasi cittadino urbano, seppur normalissimo).
In Perù e in Bolivia e, più tardivamente, in
Colombia è stato uso costante facilitare, favorire, stimolare la masticazione
delle foglie di coca da parte dei contadini affinché sopportassero meglio la
fatica. Non solo. Ma nel processo di raffinazione che conduce alla cocaina in
cristalli, rimane un "residuo", una pasta di coca assolutamente invendibile nei
paesi "sviluppati". Questo residuato, perché di ciò precisamente si tratta,
viene offerto ai contadini in
cambio
di una
parte maggiore o minore del salario che dovrebbe essergli erogato, a seconda del
grado di assuefazione maggiore o minore del contadino stesso. Eggià, caro Bill,
che i contadini si drogano!
L'altra meravigliosa perla è la seguente: "Il
professor James Q. Wilson sostiene che negli anni in cui l'eroina era legalmente
prescritta dai dottori in Gran Bretagna, il numero dei drogati aumentò di quattro volte. E dopo la fine del
Proibizionismo ‑un'analogia spesso ricordata ma equivocata il consumo di alcol
aumentò del 350%" Sembra quasi tempo perso rispondere a simili asinerie, ma lo
faccio ugualmente, per il lettore suggestionabile da simili "dati" e soprattutto
per i San Giorgio scorrazzanti anche in questa penisola, brandendo tali
bestialità. Ricordiamoci come nacque l'eroina: venne prodotta dalla Bayer (si
trovano ancora delle curiose pubblicità dell'epoca) e pubblicizzata proprio
come un
analgesico più potente della morfina, allora in uso, e con un enorme vantaggio,
quello di non procurare assuefazione, come invece era stato già rilevato per la
morfina. Non conosco gli studi del professor James Q. Wilson sulla Gran
Bretagna, ma è assolutamente certo
che in
tutta Europa (Francia, Germania ecc.) la prescrizione medica dell'eroina, e
dunque il suo uso, conobbe un successo travolgente, riducendo la prescrizione
della morfina a casi particolari (per esempio, gli infarti o le malattie
cardiache) e per lo più in combinazione con altre sostanze come l'atropina. Non
so rispetto a quali "drogati" di prima
il
numero sia
aumentato di quattro volte; forse se si va da zero a quattro, poiché "prima"
l'eroina non era prodotta, diffusa, prescritta. Peraltro, come i medici
avrebbero potuto mettere in dubbio l'onorevolissima parola della premiata Ditta
Bayer? Solo successivamente, quando ci si accorse che il tasso di assuefazione
prodotto dall'eroina era enormemente superiore a quello derivato dalla morfina,
le prescrizioni mediche furono più "mirate", vennero studiati prodotti di
sintesi (come il Palfium o l'Eucodale) che, infine, si rivelarono ancor più
tossici dell'eroina! In ogni caso, la quantità dei tossicodipendenti era irrilevante,
soprattutto
dal punto di vista sociale, anche perché i (pochi) tossicomani potevano
tranquillamente rifornirsi del prodotto necessario, più o meno come oggi avviene
per l'Optalidon o l'aspirina. In realtà, il "salto" avviene in due date precise:
nel 1954,
quando gli
USA, forti della guerra vinta, degli aiuti economici irrogati ecc. impongono a
tutti i loro partner politici, Italia compresa, una legislazione fortemente
proibizionista (parrebbe per creare una valorizzazione di un mercato ancora
debole!) e negli anni dello sforzo bellico americano nella guerra del Viet Nam:
è il periodo della crescita esponenziale della vendita e del consumo di eroina.
Ed è ormai risaputo e documentato come i "fondi neri" venissero elargiti, e
dunque prima accumulati proprio
con il
traffico di eroina, da parte di enti istituzionali
americani.
L'analogia con il Proibizionismo, evocata da
Bennett, salta agli occhi. Ma davvero "equivocata" la suggestione che se ne
trae. Finito il Proibizionismo (la "ley seca", cioè la legge che ti lasciava
all'asciutto, come dicono bene gli spagnoli) ci sarebbe stato un incremento del
350
per cento
nel consumo di alcol. Sinceramente, mi stupisce che non sia stato maggiore.
Ragioniamo: durante il Proibizionismo il consumo di alcol doveva essere zero e
quindi il consumo registrabile poteva essere solo quello dedotto dalla quantità
di alcol sequestrato, e sappiamo benissimo (chi non ha visto almeno un film
sull'argomento?) come i legami tra racket e polizia fossero strettissimi. Ad
occhio, possiamo dire che l'alcol sequestrato non superasse il 10 per cento di
quello realmente venduto, anche senza voler contare le distillerie a gestione
familiare. Allora: secondo stime basate sui sequestri, si dedicavano all'alcol,
poniamo, 1.000 americani. Ma abbiamo detto che questo rappresentava all'incirca
il 10% della realtà, e che dunque, di fatto si abbandonavano ai piaceri alcolici
10.000 americani. Questo, ovviamente, per gli abituali. Ai quali va aggiunta una
quantità almeno cinque volte maggiore di occasionali, chi si fa il bicchierino
ogni tanto o la birretta. Arriviamo a 50.000. Sempre basandoci su questi dati
ipotetici, ci vien detto che si vide un incremento del 350% ufficiale. Ma a partire dai 1.000
iniziali, ovviamente. Il che ci darebbe 4.500 consumatori d'alcol, 45.500 in meno delle stime percentuali
"realistiche" date da noi più sopra, riguardo al periodo del Proibizionismo.
Alla fine della fiera, il terribile incremento sbandierato dal caro Bill, si
rivelerebbe un impressionante decremento, cosa che stento a credere e che mi
auguro falsa, ben conoscendo le virtù delle alcoliche bevande. Dove sta il
trucco, dove il sofisma? La verità è, come quasi sempre, semplicissima. Bennett
scrive delle stupidaggini, non può paragonare dei dati incommensurabili come il
presunto consumo in tempo di proibizione e il consumo libero, ordinario, in
tempo di liberalizzazione.
Alle elementari mi dicevano, giustamente, che
non è possibile sommare le mele alle pere; le mele vanno sommate alle mele e le
pere alle pere. Se oggi si liberalizzasse l'uso delle droghe, da comprarsi in
bottega, è assolutamente certo che
l'apparente incremento del consumo supererebbe di gran lunga quel 350 per cento sbandierato da Billy per
l'alcol. Oggi chi può dire quanti spinelli si compra Claudio, quanta cocaina
Giovanni, quanta anfetamina Bettino o quanta eroina Arnaldo? I dati non possono
che essere incerti ed imperfetti. Ma, dopo, San Giorgio e Bill ci saprebbero
dire di quanto è aumentato il consumo. Nella miseria della scienza delle
miserie, questa statistica è di per certo fra le più
miserabili.
Ma poiché non ci si nutre di chiacchiere, e
tanto meno lo fanno i nostri Bennett e Friedman, ben presto la discussione
diviene pratica, da pretesamente etica che voleva essere: dunque, cosa conviene
di più alla società? Intendendo per essa, naturalmente, la società capitalista
esistente e in particolare quella americana. Qui, sul concreto, i progetti del
caro Milton e del caro Bill si differenziano nettamente, rispecchiando due
modelli di sviluppo sociale e due filosofie economico‑politiche
diverse.
Per Friedman, coerentemente con le ipotesi
liberiste della scuola di Chicago, il costo sociale del proibizionismo antidroga
è decisamente superiore ai suoi risultati. Sul piano internazionale come su
quello interno. Sul primo, perché non ci sarebbe il dispendio di energie e di
capitali USA per proporsi come i gendarmi del mondo e, in particolare, del loro
"cortile di casa", cioè il
Centroamerica e l'America
latina (e il caro Milton scriveva quelle righe prima dell'invasione di Panama,
dello stazionamento della flotta statunitense al largo della Colombia ecc.). Sul
secondo, perché ci sarebbero meno prigioni, meno necessità di esse, e quegli
stessi soldi potrebbero venir efficacemente impiegati in una politica di
recupero e di aiuto statale. t la riaffermazione della società‑Stato, dello
Stato sociale, fondato sull'allargamento della domanda interna e dei consumi,
che è stata alla base della politica nota come il Welfare.
Per Bennett la prospettiva è quasi opposta, è
quella dello Stato‑Stato, vale a dire quella di una molecolarizzazione del
controllo statale e sociale, dell'impiego di grandi risorse in queste iniziative
e dunque della creazione di imponenti possibilità lavorative nell'ambito del
controllo o, più in generale, di quello poliziesco e militare. Il caro Bill,
ciance e proclami morali a parte, si pone il problema con egregia lucidità: "
... la questione che ci si deve porre ‑ e che è totalmente ignorata dai fautori
della legalizzazione ‑ è qual è il costo di non rendere le leggi contro la droga
più severe. Secondo me [ ... ] i costi potenziali della legalizzazione della
droga sarebbero così grandi da significare un disastro
nazionale".
Pur parlando con molti peli sulla lingua, i
contendenti hanno posto in chiaro un punto centrale: poche chiacchiere sul
consumo di droghe, che c'è e ci sarà, essendo ormai "invalso nell'uso";
piuttosto, conviene liberalizzare il mercato e stornare i capitali impiegati
nella repressione verso la libera iniziativa ed uno "Stato sociale" capace di
accompagnare il cittadino dalla nascita alla tomba, o invece conviene mantenere
artificialmente illegale un simile consumo, profittandone (questo non viene
detto ma è palese, anche perché i dati storici parlano chiaro), ed investire
questa massa di quattrini in carceri, tribunali, polizie, controllo sociale? In
altri termini, la società capitalista è soprattutto comunità delle merci,
capitale in processo e in costante autovalorizzazione (Friedman) o invece ha
assoluto bisogno dello Stato; è una società che, per mantenere il controllo del
dominio della merce, necessita di uno specifico apparato, di valori etici
imposti (mentre la merce è "valore etico" di per sé), di armi, di prigioni, di
polizie sempre più forti (Bennett)?
E’ uno scontro ormai irriducibile sulle forme
dello "sviluppo", che parte però dalla concordanza sulla "naturalità" della
società presente. Della quale, invece, io mi auguro la più rapida scomparsa, per
lasciare libere, letteralmente sprigionandole, le forze creative che in questa
società sono compresse. Ma, in ogni caso e riguardo alla questione della droga,
legalizzatori e repressori sono d'accordo su un punto: che il ricorso alle
droghe è ormai connaturato alle società attuali; c'è solo da decidere cosa
conviene di più, una volta che tutti si è d'accordo che questo è un
male.
Ma se la droga non fosse poi così un male
rispetto al male che è la società attuale? Ma se la droga fosse un illusorio
tentativo di rimedio? Ma se l'unico rimedio efficace fosse liberarsi della
società? E se, infine, quel piacere a cui alludono le droghe, simulandolo, fosse
esattamente l'oggetto del contendere con i cari Milton e i cari
Bill?
* * *
Un episodio curioso e paradossale, riportato
dai giornali ma non certo con quell'indignazione che moraleggiando avevano
mostrato in altri casi, può servire da esempio significativo della tesi di cui
sono convinto, e cioè che non solo Stato e Mafia si alimentano mutuamente, ma
che lo spettacolo dello Stato si manifesta in modi squisitamente
mafiosi.
Nel mese di settembre del 1989, il signor
George Bush, presidente degli USA, ha lanciato una campagna nazionale e
internazionale contro la droga (il Drago) ed anzi, più che una tradizionale
campagna, una vera e propria "guerra santa". Divenuto palesemente anemico il
nemico storico, il "Comunismo", e non potendosi più celare, neppure di fronte ad
un'opinione pubblica particolarmente narcotizzata e rincoglionita, la
sostanziale unità di intenti fra i paesi dell'Est dello stalinismo riformato e
quelli dell'Ovest delle democrazie autoritarie, legati nella produzione e
riproduzione di rapporti di capitale, di estorsione del consenso, di
spossessamento in nome della perpetuazione della "società", di spettacolo, un
nuovo Grande Nemico doveva apparire sulla scena: in questo caso il Drago, la
Droga.
Il signor Bush avanza ed impone un "progetto"
di lotta al Drago. Sul piano internazionale, per riconfermare la funzione di
controllo e di polizia planetaria
che gli USA da tempo si sono assunti (dividendosi le zone di influenza con
l'altro grande gendarme, PURSS, e, ad oriente, con vari vicecommissari, come la
Cina e i suoi satelliti, fra cui primeggiano l'ex "glorioso" Viet Nam, l'India
ecc.) e come l'arrogante episodio dell'invasione di Panama e della deportazione
del servo infedele Noriega ha sottolineato ancora una volta. Sul piano interno,
per potenziare il senso di Stato etico, di Stato paladino del bene e, dunque,
per ciò stesso, assolutamente e necessariamente accettabile, anzi
indispensabile.
Ma poiché non si tratta solo più di "politica"
(ridotta, ormai, agli occhi di tutti, a mera pratica di amministrazione) o di
"economia" (quando tutti ormai sanno che la produzione è
finita da tempo
e che ormai si tratta solo più di riproduzione, ancorché allargata e
gestionaria, da cui il successo planetario dell'informatica, che è per l'appunto
una forma più alta e sofisticata di razionalizzazione dell'amministrazione e
della gestione), necessariamente il gioco doveva venir giocato sul terreno
reale, quello dell'immaginario sociale e della sua amministrazione: lo
spettacolo.
Il signor Bush, così, ne pensa una buona: si
presenta davanti alle telecamere delle televisioni del suo paese con una bustina
di "crack", che dice essere stata
sequestrata pochi attimi prima di fronte alla stessa Casa Bianca (addirittura!
Il Drago è davvero sfrontato!), la esibisce drammaticamente, fa appello al senso
dell'onore e dell'amor patrio degli imbesuiti televedenti americani e, insomma,
lancia e rilancia la sua guerra santa" con quella visibile pezza
d'appoggio.
Ma smarrona, il signor Bush. E notoria la
passione americana per suscitare "scandali" che nulla modifichino, che anzi
rafforzino il potere del segreto di una società di spettacolo autonomizzato, in
cui ciascuno gioca la sua parte, ma su binari fissi. Così si "scopre", ed è in
questo caso il quotidiano Washington Post
a "rivelare" questo brandello di verità, che è stato un agente della DEA
(l'ufficio antidroga americano) ad acquistare appositamente, vale a dire affinché Bush
potesse mostrarla in TV, la bustina di "crack" da uno spacciatore nero che, mica scemo, mai e poi mai si sarebbe messo in testa di
vendere ai giardini Lafayette (davanti alla Casa Bianca) ma che, alla fine,
venne convinto a consegnare una busta dall'abile agente e soprattutto
dall'immodica quantità di denaro che questi gli proponeva («Sono ben matti
questi bianchi», avrà pensato il nero che, infatti, manco sapeva bene che
diavolo fosse la Casa Bianca, secondo quanto scrivono i giornali). Sempre
secondo la ricostruzione giornalistica, lo spacciatore non sarebbe stato
arrestato, e in effetti ci sarebbe mancato altro.
Così la droga, il crack, se l'è tenuta il
presidente e, bisogna aggiungere, per un uso particolarmente immondo ed
immorale: non per un consumo personale, ma per esibirla in
televisione!
Il signor W. McMullan, responsabile della DEA
per Washington D.C., ha sostanzialmente ammesso il fatto, giustificandosi più o
meno in questo modo: «In ogni caso dovevamo comprare la droga, per risalire ai
venditori e ai trafficanti, e poco importa dove lo scambio sia avvenuto». Non
risulta che siano risaliti a chicchessia né, palesemente, che questo fosse
l'obiettivo.
I giornali hanno parlato, ed abbastanza
sottovoce, di "infortunio" di Bush, ma quasi si fosse trattato di un infortunio
della passione, della sua passione di ripulire gli USA e il mondo intero dal
"flagello della droga". Nessuno ha voluto evidenziare il senso vero, profondo ma
emblematico, di questa operazione che, una volta disvelato, mostra l'intima
verità del meccanismo Droga‑Drago. Proviamoci.
Ritorniamo al fatto nudo e crudo, almeno per
quanto pare accertato. Un consigliere
di Bush gli suggerisce che sarebbe di grande effetto mostrare in diretta una
bustina del micidiale crack. Bush si entusiasma all'idea. Lo spettacolo e la
riproduzione di allarme sociale sono assicurati. Però, per ottenere un impatto
emozionale ancora maggiore, l'operazione va precisata: la bustina deve venir confiscata pochi attimi prima
della trasmissione televisiva (illusione della simultaneità e dunque della
veridicità dello spettacolo mimato). E quale posto migliore scegliere, se non i
giardini Lafayette, davanti alla Casa
Bianca, dunque "nel cuore dello Stato"? Bisogna mostrare, se non
dimostrare, che il Drago osa portare il suo attacco al cuore dello Stato. Lo
stesso fine, rispetto all'immaginario collettivo, dei mille articoli pubblicati
sugli spacciatori sorpresi a vendere nelle vicinanze delle scuole o addirittura
davanti ad esse. Se la cosa pare onestamente poco probabile in specie per quanto
riguarda scuole elementari e medie (non foss'altro che per la poca disponibilità
di danaro che hanno quei ragazzini!), il "messaggio" funziona ugualmente:
attenzione, il pericolo giunge al cuore stesso della nostra umanità, ai nostri
figli. (Per inciso, un'operazione simile e particolarmente odiosa è stata messa
in piedi nel gennaio 1990 dai media italiani, con il supporto poliziesco. Hanno
scritto che due giovani genitori tossicomani stavano per iniettare una piccola
dose, però letale, di eroina al loro figlioletto di due anni. L'improbabilità
della cosa saltava agli occhi di chiunque, e difatti era falsa come venne
successivamente accertato, ma con pochissimo risalto, però importante era
veicolare un'immagine: il drogato è così folle ed irresponsabile da voler
addirittura drogare un figlio di due anni; è pericoloso per sé, per gli altri,
per la società e addirittura per la stessa specie; qualsiasi mezzo repressivo è
lecito, anzi morale, per fermarlo e dunque ben vengano le leggi coattive. Ed
anche le smentite successive funzionano: non era vero, ma poteva esserlo,
e vedete bene tutti quanti come noi media siamo rispettosi della ít
verità").
Rivenendo all'episodio di Bush, l'operazione
viene affidata ad un astutissimo agente della DEA, con il portafoglio ben
gonfio, se è vero, come è stato riportato, che ha speso ben 2500 dollari per una
busta di crack, la droga definita povera, cifra con la quale a Washington si
possono acquistare alcune decine di grammi di eroina e un po' di più di cocaina.
Sia come sia, il solerte agente contatta uno spacciatore nero, guarda caso,
minorenne ed analfabeta e il business va ovviamente in porto. Bush fa il suo
show televisivo, al ragazzo nero non succede niente, come si è detto e buon per
lui, ma poi la storia salta fuori e diventa di dominio pubblico. Come
mai?
Si può tranquillamente escludere l'imperizia
dei protagonisti, capaci di mantenere ben altri segreti, ed è anche piuttosto
improbabile la casualità, cioè 1`incidente". Di solito i segreti vengono svelati
al momento opportuno.
Si possono avanzare alcune ipotesi, tutte
alquanto suggestive e tutte concorrenti alla spiegazione della gestione mafiosa
dello spettacolo e della gestione spettacolare della
mafia.
La prima è che ai giornali sia arrivata qualche
"soffiata" o che addirittura Bush, il trappoliere, sia caduto in una trappola.
Questa ipotesi troverebbe conferma nell'arresto, mesi dopo ed esattamente il 19
gennaio 1990, del sindaco nero di Washington, Marion Barry, caduto a sua volta
in una trappola tesagli dall'FBI, filmato mentre comprava e fumava, per
l'appunto, crack e trovato in possesso della stessa sostanza grazie al
tradimento di una sua giovane amante, foraggiata dall'Ufficio Federale. Barry
era molto amato dalla comunità nera di Washington ed era considerato un
difensore dei diritti civili. Secondo questa ipotesi, potrebbe essere stato lo
stesso Barry, o uomini a lui vicini, "a fregare" la prima volta Bush, rivelando
il suo spettacolo, magari avendo ottenuto informazioni attraverso il tam‑tam
dell'ambiente nero di Washington, e per l'appunto la busta di crack mostrata in
televisione dal presidente era stata consegnata all'agente della DEA da un
giovane nero. Da qui l'immancabile vendetta del presidente, che ha restituito il
"servizio" a Barry con esosi interessi. Secondo questa ipotesi, è in corso non
solo una lotta per il controllo del mercato della droga ‑ e sarebbe il versante
mafioso ‑ ma anche una lotta per il controllo del mercato della lotta alla droga
‑ il versante politico. Va da sé che si intersecano.
La seconda ipotesi è che sia stato tutto
accuratamente programmato in anticipo: l'acquisto della busta di crack dal (
4minorenne negro analfabeta", la fuga di notizie, 1`infortunio" di Bush,
l'arresto del sindaco di Washington. A qualcuno può sembrare fantapolitica, ma è
assolutamente verosimile: così funzionano i meccanismi di autoinveramento dello
spettacolo. Il "messaggio" che lo staff dirigenziale USA voleva lanciare è stato
lanciato e, davvero, nel mondo delle immagini suggestionali, importa poco che un
fatto sia vero, verosimile o smentito. Importa l'informazione, ancorché
stravolta, e che essa lasci un segno. Seguendo questa ipotesi, il presidente
americano voleva veicolare questa sequenza di suggestioni: che negli Stati Uniti
(e per ciò nel mondo) il problema della droga è fondamentale e la sua
"risoluzione" giustifica qualsiasi mezzo; tanto è vero che, per meglio
evidenziare le sue buone ragioni, il presidente stesso è stato costretto a
ricorrere ad un escamotage, quello
dell'acquisto della busta, ma con fini "buoni", per meglio attirare
l'attenzione sul problema; che è tanto vero da venir "dimostrato" dall'arresto
dello stesso sindaco della città, proprio per consumo di crack; che i neri
(spacciatore e sindaco) sono i principali portatori di questo contagio, al pari
dei latinoamericani (Panama, Colombia ecc.) e che, dunque, vanno curati con le
buone o con le cattive; infine, obiettivo importantissimo, dimostrare che in una
sana democrazia vi è un'estrema trasparenza e che perciò la verità trionfa, sia
che si tratti di un'innocua marachella a fin di bene del presidente o di quella
a fin di male del sindaco.
Sia vera questa o quella ipotesi, è evidente
l'uso di uno "scandalo" ormai inflazionato e reso innocuo, affinché vengano resi
innocui in anticipo gli scandali reali, affinché nella massa degli informati
vengano tollerate tutte le informazioni degli informatori, affinché lo
spettacolo, che produce e riproduce spettacolo infinitamente, sia l'unico
criterio di "verità" e di trasmissione di "senso". Come dire: appari o
crepa.
Il Drago funziona perfettamente. Oltre ad
essere, nella sua materialità di traffico di droghe, un affare epocale dal punto di vista economico ed
amministrativo, grazie al proibizionismo ed alla tecnica mista
irretire/reprimere, il Drago è un poderoso collante ideologico, una forma dello
spettacolo integrato dove mafia e stato si abbracciano vitalmente ‑ nella povera
vitalità che osserviamo quotidianamente ‑, mentre la pretesa '1otta alla Mafia"
o la conclamata "lotta alla Droga" dimostrano ciò che ciascuno di noi, nella
vita di ogni giorno, intuisce: che esprimono la lotta per la sopravvivenza del
presente stato di cose, contro tutti i sommovimenti che si sono affacciati, si
affacciano o si affacceranno con la pretesa di stravolgere radicalmente quel che
esiste.
Alla Mafia il monopolio del traffico degli
stupefacenti, con il colossale giro di interessi che vi ruota intorno; allo
Stato il monopolio ideologico, spettacolare, amministrativo della lotta alla
droga e alla mafia. Con reciproche tangenti.
* * *
Sul palcoscenico delle idee pubbliche e del
pubblico dibattito di queste pretese idee, la droga, intesa come traffico e
sistema di interessi economici, viene sempre abbinata alla Mafia, peraltro
preesistente al controllo della circolazione di stupefacenti e comunque assai
più radicata e diramata nel tessuto societario (i sequestri, ma soprattutto gli
appalti, il maneggio dei voti, la politica ecc.). Questo abbinamento è per lo
più legittimo e veridico; anzi si può dire di più: il proibizionismo rispetto
alle sostanze stupefacenti, con l'aumento del loro "valore" e dell'importanza
del traffico illegale, non soltanto ha rafforzato le strutture mafiose esistenti
ma ne ha costituite di nuove. Tutto un settore di malavita si è convertito in
questo tipo di attività, rischiosa sì ma assai più
remunerativa
delle attività precedenti, come le rapine, i furti, le truffe ecc. Sicché oltre
al potenziamento della Mafia (cioè Cosa Nostra, l'associazione degli "uomini
d'onore", prevalentemente siciliana e in parte calabrese, per quanto riguarda
l'Italia), vi è stato un incredibile e vertiginoso incremento di strutture
associative "di stampo mafioso" finalizzate alla compravendita ed allo smercio
degli stupefacenti. In Italia, il caso del Napoletano è emblematico, ma anche al
Nord si sono creati poderosi gruppi ad hoc, non sempre dipendenti dalla Mafia
storica, ma sicuramente ad essa collegati, seppur mantenendo margini di
indipendenza, per questioni di affari e interessi. Quel che sorprende non è la
dissimulazione della verità da parte di chi "fa" opinione e la regolamenta, ma
il silenzio teorico e sociale su quello che è la Mafia e sulle ragioni del suo
sviluppo.
A proposito, perché assolutamente
condivisibile, cito un paragrafo di un teorico rivoluzionario francese, Guy
Debord, apparso in un libro non ancora tradotto in Italia ("Commentaires sur la société du spectc1e",
Éditions Gérard Lebovici, Paris, 1988).
"La Mafia non era che un arcaismo trapiantato
quando, agli inizi del secolo, cominciava a manifestarsi negli Stati Uniti,
insieme all'immigrazione dei lavoratori siciliani; nello stesso periodo sulla
costa ovest si manifestavano delle guerre tra bande nelle società segrete
cinesi. La Mafia, basata sull'oscurantismo e la miseria, allora non poteva
neppure radicarsi nell'Italia del nord. Sembrava destinata a scomparire ovunque
di fronte allo Stato moderno. Era una forma di crimine organizzato che poteva
prosperare soltanto sulla 'protezione' di minoranze in ritardo di sviluppo,
fuori dal mondo delle città, dove non poteva penetrare il controllo di una
polizia razionalizzata e delle leggi della borghesia. La tattica difensiva della
Mafia non poteva essere altro che la soppressione dei testimoni, per
neutralizzare la polizia e la giustizia e far regnare nella sua sfera di
attività il segreto che le è necessario. In seguito, ha trovato un terreno nuovo
nel nuovo oscurantismo della società
dello spettacolare diffuso, poi integrato: con la vittoria totale del segreto,
la generale demissione dei cittadini, la completa perdita della logica ed il
progredire della venalità e della vigliaccheria, si trovarono riunite tutte le
condizioni affinché essa divenisse una potenza moderna ed
offensiva.
Il
Proibizionismo americano ‑ grande esempio delle pretese degli Stati del secolo
al controllo autoritario di tutto, e dei risultati che ne discendono ‑ ha
lasciato al crimine organizzato la gestione del commercio dell'alcol per più di
un decennio. La Mafia, con ciò arricchitasi e sperimentatasi, si è legata alla
politica elettorale, agli affari, allo sviluppo del mercato dei sicari
professionali, ad alcuni particolari della politica internazionale. Così, fu
favorita dal governo di Washington durante la seconda guerra mondiale per
contribuire all'invasione della Sicilia. Quando l'alcol è tornato ad essere
legale, è stato sostituito dagli stupefacenti che hanno allora costituito la merce‑vedette dei consumi illegali. Poi ha assunto una
considerevole importanza nel settore immobiliare, nelle banche, nella grande
politica e nei grandi affari dello Stato e, dopo, nelle industrie dello
spettacolo: televisione, cinema, edizioni. Questo è già vero, almeno negli Stati
Uniti, anche per la stessa industria del disco, com'è sempre dove la pubblicità
di un prodotto dipende da un numero assai concentrato di persone. t dunque
facile fare pressione su di loro, comprandole o intimidendole, giacché
evidentemente si dispone di sufficienti capitali, o di uomini di mano che non
possono essere riconosciuti né puniti. Con la corruzione dei
discjockeys si decide pertanto
quello che dovrà essere il successo tra merci tanto e altrettanto
miserabili.
E’ senza dubbio in Italia che la Mafia, reduce
dalle sue esperienze e conquiste americane, ha acquisito la sua maggior forza:
dopo l'epoca del suo compromesso storico con il governo parallelo, si è trovata
in condizioni di poter far ammazzare dei giudici istruttori o dei capi di
polizia: pratica che aveva potuto inaugurare partecipando alle montature del
'terrorismo' politico. In condizioni relativamente indipendenti, l'evoluzione
similare dell'equivalente giapponese della Mafia dimostra bene l'unità
dell'epoca.
Ci si sbaglia, ogni volta che si vuol spiegare
una qualche cosa contrapponendo la Mafia allo Stato: non sono mai rivali. La
teoria verifica con facilità quello che tutte le voci della vita pratica avevano
troppo facilmente indicato. La Mafia non è straniera in questo mondo; si trova
perfettamente a casa sua. Nel momento dello spettacolare integrato, regna di
fatto come il modello di tutte le
imprese commerciali avanzate".
Si può aggiungere che, soprattutto in Italia,
la Mafia, al pari della droga che maneggia e controlla, serve anche
politicamente, ideologicamente e spettacolarmente come "lotta antimafia". A
parte alcuni mafiosi che ironicamente sostengono che «la Mafia non esiste, è
un'invenzione giornalistica» (alla palese menzogna aggiungono un'indubbia
verità: se le organizzazioni mafiose esistono concretamente, è
pur vero che lo
spettacolo Mafia è massmediatico e voluto), non c'è chi non sia contro la Mafia.
Così politici e giudici operano i loro regolamenti di conti lanciandosi
reciproche accuse di
"odor di
mafia", di "scarsa sensibilità rispetto al problema mafioso" e così via. Ma
restano sempre saldamente in sella, anzi sembrano guadagnarne in prestigio
perché furbi. Come le organizzazioni mafiose, proliferano e
prolificano.
Non è
un "rnale" specificatamente italiano, anche se in Italia ha assunto
caratteristiche particolari, è il male dell'epoca dell'amministrazione, del segreto e della menzogna,
dell'ultimo livello raggiunto dalla società del capitale e dello Stato.
Scivolati alcuni veli ideologici ed informativi, si è 6~
scoperto"
quello che era già evidente a chiunque possedesse un minimo di intelligenza
analitica e critica: anche all'Est del
"socialismo
reale" funzionano meccanismi simili, pur con le differenze dovute alle
peculiarità delle diverse organizzazioni sociali ‑ che, non a caso, tendono a
ridursi ed uniformarsi. Si "scopre‑ che delle mafie hanno gestito per anni
FURSS, si "scopre" che quella di Ceausescu era una banda di stampo mafioso e
avanti così. Per dirla schietta, si "scopre" fin troppo. Nuove demonizzazioni,
perché bisogna pur buttare a mare qualche zavorra, affinché la barca continui a
navigare. Esaminato il meccanismo con occhi italiani, si può dire che i
Ciancimino ogni tanto devono cadere (ben ripagati) perché continuino i Lima;
possono cadere anche i Lima, purché resistano gli Andreotti. In un momento di
crisi massima, potrebbero cadere anche gli Andreotti, purché persista il
meccanismo. E’ il meccanismo che si è autonomizzato ed impone il suo imperio; il
resto sono pedine, più o meno importanti.
* * *
Di fronte alla canea che si è scatenata e si
sta scatenando intorno al problema della droga, cioè intorno al Drago, ed al
fastidio che ciò provoca in qualunque galantuomo, alcuni amici, di certo non
sospettabili di abusi e neanche di uso di droghe, mi hanno chiesto: «Ma non è
possibile scrivere una sorta di provocatorio "Elogio della droga", riprendendo
in qualche modo l'"Elogio della pazzia" erasmiano o l'invettiva sadiana di
"Francesi, ancora uno sforzo"?». Letterariamente, è di sicuro possibile e forse
si otterrebbe anche un piccolo scandalo, in un mondo che non sa più
scandalizzarsi di nulla. Nello stesso tempo, c'è il rischio di f arsi prendere
la mano dal gusto della provocazione, dimenticando che, al di là del Drago e
della sua immagine spettacolare, esiste una realtà materiale della diffusione di
droghe e del loro abuso.
Ecco, un "Elogio della droga" così, secco, non
mi pare praticabile. Il che non significa negarsi a respingere la draghizzazíone
(demonizzazione) delle droghe, accettare che tutte vengano assimilate sotto la
stessa etichetta e neppure omettere la verità: che tutte, ciascuna a suo modo,
contengono anche qualche aspetto seducente, forse
positivo.
"All'inizio vi è la ricerca del piacere,
inscritta nel più profondo delle nostre strutture mentali. Il bisogno di
ottenere il piacere implica il passaggio all'azione, poiché il piacere non viene
mai offerto all'uomo su un vassoio, anzi, l'uomo deve meritarselo,
conquistarselo". Così scrive Henri Pradal in "Le marché de l'angoisse" (Paris, 1977;
trad. it. "Il mercato dell'angoscia",
Milano, 1977), un saggio che non ha conosciuto la diffusione che si sarebbe
meritato, proprio perché non è un manuale contro l'angoscia, ma un'angosciante
analisi della funzione dell'angoscia nella "nostra"
civiltà.
Ebbene, anche per l'uso di droghe, all'inizio
vi è la ricerca del piacere. Tanto più motivata dal fatto che nelle nostre
società il piacere viene esplicitamente negato o tacitamente occultato o svilito
a pratica di consumo. L'uso e l'abuso di droghe, come dell'alcol o delle
sfrenatezze sessuali, è un'esplicita rivendicazione al diritto al piacere. Ma,
come ci ricorda lo stesso Pradal, "la legge è fatta dai mercanti, ma non c'è più
Cristo che li cacci dal tempio. In una società dominata dalla merce, risulta che
tutto possa essere acquistato e venduto". "La civiltà della merce ha plasmato
l'individuo affinché produca e consumi… " Ecco il terribile vicolo cieco in cui
si caccia l'individuo alla ricerca di
piacere attraverso le droghe: viene inserito in un meccanismo di
mercato su cui non ha
controllo alcuno. Lo stesso vale, naturalmente, per ogni altra forma di ricerca
parziale di piacere. Sei fregato in anticipo.
Le droghe, in più, possiedono due
caratteristiche accessorie e fondamentali: possono essere acquistate e vendute,
come tutto, ma sono vietate e ciò conferisce loro un'aura di trasgressività
indotta; il consumo presuppone un'indefessa attività produttiva, proprio perché
il costo è altissimo e, nel caso di talune droghe, il consumo diventa coattivo,
imprescindibile.
Le droghe non sono tutte uguali, va da sé, ed
il termine stesso di droga è tirato per i capelli, riunificando sotto uno stesso
marchio ciò che è diverso. Una difesa dei derivati dalla cannabis è sin troppo facile e troppi
già l'hanno compiuta: non fa male, non dà assuefazione ‑eccetera. Tutto vero. Il
"male" di questi prodotti, peraltro a volte apprezzabili, sta nell'illusione di
trasgressività, di '1ibertà" che spesso inducono, suggerita com'è dal potere
stesso e dalle sue interdizioni. Si formano così delle microcomunità di
fumatori, che si sentono estremamente trasgressivi e "moderni", al passo coi
tempi, ma certamente capaci di marchiare a fuoco chi usa droghe differenti, in
specie l'eroina. La cocaina sta nel mezzo, per la storia di élite che si
trascina dietro, anche se ormai il proletarissimo crack o l'uso della miscela di
eroina e cocaina (lo speed‑balI) la stanno
declassando.
Per scrivere un "elogio", come si è detto,
bisognerebbe assumersi l'onere della difesa dell'eroina, comunque degli oppiacei
e dunque della tossicomania. Ciò risulta onestamente impossibile. Che l'eroina
produca effetti piacevoli, spesso all'inizio e se usata oculatamente, è fuori di
dubbio: non si capirebbe perché, altrimenti, milioni di persone ne vengano
attratte. Ma che la dipendenza sia odiosa e con effetti nefasti, è altrettanto
indiscutibile. Zombies si aggirano per le metropoli. Che la "colpa‑ non sia
della sostanza in sé salta agli occhi: sono le regole del mercato, le leggi, gli
stress quotidiani a produrre questa miseria in cui si aggirano, sperduti, i
drogati.
Un ipotetico "Elogio della droga" lo potrò
scrivere dopo che sarà stato praticato
un elogio della libertà. Oggi, pur con tutto il disprezzo che provo per i
costruttori del Drago e i San Giorgio, mi è comunque impossibile: mi parrebbe di
scrivere un sulfureo elogio dell'adulterio, per maggior gloria della santità del
matrimonio.
Nondimeno, contro tutto e tutti, contro le
morali inveterate e quelle che si pretendono moderne, contro, soprattutto,
coloro che le uniche soluzioni le ritrovano nel fondo della loro anima da
gendarme, e dunque in leggi, polizie, galere, va rivendicato il diritto di
ciascuno di fare quel che più gli aggrada di sé e della sua vita, compresa la
morte. E facile rispondere che spesso chi si droga non sa quel che fa, non
conosce in anticipo le conseguenze dei suoi atti, è preda di suggestioni e del
mercato. Tutto vero, probabilmente. Ma quelli che, in nome di una ragione di cui
avrebbero il monopolio, peraltro smentiti costantemente dai fatti, invocano e
pretendono coercizioni e repressioni, costoro sanno quello che fanno? Conoscono
in anticipo le conseguenze dei loro atti, non sono preda di suggestioni e del
mercato? Essi sono, in realtà, la conseguenza dei loro atti, sono essi le
suggestioni ed il mercato.
* *
*
Stupenda è la dichiarazione di certo signor
Muccioli (rilevata dai quotidiani italiani in data 24.X.1989), un ben remunerato
funzionario della drogorepressione, consigliere pragmatico del signor Craxi, il
Più muscoloso San Gior io sull'italica piazza, e padre‑padrone di una "comunità"
terapeutica, sita nell'incolpevole ed amabile Romagna, salita più volte ai
disonori della cronaca per l'incatenamento di taluni "utenti" (si dice così),
per i metodi, forse efficaci, ma sicuramente maneschi e brutali per "'contenere"
gli ospiti, nonché per l'estremizzazione del rifiuto di essa da parte di taluni
"pazienti" ormai evidentemente impazienti: si son tirati giù dalle finestre a
testa prima, con una critica di certo radicale ma anche autodistruttiva, visti i
letali effetti.
Ebbene, questo antico ma sempre muscoloso
pensatore pratico, esprime con la brutalità concessagli quello che tutti i suoi
accomandatari pensano, ma non hanno il coraggio di dire con tanta
vivacità, sul tema droga. Il Nostro dice: «Non è vero che tutto è lecito e una
libertà che sostiene ciò va imbavagliata». Esemplare per sintesi ed
enfasi.
Qualche insofferente potrebbe dire che simili bestialità vanno riposte religiosamente nell'ossario di Predappío, e lì consegnate alla consunzione, senza più preoccuparcene, e invece no. Per due ottimi motivi: perché sappiamo tutti che questo tardohimmleriano («Quando sento parlare di cultura la mano mi corre alla pistola», diceva Himmler, noto anche, dal punto di vista teorico, come estensore del miglior manuale pratico sull'uso della calunnia) non parla solo perché ha la lingua in bocca, ma perché è stato opportunamente imbeccato e sponsorizzato; perché, ironie a parte, la frase citata è degna senz'altro di menzione, non è meno filosofica di certi postulati di Popper, peraltro non molto meno reazionario.
"Non è vero che tutto è lecito", sostiene il
nostro pensatore e saremmo davvero in pochi ad affermare il contrario, sicché
non osiamolo neppure. Non tutto è lecito. E va bene. Ma, chi determina la
liceità e l'illiceità? Lo Stato, la Chiesa, il Buon Senso? Pur volendo
condividere le tesi muccioliane (e craxiste e bushiane ecc.), vi è troppa
vaghezza. Il sottinteso, ovviamente, è la Droga, il Drago. Ma anche così rimane
indeterminato il confine tra lecito ed illecito. 1 nostri pensatori giuridici
hanno deciso che va affermata l'illiceità del drogarsi; poco importano le forme
delle pene: ciò che va ribadito è l'illiceità del drogarsi e su questa
"questione morale" vi sono state scarsissime opposizioni. Non le faremo noi, per
non farci arrestare (mica scherzano, questi), ma ci sarà sicuramente concesso,
in democrazia!, di porre delle domande pertinenti: rispetto a chi è illecito
drogarsi? (Rispetto a sé, allo Stato, alla Chiesa, allo zio, allo spacciatore
che così guadagna di più; a chi, rispetto a chi?); quale criterio morale o
giuridico fondativo stabilisce l'illiceità? (Quello dei doveri famigliari o
civici o produttivi o statali?); quali "droghe" non si possono usare? E qual è 9
criterio che stabilisce che talune (marijuana, eroina ecc.) lo sono ed altre no
(auto, televisione, alcol ecc.)? Il pensiero tomistico era preciso, dettagliato;
questo, craxo‑muccioliniano, ci consegna ai dubbi ed alle ambasce.
Pazienza.
"...una libertà che sostiene ciò va
imbavagliata" . A parte la truculenta volgarità di una simile espressione, che
preoccupa se pronunciata da un tecnico degli imbavagliamenti e incatenamenti non
metaforici, vi è un problema filosofico che mi tormenta: si può imbavagliare una
libertà? La libertà non è,
secondo un
dizionario che frequento, "la condizione di chi può disporre di se stesso e dei
propri atti e movimenti, in contrapposizione non solo allo stato di schiavitù,
di prigionia, di detenzione, ma anche allo stato di soggezione a un'autorità
tirannica. Può essere riferito sia a persone che ad animali"? Se così è, risulta
un discreto problema imbavagliarla; volendo, si può negarla, sopprimerla,
annichilirla ma "imbavagliarla" , come "incatenarla", pare proprio difficile,
non foss'altro che per una resistenza semantica e logica.
Ma il tricipite è un brav'uomo e un
semplicione, e suo sarà il regno dei cieli. Mal esprimendosi, voleva dire: «t
lecito solo quello che viene opportunamente stabilito dall'autorità competente;
chi vi si oppone, in nome di una pretesa libertà, va impedito nella sua attività
eversiva e dunque imbavagliato, metafora per dire: messo in ceppi, incatenato,
incarcerato». Così la questione, depurata da malintesi riferimenti filosofici e
ritornando laddove non aveva mai smesso di stare, nella pratica di polizia, mi è
chiarissima. Piuttosto di discorrere di liceità e illiceità, di libertà e
licenza, sono disposto a farmi imbavagliare. Con un bavaglino su cui sia scritto
però, "Non baciatemi!"
* * *
Nell'intossicatoria prosa massmediatica, le
madri che, avendo dei figli drogati, si battono contro la droga, non si sa bene
come, spettacolo a parte, vengono definite "Madri Coraggio". E i padri? Staranno giocando a tressette o con le
amanti, e non del tutto a torto, vista la noiosità delle
mogli. E la mamma, cuore della
famiglia, che fa palpitare le pallide vene spettacolari. Una regista italiana,
tale Werthmúller, vi ha dedicato addirittura un film, orribile più della signora
in questione. Mi si dice che adesso ne abbia prodotto un altro,
sull'Aids. t nota per tre motivi: per i pessimi film, mai salvati dai titoli
lunghissimi e debordanti (è nel titolo che si esaurisce la sua scarsa
creatività); per avere un sacco di soldi come "esponente" della cosca del
Garofano; perché tutti si toccano le palle, in modo scaramantico, appena ne
odono il nome.
Le "madri coraggio", dunque. Sembra che si
battano contro gli spacciatori, per la difesa dei loro figli. Obiettivi
meritori. Ma, a parte l'inopportuno ed enfatico accostamento con la figura
brechtiana di "Madre Courage", impietosamente mi dico e mi chiedo: madri sì,
d'accordo, ma di che e con quale coraggio?
Compiamo un passo indietro. Esiste un'evidente
interdipendenza tra la domanda e l'offerta di una merce. t vero che spesso
l'offerta riesce a stimolare la domanda, soprattutto se opportunamente
pubblicizzata, creando quello che si definisce il bisogno indotto (ed abbiamo
centinaia di esempi sotto agli occhi). E altresì vero che un'offerta si rivolge
ad una domanda per lo meno potenziale, molto spesso stravolgendo le esigenze che
vi stanno alla base e "rispondendovi" secondo una logica antiumana e mercantile.
Ma questa dinamica comunque deve esistere, altrimenti l'offerta rimarrebbe
inutilizzata, vuota. Per esempio, se le televisioni ci offrono dei programmi di
"evasione" imbecilli e sconfortanti, è anche perché rispondono, in modo
assolutamente distorto e distorcente, ad un'effettiva domanda sociale di
evasione: dalla realtà quotidiana insopportabile.
La relazione tra lo spacciatore di droga e lo
spacciato non è differente. L'offerta di droga è possibile, ed economicamente
remunerativa, perché esiste una domanda. Che poi le ragioni di fondo della
domanda, vale a dire i bisogni reali, siano di tutt'altro tipo rispetto alla
"risposta" che viene loro data mi sembra incontestabile: chi "chiede" droga in
realtà chiede qualcosa di assai diverso, ma gli viene offertala droga, è questa
la risposta al suo bisogno reale. E tutto si rinserra in una logica di mercato, profitto e
consumo.
Ritorniamo alle "madri coraggio". Si ribellano,
e per nulla a torto, contro gli spacciatori ma, ed è questo il torto, avendo
accettato lo schema autoassolutorio socialmente proposto loro: i colpevoli sono
essenzialmente questi profittatori (anche se gli ultimi anelli della catena,
quelli più facilmente individuabili, sono quasi sempre a loro volta dei
tossicodipendenti; la solita guerra tra gli straccioni!), mentre il resto,
dall'organizzazione sociale al lavoro, dalla struttura famigliare sino al loro
ruolo, di madri, ebbene tutto il resto viene preventivamente assolto o comunque
giustificato.
Personalmente, sono convinto che molte di
queste "madri coraggio" abbiano una responsabilità diretta o indiretta nel fatto
che i loro figli non abbiano potuto o saputo far di meglio che drogarsi. Perché
hanno non solo accettato l'esistenza di una struttura famigliare oppressiva, ma
l'hanno addirittura riprodotta; perché si sono esse stesse mortificate nei ruoli
di produttrici‑cittadine‑ mogli‑ madri; perché raramente hanno mosso un dito,
prima che la "disgrazia" le toccasse, contro la società drogata e drogogena,
mentre sposano soltanto la drogorepressione; perché per lo più l'alternativa che
esse, i loro mariti, i loro amanti, i loro amici, offrono ai loro figli è così
povera che questi ultimi si vedono quasi sospinti a scegliere tra la morte per
droga e quella per noia, o per abbrutimento da lavoro, o per febbre del sabato
sera.
Il vero coraggio è quello di mettere in crisi
tutti i ruoli, anche quello di madre o di padre, di individuare il nemico reale,
interno, senza spostarlo invece sempre lontano da sé. Non c'è assoluzione per
nessuno, in verità, mentre si è abituati ad una sovrabbondanza di
condanne.
* * *
Se il Drago è stato appositamente costruito,
confezionato e messo in scena, è
indiscutibile il profondo
disagio prodotto dall'abuso di stupefacenti, dalla tossicodipendenza. Se qualche
spirito candido ancora esistesse, dopo
che da tempo si è consumata la fine di qualsiasi possibile innocenza, e
chiedesse: «Ma allora? Van bene tutte le critiche, ma per il drogato,
l'individuo che sta male, che rimedio proponi?», mi troverei senza risposte.
Preciso: senza risposte che offrano una soluzione immediata o a breve termine.
Perché di queste soluzioni non ce n'è, e chi le offre è di sicuro un
mistificatore, un profittatore, uno che lucra, materialmente e ideologicamente,
sul malessere reale altrui.
La fine del proibizionismo, la liberalizzazione
del mercato degli stupefacenti (ma non certo la cosiddetta legalizzazione, cioè
il controllo statale del mercato e dei consumatori, che non eviterebbe il
coesistere di un mercato nero, per i consumatori occasionali o per chi non vuol
essere schedato, mentre accrescerebbe la Statodipendenza) è palesemente, e
transitoriamente, la ‑‑‑soluzione‑meno peggiore. Soprattutto perché eviterebbe
l'obbligo alla criminalità ed alla precarietà assoluta del consumatore abituale
e ridurrebbe considerevolmente tutto l'indotto. Ma è
proprio qui il
punto: l'indotto è una grande industria,
poiché non si tratta solo del traffico di droga e dei suoi guadagni, ma anche di
buona parte della microdelinquenza che mantiene ricettatori e rivenditori,
avvocati e giudici, carcerieri e poliziotti, venditori di immagini e di notizie.
La liberalizzazione delle "droghe" sarà possibile, vale a dire remunerativa,
solo se e quando sarà stato inventato un nuovo Drago, una nuova forma, e
diversa, di riproduzione sociale allargata ad alto tasso di profitto e di
coinvolgimento.
Oppure se si riuscirà a trasformare
radicalmente il modello esistente di società, i suoi meccanismi, i suoi fini; in
termini teoricamente corretti, se si passerà dalla comunità umana fittizia alla
comunità umana reale, ricompositiva. Dal capitale alla libertà, insomma, o, se
si preferisce, dalla democrazia formale a quella diretta, all'acrazia.
Evidentemente, è questa la scommessa di molti di noi.
Certo, questa brutalità espositiva, peraltro
corrispondente all'acquisizione della realtà dei fatti, può sconcertare o
deprimere chi spera in soluzioni
immediate ed indolori ai problemi che ci angosciano, a quegli spiriti candidi la
cui esistenza ho voluto ipotizzare per un attimo. Ma spero preoccupino
ancor di più i piazzisti delle soluzioni facili e, si dice, possibili. Cioè
false, recuperatorie, autoritative.
Anche per le droghe, come per l'insieme della
vita sociale, vorrei che ciascuno potesse realizzare ciò che Dante attribuì a
"Semiramìs voluttuosa", "che libito fe' lícito in sua legge". Sì, quella del
piacere e del desiderio è l'unica legge che si può accettare. Certo, come le
bestie, ma razionalmente e socialmente.
M.
D’I.
Una strana cosa ci
è
cresciuta
dentro all'anima, in fondo, a sinistra
Prima ci hanno detto che si trattava di una scimmia che ci stava appollaiata sulla schiena
Non
ci dispiaceva, le scimmie ci sono sempre
piaciute
Poi
ci hanno detto che era un tumore, una malignità dello spirito e del
corpo
E ci ha dato fastidio, perché di malignità ce n'è abbastanza e poi,
diciamo la verità, tenercela dentro proprio noi, è mica uno
scherzo
Poi ci hanno spiegato che
era il Drago, gli occhi spiritati, le lingue di fuoco, i micidiali artigli, ma
niente di che preoccuparsi, si conosceva il rimedio
(Si sa, i draghi non
esistono, se li inventa il demonio e se in giro nascono dei buoni esorcisti
tutto va a posto per forza)
Solo che ci spostavano
sempre più spesso e, davvero, dava un po' fastidio
Dai bar del centro a quelli
della periferia, dalle strade alle prigioni o agli ospedali, dalle serate in
tanti a quelle solitarie che vien voglia di piangere, dalle case con il cesso ai
cessi senza casa
Ci dava un po'
fastidio
Ci siamo preoccupati ma ci
hanno detto che no, tranquilli, che era tutto normale, mica
niente
Sono venuti in tanti a
parlare ma non si capiva, il senso di colpa, la frustrazione, la
responsabilità, il disagio, il recupero, non si sa
A noi ci sembrava quella
canzone che dice del "maledetto muro", ma come fare a dirglielo, erano tanto
brave persone, anche delle ragazze dagli occhi lucidi, dei signori che parlavano
tanto e tanto dicevano di voler fare per noi, perché erano buoni sennò non si
capiva
Meglio stare zitti e tenersi
il maledetto muro
Adesso non va male, stiamo
in un posto che non si capisce ma almeno nessuno ci dice niente, le parole sono
finite
C'è chi dice che ci vogliono
richiamare là, non si sa a far cosa, però deve essere una paranoia perché è mica
possibile
Ma la strana cosa dentro
l'anima c'è sempre, anche qua, e A brutto è che continuiamo a non sapere cosa
sia, come si chiama
E’ il male del cuore, malato
di sangue malato, forse
Un bicchiere non bevuto, può
darsi, o due di troppo o uno schizzo di sperma di cui nessuno ha saputo cosa
farsene
Adesso non va male, ma la
strana cosa dentro l'anima c'è sempre, come le zampe sporche di un
gatto
Adesso non va male, va
pessimamente.
G.
F.
TUTTO IN COMUNE, ANCHE
DIO.
In Italia le comunità terapeutiche incominciano
a formarsi nella seconda metà degli anni Settanta: in particolare, dal '79 il
fenomeno inizia a registrare un trend significativo toccando la punta massima
nell'84 con 52 nuove strutture; è l'anno immediatamente precedente il Decreto
Legge che prevede il finanziamento per gli interventi promossi in favore dei
tossicodipendenti nel settore specifico del recupero e del reinserimento,
finanziamento destinato per la prima volta, oltre che ai Comuni e alle U.S.S.L.,
alle strutture socioriabilitative private. Secondo quanto si può leggere
nell'ultimo rapporto (ottobre '87) dell'Osservatorio Permanente sul fenomeno
droga del Ministero degli Interni, il 70% dei 60 miliardi che dall'85 all'87
sono stati stanziati in base a quella legge, è stato destinato alle comunità
terapeutiche private. Dalla stessa fonte si apprende che nel 1987 si contavano
661 strutture socio‑riabilitative private (191 centri di prima accoglienza, 342
comunità terapeutiche residenziali, 128 centri di reinserimento) e che negli
ultimi tre anni ( '85, '86, '87) l'incremento dei nuovi insediamenti era stato
del 13% per anno; da queste stime possiamo azzardare che alla fine dell'89 il
totale di queste strutture si aggirerà intorno alle 900
unità.
Dei 28.009 tossicodipendenti in trattamento alla
fine dell'ottobre 87, 21.895 si erano rivolti alle strutture
pubbliche (circa la metà ricevevano trattamento con sostanze sostitutive -
metadone ‑) mentre 6.114 erano accolti nelle comunità
terapeutiche.
Oltre al finanziamento dello Stato, destinato
esclusivamente a progetti ben definiti, intervengono ad incrementare le casse delle strutture riabilitative private il contributo e
le elargizioni dei privati (chiese e partiti politici compresi), il reddito del
lavoro del tossicodipendente ricoverato ‑ che viene incorporato totalmente dalla
comunità terapeutica e che spesso sottostà a iniziative economiche di largo
respiro ‑ e in più l'introito delle rette che i tossicodipendenti o chi per loro
(famiglie, U.S.S.L. o entrambi) devono pagare mensilmente e che si aggira
intorno alle 900.000 lire pro capite.
Per quel che riguarda la recettività, nel 60% dei casi vengono ospitati in ogni
comunità dai 6 ai 20 ragazzi, per il 30% dai 21 ai 50 giovani, per il 10% oltre i 50
tossicodipendenti.
All'87 su 323 comunità residenziali censite
solo 19 erano strutture
pubbliche.
Il
63% delle comunità è situato in aree rurali, il 37% in aree urbane.
Solo nel 40% dei casi vengono ospitati anche
altri emarginati (alcolisti, ex carcerati, handicappati).
La maggioranza delle comunità terapeutiche
(73%) applica un programma di riabilitazione
integrando attività lavorative e trattamento socio‑psicologico, mentre nel 17% dei casi esso si riduce alla sola
attività lavorativa, e nel 10% consiste unicamente nella terapia
socio‑psicologica.
Il
25% del personale che vi
lavora è specializzato (psicologi, medici, assistenti sociali, psichiatri) per
il 75% si tratta di volontariato, di educatori,
animatori, extossicodipendenti.
I programmi di recupero prevedono per il
tossicodipendente almeno 4 o 5 anni di permanenza all'interno della
struttura.
La diffusione della tossicodipendenza e i
problemi che ha determinato nella società attuale sono sempre stati presentati
in un'ottica distorta e ipocrita.
Innanzitutto perché, sulla questione droga,
l'ideologia dominante scommette la sua stessa credibilità. L'idea che questo
mondo, pur con le sue imperfezioni, sia il miglior mondo possibile, non può
essere messa in discussione e chi volesse porsi fuori o contro di esso non può
che essere un pazzo, un malato, un criminale o, per l'appunto, un drogato. In
secondo luogo, perché un'analisi corretta delle problematiche che accompagnano
il diffondersi del fenomeno evidenzierebbe l'impotenza della società a dare
risposte sia sul piano delle motivazioni esistenziali (ovvero della loro
mancanza) che conducono alla tossicodipendenza, sia sul piano delle possibilità
reali di fermare quell'enorme affare economico che è il traffico degli
stupefacenti.
I problemi reali e la loro origine vengono
rimossi perché fuori dalla portata delle soluzioni che il sistema è in grado di
offrire. Infatti un sistema che risponde alle esigenze umane solo con l'offerta
di merce e che, anzi, forgia e prefabbrica i bisogni umani in funzione della
produzione e del mercato, non può dare che la droga stessa, come merce, come
feticcio assoluto, in risposta al malessere che sta alla base della ricerca di
droga. Risposta al disagio, al vuoto di autenticità e di socialità reale, di
comunità vissuta, alla mancanza di opzioni di autodeterminazione che vivono
quotidianamente le giovani generazioni.
Questo dovrebbe essere il postulato di
qualsiasi seria analisi sulla questione droga, ma è proprio questo assunto che
viene rimosso, occultato, affinché le contraddizioni inerenti al diffondersi
della tossicodipendenza siano in qualche modo esorcizzabili e mistificabili con
un'operazione che da una parte enfatizza e drammatizza il problema e dall'altra
lo riduce agli aspetti connessi alla patologia della
dipendenza.
E’ più facile stigmatizzare sempre e comunque
il drogato, riconducendone le problematiche alle sue incapacità o debolezze
personali nell'affrontare la vita, alla sua presunta fuga da una realtà
ipostatizzata, che rivelare l'impotenza di una società che, basandosi solo sulla
dittatura dell'economico, non può combattere quella che è divenuta la merce per
eccellenza: la merce‑droga.
La dipendenza da stupefacenti si configura
infatti nell'attuale società come dipendenza da una merce e dal ciclo economico
che la mette in circolazione. I capitali investiti e gli interessi che maturano
da questa circolazione sono enormi e i tossicodipendenti figurano innanzitutto
come i "lavoratori" di questo ciclo continuo di valorizzazione del capitale; un
capitale in grado d'accrescersi nel passaggio reiterato da merce a denaro, da
denaro a merce, e che, divenuto una vera e propria potenza finanziaria mondiale
ha bisogno purtuttavia della manovalanza intossicata per esistere, come il
capitale produttivo ha bisogno dei suoi operai. (Si confronti il testo in
appendice: "W ciclo di autovalorizzazione dell'eroina ").
Le condizioni di base perché questa
valorizzazione possa avvenire sono l'illegalità e la clandestinità del traffico
e dello smercio di stupefacenti che, permettendo al loro prezzo di lievitare di
volta in volta negli innumerevoli passaggi della circolazione, sono le cause
della trasformazione inevitabile del consumatore in spacciatore e della sua
ghettizzazione.
E’ a partire da queste condizioni che il
tossicodipendente si separa dal resto della società del lavoro e riproduce se
stesso all'interno di un'economia sommersa.
Il tossicodipendente diventa schiavo non tanto
della sostanza in sé quanto del ciclo attivato dalla sostanza e vede in essa
l'occasione per la riproduzione alternativa di se stesso (come persona fisica,
come proletario), ma questa convinzione non gli viene dai poteri della sostanza
bensì dal contesto, dal ciclo di sfruttamento occulto di cui le droghe dominanti
(eroina, cocaina) sono le padrone.
E’ questo sfruttamento che determina quel
processo di abbrutimento e annichilimento che porta la tossicodipendenza ad
essere un problema sociale e i tossicodipendenti dei relitti consumati
innanzitutto dallo stress di questo ciclo e subito dopo da una sostanza che,
circolando illegalmente, è sempre adulterata.
Una risposta risolutiva rispetto a questa
situazione dovrebbe passare attraverso la liberalizzazione delle droghe ma ciò
aprirebbe un campo di contraddizioni che il potere non ha intenzione di
gestire.
Perciò le cause reali del meccanismo di
diffusione della tossicodipendenza
vengono occultate e prevale l'atteggiamento pragmatistico di un recupero
operato, anzi tentato, prima attraverso la repressione e la medicalizzazione e
poi attraverso la segregazione dei tossicodipendenti nel mondo separato delle
comunità terapeutiche.
Meno il disagio profondo, base della diffusione
della tossicodipendenza, può essere risolto dalla società o medicalizzato, più i
ghetti delle comunità terapeutiche divengono l'unico referente a cui delegare la
gestione della cosiddetta terapia. Comunità terapeutiche che appaiono quindi,
per contrapposizione, come la panacea dove convivenza coatta, lavoro e gerarchia ristabiliscono i valori
cardini su cui ristrutturare
l'individuo che si è perso nella droga.
SULLE COMUNITA'
TERAPEUTICHE
Alle comunità terapeutiche il tossicodipendente
approda come su un'ultima spiaggia, quasi sempre dopo il fallimento del
trattamento metadonico presso le strutture pubbliche.
All'interno della sua esperienza, generalmente,
il tossicodipendente ha vissuto una serie di situazioni che lo hanno visto
contrapporsi ai valori e ai ruoli codificati dalla norma. Al lavoro ordinario,
agli impegni quotidiani, alle frustrazioni e al vuoto di una monotona
quotidianità ha sostituito una pratica quasi sempre extralegale, che lo ha
portato a escogitare mille sistemi per procacciarsi il denaro per la sostanza.
Ha esaltato la sua negatività in funzione dell'unica passione che ha riempito la
sua esistenza e, pur nella ripetitività dello scopo, dell'oggetto, del suo
muoversi e desiderare, ha vissuto in antagonismo alla piatta routine della vita
sociale che lo circonda, affrontando le contraddizioni della sua progressiva
proletarizzazione nutrendosi di emozioni intense, di desideri assoluti, vivendo
a volte esaltanti e rocambolesche avventure. Ma proprio per effetto di questa
totale proletarizzazione, il "tossico" alla fine giunge a sentirsi stritolato
dal ciclo economico da cui dipende e che lo vede ogni giorno in prima linea in
quella che è diventata una guerra per procacciarsi la
dose.
Quando arriva alle comunità terapeutiche (vi
arriva circa un quinto dei tossicodipendenti che richiedono un trattamento) è
perché da questa guerra è uscito sconfitto e proprio su questa resa si basa
l'approccio degli operatori delle comunità terapeutiche e tutta la loro
filosofia sul recupero. Più questa resa ha il carattere di una resa totale, più
si afferma il nuovo diktat della comunità terapeutica.
Non è un caso che su questa situazione si siano
buttati a pesce i cattolici, riciclando e valorizzando quella visione della vita
e della società alla quale i giovani nella realtà sociale (specialmente degli
strati più proletarizzati) sono sempre stati refrattari e a cui i
tossicodipendenti in special modo, quando non vi si sono coscientemente
ribellati, hanno offerto la massima resistenza.
Una cosa analoga è successa in questi stessi
anni '80 nei confronti della lotta armata, dove la sconfitta storica del
terrorismo e il pentitismo hanno aperto la strada alla mediazione col potere
politico proprio a quella chiesa cattolica espressione dello stesso dispotismo
che i terroristi combattevano. Anche in quel caso la resa fu totale e i
cattolici si confermarono come quelli che da sempre hanno costruito la loro
forza a partire dalle condizioni di estrema debolezza degli
altri.
Quale occasione migliore per il volontariato
cattolico che l'assistenza al drogato per rispecchiare sulle condizioni di
questi la propria illusione di essere libero, per legittimare i valori e le
norme dello status quo e dell'ideologia dominante, per sentirsi dalla parte del
giusto con la propria coscienza? Il personale che opera nelle comunità
terapeutiche proviene spesso dal volontariato di estrazione cattolica (per il
resto si tratta di ex‑tossicodipendenti e in percentuale minore di personale
specializzato: medici, psicologi, assistenti sociali) che ha così modo di
esorcizzare i propri problemi dedicandosi a quelli dei tossicodipendenti, i
propri sensi di colpa proiettandoli su quelli del drogato, puntando con la
persuasione, l'insistenza e il ricatto alla conferma della propria ideologia e
scala di valori.
La comunità terapeutica evita, prevalentemente,
di prendere in carico il tossicodipendente a partire dalla crisi di astinenza e
lo accoglie solo dopo una prima disintossicazione ma, di fatto, quando il
tossicodipendente vi giunge, la sua scelta è condizionata dalla impossibilità di
determinarne altre e dall'idea che, andando incontro all'allontanamento dal suo
ambiente, potrà liberarsi definitivamente dall'eroina. Da questo momento in poi,
il potere che il tossicodipendente alienava all'eroina dovrà essere alienato
alla comunità terapeutica, nella cui logica il tossicodipendente è un soggetto
che va programmato ex‑novo, che deve essere totalmente ristrutturato e al quale
non si può lasciare nessuna libertà se non a rischio che scappi per andare a
drogarsi. (Su questa idea si giustifica persino la spoliazione del soggetto di
qualsiasi bene o mezzo materiale che gli possa consentire di comprarsi la dose.
In alcuni casi vengono sequestrati addirittura l'orologio e i documenti
personali). Il lavoro dovrà impedirgli anche di pensare, visto che il suo non
può essere che un pensiero fisso; e il lavoro, infatti, costituisce la terapia
per eccellenza (ergoterapia) in tutte le comunità terapeutiche. L'assunto che
"il lavoro rende liberi", di nefasta memoria, si erge infatti a verità in
discutibile, valore assoluto e metodo insieme, assumendo la massima valenza
terapeutica. Il lavoro per il lavoro, dunque, come mezzo di riabilitazione anzi
di redenzione da una vita fatta di espedienti; un lavoro non remunerato i cui
introiti sono incorporati interamente dalla comunità
terapeutica.
La crisi d'identità del tossicodipendente si
deve risolvere anzitutto attraverso l'assunzione di ruoli all'interno del
gruppo: così vuole il trattamento del programma; ruoli all'interno dei quali
l'identità resta negata, ma che permettono di instaurare quella disciplina
considerata indispensabile acquisizione per la formazione di un nuovo carattere,
di una nuova personalità, per forgiare una volontà che rende il soggetto forte
di fronte alle future tentazioni di drogarsi: è l'inizio del programma che
investe il tossicodipendente come un puro oggetto da manipolare. Nello stesso
tempo, disciplina, lavoro e rotazione dei ruoli garantiscono la coesione del
gruppo, di un gruppo che appare subito come un ghetto di malati, di uomini
deboli ed insicuri in cerca di forze e sicurezza, di peccatori in via di
redenzione costretti a fare della loro condizione di sconfitti il loro habitat.
Se si pensa che, nella maggior parte dei casi, alla condizione di isolamento (il
63 % dei centri è dislocato in aree rurali sperso lontanissime dai centri
abitati) si aggiunge l'astinenza sessuale, in quanto la maggior parte delle
comunità terapeutiche formano strutture separate per maschi e femmine
argomentando che le implicazioni emotive e sentimentali di un rapporto amoroso
potrebbero far inceppare il programma di recupero, si può immaginare quanto
questa coabitazione forzata ‑ e determinata dal comune malessere ‑possa
diventare invivibile e capire perché dopo un primo periodo una buona parte di
ricoverati rinunci e ritorni
a casa.
Alla logica che solo
attraverso l'autodisciplina e il rispetto delle norme che regolano la vita
separata e coatta del
ghetto‑comunità, si realizza il lungo cammino di riappropriazione di sé,
corrisponde ovviamente una logica della gerarchia che diventa, come il lavoro,
parte integrante del programma e anzi ne definisce le
fasi.
L'assunzione di responsabilità all'interno del
gruppo scandisce, infatti, l’iter del recupero, e in questa scala gerarchica la
figura dell'ex‑tossico (almeno tre anni di comunità alle spalle) assume la
doppia valenza di rappresentare la realizzabilità del programma, garante quindi
del metodo, e di disciplinare il gruppo sulla base delle regole imposte alla
coabitazione forzata.
Al vertice di questa gerarchia vi è sempre una
figura carismatica: il fondatore, il "patriarca" della
comunità.
A volte si tratta di un padre‑padrone come a San Patrignano (Muccioli nell'89 ha ricevuto il premio intitolato ad Almirante per "meriti sociali"), mega‑comunità dove si sono verificati casi di incatenamento e di suicidio, a volte di un Guru all'occidentale com'è nelle comunità multinazionali "Le Patriarche" o in quelle di ispirazione americana (adesso chiuse perché sotto accusa per truffa e lavaggio del cervello) che facevano capo a Ron Hubbard e alla setta scientologista di Dianetics o, nella maggior parte dei casi, di un prete in odor di santità. Questa figura rappresenta il terminale di un transfert che, lungo la catena gerarchica che struttura l'organizzazione della comunità terapeutica, modella i ruoli che gli operatori e gli ex‑tossicodipendenti vanno via via assumendo con lo sviluppo progressivo dei programmi e l'estensione territoriale dei centri.
L'ideologia della salute e della normalità come
condizioni necessarie alla partecipazione alla vita associata permeano quelli
che sono definiti gli interventi socio‑psicologici all'interno della
comunità.
I momenti e i metodi di trattamento
psicologico, in quasi tutti i casi integrati al resto del programma, cioè
all'attività lavorativa, sono generalmente di due tipi: uno, prescinde dalla
presenza di uno psico‑terapeuta e consiste in periodiche sedute di
auto‑coscienza dove i "tossici" membri del gruppo si confrontano prevalentemente
sulle difficoltà della loro vita associata, ma si autogratificano anche della
scelta fatta, valorizzano i buoni sentimenti e le buone intenzioni che
dovrebbero sorreggerla, esecrano la vita di piazza che sta alle loro spalle e
tentano di autoconvincersi che la comunità terapeutica è l'unico e l'ultimo
rifugio possibile; l'altro. invece, è un intervento individualizzato e mirato
che viene affidato al personale specializzato, per l'appunto uno psicologo
interprete di quella psicoterapia che si riduce a tecnica manipolatoria in vista
dell'adattamento dell'individuo alle norme comportamentali. L'armamentario
specialistico di questi signori si collega infatti più alla psicologia classica
pre‑analitica che a seri strumenti di analisi della psiche e dell'inconscio. In
particolare, la loro concezione psicologica si rifà quasi sempre al modello di
scuola americana della "Ego‑psychology" di Hartman; concezione nella quale, a
dispetto della psicoanalisi freudiana, viene reintrodotto il concetto di un Io
autonomo, di un Ego in grado di ergersi al di sopra della conflittualità della
persona. Questo Ego diviene la misura del reale, supporto al sentimento di
inneità del soggetto che, a partire da questo valore stabile, può rideterminare
e controllare i suoi interessi e i suoi rapporti col sociale. La vocazione
pedagogica di questa dottrina psicologica idealizza la costruzione di una
personalità adialettica, organica, armonica e ben adatta ad integrarsi nello
spettacolo sociale.
Per Freud, l'Io, strettamente legato al sistema
Percezione‑Coscienza, è di natura conflittuale, poiché nasce da e si sviluppa
nel conflitto con l'Es, derivando da esso H suo patrimonio pulsionale. Nella
concezione di Hartman, invece, torna a delinearsi un Io funzione del reale e del
vero che ricorda da vicino il vecchio e mai morto coscienzialismo razionalistico
di matrice cartesiana. In Hartman, ad un Es che si intende come luogo
dell'istinto, si contrappone un Io dalle idee chiare e distinte, serenamente
autonomo nella sua area libera da conflitti (non‑conf1ictua1sphere). Questo
carattere di neutralità e di autonomia dell'Io è ribadito nella formulazione del
concetto di "interessi dell'Io" contrapposto a quello di Freud di "pulsioni
dell'Io" e di quello di "energia neutralizzata" che si contrappone a quello
freudiano di sublimazione.
Questa concezione che implica una completa
desessualizzazione (delibidinizzazione) dell'energia di cui l'Io viene a
disporre ed esorcizza il carattere libidico di tutta la vita psichica, spezzando
la visione unitaria (Io ‑ Es) a cui era giunto Freud, reintegra la vecchia
contrapposizione tra ragione e istinto, privilegiando naturalmente l'aspetto
razionale cosciente e adattivo di pertinenza dell'Io. Questa dottrina
psicologica si fa portatrice delle istanze ideologiche di una società fortemente
repressiva, dominata dalle esigenze dell'adattamento, dell'efficienza
produttiva, del successo individuale; esigenze per le quali è necessario lo
sviluppo di un "Io forte" e competitivo e in funzione delle quali lo
psicoterapeuta identifica il suo ruolo in quello di chi induce e favorisce
l'adattamento ad una realtà sulla quale non è lecito discutere.
Alla luce di queste osservazioni sul contesto
psicologico, la comunità terapeutica si configura come un sistema dove il
concetto stesso di piacere viene misconosciuto e le pulsioni rimosse o
convogliate, attraverso la teoria degli "interessi dell'Io", verso l'adeguanza
al ruolo che, all'interno di quella microsocietà coatta è possibile assumere per
sopravvivere. Così il tossicodipendente che vi resiste anni ‑ perché di anni di
permanenza si nutre il programma riabilitativo ‑ in realtà non fa che perpetuare
quella pulsione masochistica che, nata e alimentata all'interno dell'esperienza
eroinica ‑ ma che in quell'esperienza trovava compensazione e sbocco nel piacere
del buco ‑ ora viene indirizzata nel senso della sottomissione all'ideologia,
della catarsi e della riabilitazione, dove auto punizione, sottomissione alla
gerarchia e assunzione del ruolo di "ex" ne costituiscono l'espressione, il
percorso, la nuova compensazione.
Per il tossicodipendente che resiste, col
passare degli anni la dipendenza
dall'eroina si è trasformata
in dipendenza dalla comunità. L'integrazione all'interno di essa e la promozione
nella scala gerarchica organizzativa lo legano come non mai. Solo la minor parte
delle comunità terapeutiche riesce realmente ad inserire un esiguo numero di
tossicodipendenti riabilitati in un tessuto sociale autonomo, mentre, nella
maggior parte dei casi, l'ex‑tossicomane viene coartato dalla struttura di una
comunità che è divenuta, dopo anni di permanenza, tutto il suo mondo. Alcune
comunità, vere e proprie catene multinazionali (quelle del gruppo "Le Patriarche"
potrebbero
organizzare le olimpiadi per tossici riabilitati), riescono a moltiplicarsi e ad
ingrandirsi proprio grazie al fagocitamento di questi nuovi operatori, nei
confronti dei quali viene sempre fatto pesare come un grande senso di colpa
l'eventuale progetto di autonomizzarsi rispetto alla
comunità.
Il ricoverato si trasforma quindi da
tossicodipendente a comunità‑dipendente: dopo il tunnel della droga, il tunnel
della comunità terapeutica da cui è altrettanto difficile
uscire.
Le comunità terapeutiche, investite della
delega che la società indirizza loro rispetto al "che fare" sulla questione
droga, assolvono gli stessi compiti che la medesima società delega alle carceri
e ai manicomi: isolamento dalla società, disinnescamento del potenziale
criminale, adattamento al sociale. Ma, del carcere, le comunità terapeutiche
costituiscono un perfezionamento, in quanto in esse la repressione è occultata e
le istanze repressive sono interiorizzate dagli stessi "utenti". Mentre nel
carcere, infatti, i detenuti, pur in condizioni aberranti di privazione totale
della libertà, conservano una loro autonomia critica rispetto al potere che si
contrappone loro in forma evidente, nelle comunità terapeutiche la repressione
si sostanzia di quegli stessi meccanismi che impone a regolazione dei rapporti
interpersonali e della vita associata e si rafforza escludendo da qualsiasi
autonomia critica i soggetti che vi permangono.
Così le comunità terapeutiche a loro volta
concorrono a sostanziare l'ideologia che le legittima, quel meccanismo di
rimozione e mistificazione che, non riconoscendo nel processo sociale e nel
ciclo economico che sta dietro al fenomeno, la causa fondamentale
dell'abbrutimento del tossicomane, né d'altra parte, essendo in grado di
ravvisare la reale portata delle contraddizioni della soggettività umana,
riconduce il problema del trattamento della malattia ad una terapia che è
tutt'uno col diktat del riadattamento sociale: un'ideologia che concepisce
l'individuo come un ente astratto, ipostatizza la realtà ed idealizza e
valorizza la persona come maschera sociale, negando l'uomo e il soggetto
reale.
Ben lungi dall'essere la soluzione, la comunità
terapeutica è, rispetto alla dimensione e alla complessità del fenomeno droga,
una piccola valvola di decompressione delle tensioni sociali prodotte da un
mercato dell'eroina in espansione progressiva; mercato che sempre più sussume i
consumatori al suo ciclo di valorizzazione e a dispetto dell'eventuale
significato trasgressivo dell'uso di droga, li inquadra come lavoratori totali e
proletari assoluti.
Comunità terapeutica, dunque, come funzione del
controllo sociale, serbatoio di consenso e parte integrante di un sistema in cui
il tossicodipendente mantiene, da sé solo, almeno dieci persone: il grande
trafficante, lo spacciatore, il ricettatore, l'assistente sociale, il medico, lo
psicologo, lo sbirro, l'avvocato e almeno due operatori delle comunità
terapeutiche (per non parlare dei politici e i giornalisti specializzati).
Sistema che, dietro la maschera pragmatica di chi si interroga sul che fare,
succhia dal "dramma della tossicodipendenza" linfa vitale per
sopravvivere.
All'impossibilità per il tossicodipendente di
riscattare un qualche valore d'uso dell'eroina dal ciclo del suo valore di
scambio e di liberare l'appagamento contenuto nella merce dalla sua funzione
repressiva, all'impossibilità di tradurre la trasgressività dei suoi
comportamenti in un reale antagonismo sociale, corrisponde l'attivazione di
quella particolare forma‑struttura del controllo sociale che è la comunità
terapeutica.
Se da sempre il controllo sociale è esercitato
al fine di prevenire o eliminare la devianza dalle norme e dai modelli sociali
consolidati con metodi più o meno coercitivi, nella moderna società
postindustriale, dove è sempre più frequente l'emergenza di fenomeni di crisi,
la funzione del controllo sociale si è evoluta nel senso di una finalizzazione
al contenimento di queste crisi. Quando la causa ultima della crisi è la mancata
produzione da parte del sottosistema culturale (famiglia, scuola, massmedia,
altre istituzioni) di valori e motivazioni individuali utili contemporaneamente
all'accumulazione economica e al consenso politico, la crisi può essere
controllata solo da politiche sociali razionalmente tese a rilanciare la
produzione di tali valori (cfr. Habermas ‑ La crisi della razionalità nel
capitale maturo ‑ 1975).
In una società dove l'ideologia è
immediatamente forza materiale di dominio, le operazioni di repressione,
recupero e riabilitazione nei confronti della devianza, oltre ad essere una
risposta al problema specifico, sono l'occasione per la riproposizione
riautentificante dei valori generali di adeguamento sociale e hanno una funzione
che va al di là del settore particolare verso il quale sono dirette, investendo
tutta la comunità sociale. E’
per questo
che il potere ha sempre bisogno di cavalcare qualche emergenza per poter uscire
ulteriormente legittimato e rafforzato nella sua ragion
d'essere.
Di questo moderno orientamento, con il quale la
società postindustriale affronta gli elementi destabilizzanti del modello su cui
si fonda, le comunità terapeutiche possono considerarsi la punta di
diamante.
Esse rappresentano, infatti, meglio di
qualsiasi altro modello la capacità di riciclaggio, riproduzione e propaganda
dei valori che sono alla base del consenso sociale e politico. Ciò è vero al
punto che la relazione col fenomeno droga potrebbe apparire secondaria rispetto
al valore assoluto del risultato cui tendono queste strutture (esse non curano
dalla dipendenza ma fabbricano un soggetto totalmente ristrutturato e
riadattato) se non fosse che è proprio la condizione di estrema debolezza e la
drammaticità della situazione di partenza dei tossicodipendenti ricoverati a
permettere quei risultati eclatanti così ben enfatizzati.
Quando la comunità di San Patrignano, nel
novembre '83, esibisce nella palestra‑chiesa il matrimonio di sedici coppie di
ex‑tossíci riabilitati, viene da chiedersi come possa aver avuto un successo
così tristemente totale l'opera di condizionamento svolta. L'unica risposta plausibile è che la gestione
dello spettacolo della droga vissuta come drammacatarsi‑salvezza, coincida
immediatamente con la capacità, da un lato, di riautentificare i valori cardine
su cui si basa questa società della costrizione, del lavoro alienato,
dell'ubbidienza incondizionata e dall'altra parte, quella di negare al soggetto
dimensione diversa dalla sua totale aderenza a qualsiasi normalità. Ecco allora
che i suicidi avvenuti a San Patrignano, ben lungi dall'essere pura e semplice
espressione della debolezza o incapacità del drogato di "ricominciare a vivere",
possono essere letti, invece, come originati dall'impossibilità di sottrarsi a
questa logica dell'adeguamento normativo come unica dimensione e denuncia dello
strapotere di queste strutture sul soggetto che vi capita dentro. Il
trionfalismo che ha sempre accompagnato le uscite pubbliche delle comunità
terapeutiche è il segno di un trionfo sull'uomo, sul soggetto umano, delle
istanze più alienanti e totalizzanti della moderna organizzazione sociale; vuole
essere la dimostrazione enfatizzata della potenzialità di recupero di un potere
assoluto di manovra da parte del sistema rispetto alle proprie contraddizioni,
espressione di una ben nota capacità di controllo e canalizzazione di
esse.
Come sempre queste operazioni avvengono dietro
la maSchera della solidarietà umana che, ad un occhio critico, le rende ancora
più infami e stomachevoli, come stomachevole è tutto l'alone di melensi luoghi
comuni che da sempre circonda l'attività delle comunità terapeutiche e che così
bene integra quell'interessata ed ipocrita drammatizzazione del fenomeno droga
di cui si fanno portatori i massmedia. Ma proprio questa maschera, con
l'incremento progressivo della criminalità connessa alla circolazione illegale e
clandestina della droga e per effetto delle nuove leggi repressive sul consumo
degli stupefacenti è destinata a cadere: le strutture riabilitative private
diventeranno a poco a poco delle vere e proprie case di reclusione surrogando
quelle che erano le funzioni dei riformatori e del carcere minorile e rivelando
il loro vero volto al di là di ogni alibi e copertura
ideologica.
l. Lo stesso fenomeno di
contenimento della crisi si è realizzato in Italia nei confronti della lotta
armata, dove il gioco dialettico tra pentitismo e perdonismo è coinciso con il
riciclaggio dei valori su cui si basa il patto sociale e sul ribaltamento di
quelli del lottarmatismo. Pentiti e dissociati sono divenuti portatori e
pubblici sostenitori della democrazia, dell'interclassismo, della non‑violenza,
del riformismo, del pacifismo, del rispetto della persona umana e delle regole
del gioco, operando un vero e proprio capovolgimento rispetto alla loro
precedente scala di valori e partecipando attivamente all'opera di pacificazione
sociale e restaurazione politica che è seguita alla sconfitta della lotta
armata. La nuova riproposizione sulla scena sociale dei valori dominanti si è
rivelata forza materiale ancora più efficace dello stesso confronto militare e
la forma di consenso ottenuta nei confronti delle istituzioni così forte da
superare il risultato di semplice vittoria politica sul
terrorismo.
Altre analogie:
- i dissociati, come gli ex‑tossici nelle
comunità terapeutiche, si sono fatti struttura gerarchica, ceto politico
privilegiato nei confronti della massa dei detenuti comuni, loro referente per
eventuali rivendicazioni di carattere riformistico;
‑ il volontariato della
chiesa cattolica si è potuto riproporre sulla scena sociale in prima fila, come
per i tossicodipendenti, per costruire occasioni di recupero nei confronti dei
detenuti politici;
- anche in questo caso vale la considerazione
che l'operazione di recupero alla "normalità" da parte di queste organizzazioni
"solidaristiche" ha avuto effetto a partire dalla condizione di estrema
debolezza dei detenuti politici con decine di anni da scontare nei carceri
speciali.
2. "Arbeit macht
frei"
era la scritta che campeggiava sui cancelli di
Auschwitz.
3. E’ uno dei pochi casi in
cui la "terapia" non favorisce la risocializzazione e rapporti forti (affettivi,
sessuali ecc.), ma li nega volendoli sostituire solo con la
comunità.
N.S.S.
All'inizio era il Verbo,
dicono, e sembra che sia vero. Il Verbo, infatti, corredato di tutti i suoi vari
accessori ed attributi, seppur non troppo aggettivi, in certo modo è ciò che fa
esistere le cose. Di fatto, offrendo la possibilità di qualificarle e quindi
distinguerle, conferisce loro un possibile senso e spesso anche un senso
passibile, com'è noto. A volte è sufficiente persino una vocale oppure una
consonante, una piccola e apparentemente insignificante consonante, per imporre
ad un personaggio, una cosa od una situazione una storia tutta
diversa.
Così mentre l'elica solca i cieli, l'erica
preferisce crogiolarsi al sole tra l'erba dell'Elba in compagnia, talora, del
fungo detto vesce quando si sa che nel fango e nel sale il pesce sta. Affidato
dalla consonante del destino ad una storia diversa era anche il nostro
personaggio, Italo Talwino ‑ che è anche un modo di rimare o di rifare o di
ridare.
Era così differente dai bambini della sua età e
così strambo che, se si può dire, cinque zoo di Cina l'avevano allattato; in
sostanza, cioè, se l'erano conteso per un bel po' di anni, probabilmente
convinti che un soggetto così anomalo e interessante avrebbe permesso loro di
accaparrarsi eccezionali risultati per quanto riguardava ricerche di argomento
astruso del tipo "similarità di comportamenti tra le tartarughe russe e gli
adolescenti" oppure "differenze tra il bambino tra 0 e 90 anni e la scimmia
scapolare".
Ma tutto il suo amore per il paese natale
rimaneva intatto, nonostante il lungo esilio a cui era stato costretto, e così
ad una certa età pensò di ideare uno stratagemma per ritornarci definitivamente.
Organizzò infatti, con altre cavie come lui, un viaggio in Italia per curarsi la
carie, durante il quale riuscì ad eclissarsi sfuggendo ai suoi tenebrosi
detentori.
In questo nuovo ma da sempre amato paese imparò
presto a convincersi di una grande verità: anche qui esisteva il pericolo
giallo, ma questa volta arrivava dall'Australia o giù di lì. E così tutto preso,
da persona lucida e attenta qual era, a controllare tre direzioni
contemporaneamente, incappò in un leggero strabismo che in seguito scelse
stabilmente e di cui fu fiero per tutta la vita. Questo non solo perché il
cosiddetto strabismo di Venere lo rendeva più affascinante e più
consono ai
canoni dell'androgino in voga all'epoca in Italia, ma perché questo apparente
difetto presentava contemporaneamente molti vantaggi: primo tra tutti quello di
poter leggere nello stesso momento due testi di qualsivoglia grafia, argomento e
complessità.
A questo proposito, bisogna aggiungere che il
nostro personaggio era un inesauribile divoratore di libri, articoli e scritti
di ogni genere e teneva continuamente sotto controllo la situazione "appo le
teche", nel senso che consultava ovunque le locandine che nelle bacheche
annunziavano dibattiti e seminari e andava sempre ad aggiornarsi sui nuovi
titoli in biblioteca (d'altra parte, si chiedeva, se i francesi vanno ad ogni
piè sospinto in fac, perché non poteva anche lui andare, almeno di tanto in
tanto, in teca?).
Riguardo alla lingua che usava, per amore della
verità, bisogna riconoscere che era un po' strana. Il linguaggio da lui
prescelto era una specie di esperanto, o di disperanto, che aveva chiamato
Cripto‑Cropto in omaggio a Crick e Crock, noti in Italia anche come Stanlio e
Ollio, che lui riteneva tra i massimi rappresentanti della dialettica negativa
disadorna. In omaggio a Crick e Crock, si è detto, ma forse anche perché quel
disperanto lì nessuno, ma proprio nessuno lo conosceva e quindi nessuno poteva
mai contraddirlo a buon diritto.
Nonostante le valanghe di libri letti e di film
visti non trascurava l'aspetto sessuosentimentale della vita e in quanto a donne
non scherzava.
Amava tutte le eroine, ma Anita era la sua
preferita (ma l'amore durò poco perché Anita ingrassò, si potrebbe dire
malignamente, ma questo farebbe parte della poststoria, o della storiapost, e di
confusione ce n'è stata già abbastanza).
Era il
grande amore, quello che non
si scorda mai, quello che non si dimentica neanche quando da molti anni
ormai non lo si vive più. Un amore totale, possessivo, che lo lasciava, nei rari
momenti di lontananza fisica da lei, spossato, quasi inerte, come se
l'intervallo di tempo che lo separava dall'incontro successivo con la sua amata
fosse un di più inutile da bruciare nella dimenticanza. In quei casi, non gli
serviva neppure la vicinanza di Tamara, il primo amore, tenero e affettuoso, ma
troppo sicuro, troppo garantito. Si sapeva sempre dove trovarla e, nonostante la
rigida sorveglianza dei genitori, spesso bastava mandarle un biglietto, un
piccolo biglietto bianco, ingiallito poi con il tempo, con poche parole e la
firma, per vedersela arrivare di corsa.
Anita invece era così misteriosa, imprevedibile
e sfuggente! Arrivavi trepidante all'appuntamento atteso spasmodicamente e ti
avvertivano che lei era già dalla parte opposta della città; cercavi di
raggiungerla ma al tuo occhio trafelato non si presentava altro che una piazza
che senza di lei appariva vuota pur nella moltitudine...
No, basta, troppa ansia, troppa
fatica.
Poi, Ombretta. Forse era meno affascinante ma
di certo gli dava più tranquillità. Gli piaceva alzarsi il mattino e sapere di
trovarla. Il cielo era il cielo, gli alberi erano gli alberi e lei era lei.
Senza slanci eccessivi, forse, ma anche senza tradimenti. Non come Anita che non
si sapeva mai dove trovarla e che tutti i week‑end e le feste comandate le
saltava di partire e lo piantava in asso (pare che adesso, ingrassata e
imbellettata ridicolmente, la si trovi sempre sui marciapiedi, ma già si è detto
che non si vuol fare della poststoria, per non parlare della metaletteratura).
Non come quella borghese di Tamara che lo obbligava ogni giorno a mettersi la
cravatta per andare a prenderla dai genitori, senza contare le loro ire
funeste.
No, Ombretta era diversa, lei era lei e basta e
lui poteva essere completamente se stesso all'interno del loro rapporto. La sua
presenza rendeva tutto più calmo, più tranquillo. Non c'era ansia, non c'era
disperazione. Gli piaceva sentirsela vicino, soprattutto quando lavorava. La sua
presenza in casa era dolce e confortante. A volte interrompeva di scrivere per
andare a chiamarla in cucina e già questo piccolo intervallo lo rinfrancava. Gli
piaceva, quando stava seduto alla scrivania, allungare semplicemente la mano e,
magari senza neanche alzare lo sguardo su di lei, trovarla sempre pronta ad una
silenziosa carezza.
Qualcuno dirà che Italo Talwino s'è perso in un
bicchier d'acqua, che acqua non era, ma così non sembra da una cartolina
recentemente arrivata dal Messico, stranamente scritta in linguaggio
acripto‑acropto, vergata con mano ferma e che dice testualmente: «Siamo arrivati
sotto il vulcano, adesso vediamo se si può farlo esplodere. Allegramente
I.T.».
Chi ha scritto il breve
racconto che precede, "Italo Talwino", sostiene che alla fin fine non servono
note esplicative. Chi capisce capisce, chi non capisce non capisce. In realtà,
il racconto è completamente "a chiave", volontariamente allusivo e criptico e, a
mio avviso, pochi lo potrebbero interpretare correttamente, a parte i diretti
interessati.
Questa "operazione", per così dire, cioè questo
libro, ha una finalità alquanto diversa dal raccontarsi le storie fra di noi. E
dichiaratamente un messaggio in una bottiglia, verso le nuove generazioni che
non sanno e le più vecchie che, sapendo, hanno compiuto mal indirizzati sforzi
di rimozione.
Il racconto mi piace, e come "curatore", me ne
assumo l'onere ma, del pari,
anche quello di renderlo
intelligibile ai più. Si tratta di letteratura, è vero, ma anche di storia, e
non ci possono essere misteri nella storia, se non quelli che i poteri vogliono
lasciare inestricabili. Noi siamo trasparenti, quale che ne sia il
costo.
Disvelare le allusioni sembra banalizzarle,
renderle liofilizzate e biodegradabili. t un rischio. Maggiore però mi sembra
quello dell'indecifrabilità del testo.
Già il titolo è un'allusione, un jeu de mots tra il noto scrittore Italo
Calvino e il Talwin, un prodotto antalgico di sintesi, che si proponeva come un
succedaneo della morfina ‑ e credo esista tuttora ‑ che conobbe un inusitato
successo in certi ambienti negli anni '70.
Diciamo la verità, è una sostanza alquanto
schifosa ("sostanza" spesso è stato il termine eufemistico per "stupefacente",
cioè per "sostanza stupefacente", con quel tanto di autoironia che vi è
implicita), "fa" assai poco, non "fonde" quasi, se non dopo l'assunzione di dosi
davvero eccessive, lascia in bocca uno sgradevole gusto metallico, non si sa se
calmi davvero i dolori, secondo quella che è stata la sua farmacologica
destinazione, almeno a sentire alcuni malati di cancro che, iniettati e
reiniettati di Talwin, continuavano a star male, fornisce una sorta di euforia
anfetaminosimile (e ciò è strano, trattandosi di sostanza in teoria "calmante"),
dà una scarsissima assuefazione fisica, se non nel lungo
periodo.
In una fase dell'esistenza di alcuni, tra cui
l'ego‑es narrante, questo Talwin venne prediletto, e si parla degli inizi degli
anni '70. Si poteva comperare liberamente in farmacia (successivamente ci volle
la ricetta, e andavano benissimo quelle della mutua, così non si pagava un soldo
e tutti sapevano come procurarsele o f alsíficarle; oggi è nell'elenco delle
sostanze psicotrope supervietate), dava scarsissima assuefazione, simulava il
gioco "trasgressivo" del buco, era estremamente conviviale nel senso che,
costando poco o nulla in danaro e sforzo, tutti lo offrivano a tutti, non
rincoglioniva pur dando qualche fasulla sensazione di momentaneo benessere e,
dunque, in una certa epoca, per scongiurare l'uso delle "droghe pesanti", ne
venne fatto un abuso.
La sua sostanza attiva è la Pentazocina lattato
(da cui, nel testo, "Cinque Zoo di Cina l'avevano allattato"). Del Talwin se n'è
persa quasi la memoria tranne che, forse, nelle cure oncologiche ‑ e in ogni
caso non vorrei essere nei panni di chi deve alleviare le sue sofferenze con il
Talwin.
Il racconto parte da lì, da quella storia, è un
reperto archeologico, di archeologia viva, e non a caso è stato scritto poco
tempo fa.
Le "tartarughe russe" sono un riferimento
ironico e un po' criptico agli studi di Pavlov sui riflessi condizionati benché,
come noto, Pavlov studiasse soprattutto le reazioni degli incolpevoli
cani.
L'Australia viene citata per l"'antigene
Australia" dell'epatite che, in quegli anni, era la malattia più diffusa tra chi
si "faceva".
Il gioco di parole "appo le teche" si riferisce
al termine Apot(h)eke che in alcune lingue, come il tedesco o l'olandese, che a
loro volta recuperano l'antica definizione greca, indica la farmacia. Questa
disinvoltura linguistica e cosmopolita, in parte usata come codice difensivo
(per non farsi capire) e in parte per le esperienze giunte da altri paesi, è
tipica della prima fase del consumo
sociale di droghe e in qualche misura si è conservata, pur snaturandosi,
anche nelle epoche successive, dove l'incultura e la
proletarizzazione/massificazione hanno regnato indisturbate. (Sia ben chiaro che
non c'è alcuna nostalgia della presunta élite, tutt'altro, ma è un dato
oggettivo). Sicché nel linguaggio corrente è rimasto il termine "junky" per
drogato, inscimmiato (dallo slang americano, dal linguaggio di W.Burroughs e
altri) o quello di "trip" (= viaggio, ormai entrato nell'uso comune) o quello di
"fix" (per il buco; anche questo è slang che parrebbe quasi ironico rispetto al
termine nautico che significa "posizione", "punto") o addirittura quello di
"spritz" (plurale "spritzen"), dal tedesco, per indicare la siringa. La banalità
delle "pere" (peraltro anch'essa di derivazione USA; in molti stati dell'Unione
è sempre stata vietata la vendita delle siringhe sicché gli adepti se le
costruivano da soli, saldando un ago ipodermico ad una pompetta, o "peretta",
facilmente reperibile, com'è per i collirii ecc.) o delle "spade" è venuta molto
più tardi, con la massificazione.
Anita. Per molto tempo in certi ambienti, e
ancor oggi fra i
più "vecchi" o
i più informati se ne conserva l'uso, l'eroina venne chiamata "Anita". Per un
gusto dissacrante dell'ironia ed un'esplicita voglia di autoironia, io credo,
più che per la volontà di forgiarsi un criptolinguaggio inaccessibile da altri.
E perché Anita e non per esempio Elisa, come più tardi cantò una pur pregevole
canzonettista italiana, sempre riferendosi all'eroina? Ma perché Anita fu il
grande amore della nostra gloria patria, quel Garibaldi Giuseppe che venne
definito "eroe dei due mondi"; e se lui era l'eroe dei due mondi lei giocoforza
doveva essere l'eroina dei due mondi (il terzo
sarebbe arrivato dopo). Eccoci!
E Tamara, che viene citata più avanti nel breve
racconto?
Qui la storia si fa più complicata, legata a
certe vicende di cronaca degli anni '60 italiani. Esisteva, e credo esista
tuttora, un prodotto chiamato "Cardiostenol" la cui fabbrica produttrice era, e
probabilmente continuerà ad essere, l'azienda farmaceutica Baroni di Torino. Si
tratta di un prodotto a base di morfina, di atropina e di stenamina. Viene
largamente usato in pazienti che hanno subito degli infarti o sono comunque dei
cardiopatici (per la presenza della stenamina) nonché, in generale, come
analgesico di buona portata. Più o meno casualmente (storie di nonne ammalate)
questo prodotto venne "scoperto" da alcuni giovanotti torinesi alla ricerca,
anche un po' letteraria, di "emozioni forti". All'epoca, e si parla della
seconda metà degli anni Sessanta, l'acquisto di stupefacenti presso le farmacie
era relativamente semplice, né peraltro esisteva un mercato clandestino, né un
mercato tout court. Era sufficiente presentare una ricetta (detta il "bianco",
come nel racconto, perché allora si dovevano esibire delle normali ricette
bianche, acconciamente formulate, nonché un documento di identità personale, ed
il fatto che poi si sia "ingiallito"è un'allusione al cambio dei ricettari, e
del colore degli stessi, avvenuto in seguito, nella prescrizione di sostanze
stupefacenti). I nostri giovanotti, oltre ad aver irretito, qualche medico più o
meno consapevole e compiacente, scoprirono che era abbastanza facile
"scolorinare" delle ricette preesistenti e trasformarle; poco dopo che era
addirittura possibile inventarsele con un accorto uso dei trasferibili e infine,
non senza un'assai poco dissimulata soddisfazione, che si poteva farsele
stampare da normali tipografi, meglio se con carta da visita, lettere intestate
ecc., adducendo la banalissima scusa che si doveva fare un regalo ad un amico o
amica neolaureato. Una sorta di manna. Sicché l'uso di tale sostanza si diffuse
notevolmente, sia pure in giri piuttosto ristretti ed il primo processo per
droga "pesante" a Torino fu proprio a causa di questo illecito uso di ricette
contraffatte. Gran parte di questi giovanotti si fece, a causa di ciò, dei
periodi non irrilevanti di carcere, essendo in vigore ancora la legge speciale
del 1954, quella imposta dagli americani e che oggi in qualche maniera si vuole
rispolverare, sia pure in un contesto totalmente diverso, per quanto riguarda la
diffusione degli stupefacenti, l'ampiezza del mercato nero, i folli guadagni che
esso proporziona ecc. Gli stessi giovanotti di allora facilitarono di fatto la
"brillante operazione delle forze di polizia", con la conseguente "condanna
esemplare" di cui parlarono i giornali del tempo: «t così che si scoraggia l'uso
delle droghe»,‑ scrissero, e furono pessimi profeti, come ognuno può capire.
Infatti, nutriti di jazz, di De Quincey, di Baudelaire, di Burroughs e di tutto
il "mauditisme" letterario, musicale ed artistico, spesso legati all'area di
pensiero politico più radicale, non avvertivano alcun senso di colpa, non si
consideravano dei tossicomani (talvolta lo erano, di fatto, e talaltra no: si
giudicavano degli sperimentatori, dei trasgressivi, al massimo dei tossicofili),
dentro di sé non si consideravano colpevoli di alcun delitto e dunque passibili
di condanna, e dunque si muovevano con un'ingenuità che oggi può apparire
disarmante oltre che disarmata. Per lo più consegnavano i loro stessi documenti
di identità personali! Fu un giochetto arrestare loro, ovviamente, essendo
scoppiato il "caso". Il fenomeno sociale si diffuse comunque lo stesso, poco
dopo, e non certo solo per suggestioni culturali e letterarie, bensì per quel
profondo malessere che ne è la causa reale e fondante.
Ma Tamara che c'entra?
Fu una semplice suggestione associativa,
linguistica più ancora che di idee. In quegli anni conobbe una notevole fama una
signorina, che si chiamava per l'appunto Tamara Baroni, da Parma, coinvolta in
taluni scandali tra il giallo e lo scollacciato; naturalmente si guadagnò intere
pagine di rotocalchi, anche perché bella donna che non disdegnava le pose osées
e dunque fu sulla bocca di tre quarti d'Italia. Sicché l'accostamento fra
Baroni, nel senso di Cardiostenol, e Baroni, nel senso di Tamara, venne
spontaneo, proprio per quel pizzico di autoironia di cui dicevo sopra. La
morfina, in specie il Cardiostenol, divenne così Tamara; anche se da lì a poco,
per merito o colpa della celebre canzone dei Rolling, "Sister Morphine",
la morfina
per molti divenne la "sorella" e Tamara rimase l'appellativo soltanto del
prodotto citato.
I "genitori" di Tamara cui si fa allusione nel
testo sono ovviamente i farmacisti ed il biglietto è naturalmente la
ricetta.
Ombretta, la terza figura "femminile" che
appare nell'esistenza del nostro Italo Talwino, ricava il suo nome, per
motivazioni a me ignote, dalla celebre espressione veneta "un'ombra de vin", per
indicare un bicchiere di vino, per lo più bianco. La figura narrante vuole
manifestare il disagio di intere generazioni (cioè di particelle di esse)
nell'uso reiterativo della droga ed il "rifugio" nella bevuta, e non
necessariamente nell'alcolismo (di cui, in realtà, conosco pochissimi casi,
almeno nelle frange di cui si parla), da parte di chi, stufo di certe pratiche,
continuava a cercare una qualche "evasione" dalla letale tenaglia della
sopravvivenza.
Non sono un esegeta per
indole o per professione, ma nondimeno credo di poter affermare che non ritengo
che nel testo vi sia un'esaltazione dell’"Ombretta" come "extrema ratio" o,
peggio, come "soluzione" o addirittura come una codificazione di una realtà.
Penso piuttosto che narrativamente si sia trasfigurato un dato che comunque è di
fatto, per molti che hanno vissuto quelle stagioni, senza enfasi e senza
rimpianti.
Un'ultima dichiarazione è doverosa, riguardo a
quegli anni ed a quelle esperienze. Tutti quelli che li abbiamo attraversati e
le abbiamo superate veramente,
questo
processo lo
abbiamo compiuto senza pentimenti, senza illuminazioni sulla via di Damasco e,
soprattutto, con la convinzione che la reinvenzione della vita sia tutta da
provare, sperimentare, verificare trasgressivamente. Nulla è dato per certo, se
non che questo mondo ci va stretto come una camicia di
forza.
il
curatore
Il contributo che segue è parte di un lavoro
più ampio, e non ancora ultimato, che conduco da alcuni anni. Si tratta di uno
studio comparato del fenomeno droga in Italia (in particolare a Torino) e in
Gran Bretagna (in particolare a Londra). Tra gli obiettivi della ricerca, quello
di valutare gli effetti dell'irruzione della merce eroina vuoi nella cosiddetta
economia criminale, vuoi nell'economia tout court. Tra le ipotesi, che qui mi
limito ad elencare in forma schematica, quella che vede nella merce eroina
un
condensato materiale e ideologico capace di rendere obsoleto ogni altro prodotto
o servizio comunemente definito di natura criminale. Nel formulare questa
ipotesi, pensavo naturalmente a una tendenza, accompagnata da altre "tendenze
subordinate", tra le quali quella che si può così riassumere. Il predominio
della merce droga nel ciclo produttivo e distributivo criminale richiede la
mobilitazione di una forza‑lavoro dequalificata le cui caratteristiche credo si
possano indicare nella definizione sintetica: criminale‑massa.
Il richiamo
all'operaio‑massa non è paradossale né casuale. Anche nel ciclo produttivo
criminale, secondo le mie ipotesi, si richiede una forza‑lavoro mobile,
intercambiabile, priva di apprendistato e di conoscenza specifica del processo
lavorativo in cui è impegnata. Ipotizzare che il crimine legato alla produzione
e distribuzione delle droghe non richiede un previo "apprendistato criminale" mi
è sembrato di non poca rilevanza anti‑criminologica. Si pensi a quante teorie,
appunto, "criminologiche", ne escono mortificate: teoria subculturale, teoria
delle associazioni differenziali, teoria della deprivazione relativa e
altre.
La realtà che ci circonda sembra offrire
conferme schiaccianti per quelle che qualche anno fa credevo, candidamente,
ipotesi provocatorie. Temevo all'inizio di trovare difficoltà nel condurre la
ricerca col metodo dell'osservazione partecipante. Non amavo l'idea di
dissimularmi, di fare il Jack London che si finge barbone per mescolarsi col
"popolo dell'abisso". La realtà mi è venuta in aiuto togliendomi dall'imbarazzo:
la partecipazione nel ciclo dell'eroina è talmente elevata, capilliare,
inter‑classe, assidua, che basta vivere normalmente, guardandosi intorno, per
fare di ogni momento un momento di osservazione
partecipante.
Qui di seguito esamino sommariamente alcuni
tratti culturali di chi consuma e distribuisce eroina in Inghilterra, ma molte
di queste riflessioni mi sembrano adatte anche a descrivere il panorama
italiano.
Rileggendo questo articolo, mi viene da
aggiungere una domanda finale, alla quale altri, in questa raccolta, cercano di
dare risposta. Se coloro che consumano e distribuiscono droghe, ai livelli bassi
del lavoro vivo, abitano un mondo tanto conformista, ottuso e alienato quanto
quello di ogni altra produzione "lecita", perché fra tanti punire proprio
loro?
* * *
Bisogna riconoscere che
molta saggistica in tema di tossicodipendenza denuncia una visibile immobilità
nelle
categorie interpretative che stride in notevole misura con un fenomeno, al
contrario, molto mobile
e in
continua evoluzione sul piano sociale. t fin troppo frequente, infatti,
imbattersi indescrizioni del fenomeno droga che, seppure basate su dati inediti
di ricerca, trovano prudente adottare nessi esplicativi classici, come se questi
ultimi, una volta assimilati, non possano più venire sottoposti a revisione o ad
aggiornamento. In questa maniera si corre il pericolo che, nel divulgare teorie,
che sono tali purché possano essere contraddette, il ricercatore si accontenti
di perpetuare un insieme più
rassicurante di
dogmi.
L'esame del caso inglese contemporaneo consente
di ripensare criticamente al diffuso diagramma interpretativo, diagramma che
schematicamente si può cosi formulare:
‑
il consumatore di droghe interpreterebbe una cultura di tipo "astensionista",
essendogli estranea l'adesione attiva ai valori
correnti1;
‑
adotterebbe, a fronte del proprio disagio e della propria inadeguatezza, un
atteggiamento di "rinuncia", ponendosi ai margini di chi calibra efficacemente i
fini e i mezzi della propria vicenda
esistenziale2;
‑ esprimerebbe, nella
pratica quotidiana, dei principi "altri" di convivenza: una spiccata solidarietà
comunitaria lo renderebbe trasgressivo nei riguardi della società
individualistica e produttiva3;
‑ il consumatore di droghe
sarebbe vittima di callidi sconosciuti che lo inducono o lo obbligano ad
intraprendere la strada della dipendenza;
‑ l'assunzione di droghe
costituirebbe sempre sintomo di destituzione del sé, del vuoto, dell'abbandono
del proprio essere a un'esistenza priva di
volontà4.
I materiali di ricerca relativi alla Gran
Bretagna rendono conto, da un lato, delle modificazioni recentemente intervenute
nella comunità dei consumatori di droghe e costituiscono d'altro canto un
implicito scrutinio di quelle categorie che presso molti studiosi sembrano avere
assunto lo statuto di verità apodittiche.
Può essere utile riportare alcune notizie
preliminari. Il problema eroina è emerso in Gran Bretagna con relativo ritardo,
se si considera che negli ultimi anni '60 i tossicodipendenti ufficiali
ammontavano a poche centinaia e la loro presenza era circoscritta alla sola area
londinese. Soltanto nel periodo 1979‑81
il fenomeno
assumerà dimensioni che, in maniera fondata o arbitraria, alimenteranno un
diffuso allarme sociale. Intorno alla metà del decennio corrente il numero
ufficiale di dipendenti da eroina aveva raggiunto le 12.000 unità, mentre stime
ufficiose, basate su specifiche indagini vittimologiche indicavano in circa
70.000
unità la cifra
più attendibile5.
Va notato che l'assunzione di eroina, in Gran
Bretagna, segue le modalità del cosiddetto "chasing the dragon", consistente
nell'inalare i fumi prodotti dalla sostanza quando questa viene riscaldata
attraverso un foglio di carta alluminata. Tale modalità si è rivelata cruciale
per la diffusione della nuova droga in quanto ha consentito di rimuovere la
consolidata barriera culturale che in passato si opponeva alla tecnica e al
cerimoniale dell'iniezione. Il tipo di sostanza inizialmente importato, la
qualità "brown" di provenienza
sud‑est asiatica, non sorprendentemente era adatta ad essere fumata essendo poco
solubile e priva di acidificazione6.
E’ interessante notare che solo dopo una prima
fase di iniziazione o di consumo saltuario, quando cioè la tecnica del chasing si dimostra inefficace a un pieno
rendimento della sostanza, la modalità del fumarla viene infine sostituita con
quella di iniettarla. Il passaggio denota, in molti casi, l'inizio di una fase
di uso abituale dell'eroina, nella quale il dipendente non può permettere che
molta sostanza si disperda e se ne vada letteralmente in fumo. L'iniezione,
insomma, diviene modalità privilegiata di consumo solo in quanto consente di
ridurre il costo economico della dipendenza.
* * *
Molti ricercatori sono
concordi nel ritenere i consumatori contemporanei di droghe pesanti molto
lontani da quell'immagine vagamente bohèmienne trasmessa da certa letteratura
degli anni '60. Il junky non abita
più i piccoli alloggi del West End né
dà vita alle colorate comuni di Notting Hill, dove l'esistenza in armonia, in un
gruppo di elezione, supplisce alla
deliberata assenza di rapporti con la comunità esterna. La fuga volontaria dalla
dinamica sociale, seppure ispira gli esordi dell'avventura dell'eroina, non
trova riscontro nella realtà quotidiana della
tossicodipendenza7. Quest'ultima è fatta al contrario di
iperattività, hustling (sbattimento),
di presenza assidua nel mercato e di relazioni incessanti di natura produttiva e
commerciale. "Altro che morte bianca; l'esperienza dell'eroina conduce la
persona ad una terribile vitalità. Si è vivi oltre misura e si osservano ritmi
stressanti, intrappolati in una routine che non concede
respiro8".
Vediamo alcuni aspetti di questo hustling. Intorno al mondo dell'eroina
gravita un'intera economia parallela che l'accompagna trascendendo la semplice
distribuzione illecita della sostanza. Tra le attività comprese in questa
economia occorre ricordare la pratica, presso alcuni tossicodipendenti di
entrambe i sessi, di prostituirsi allo scopo di guadagnare la somma sufficiente
per la dose. t noto come questa pratica porti col tempo a un circolo vizioso,
per cui il tossicodipendente, che si prostituisce per la sostanza, ha poi ancora
più bisogno della sostanza medesima per superare il ribrezzo che prova nel
prostituirsi. Meno conosciuta è quella miriade di attività illegali, di scambi
commerciali sommersi e di prestazioni semilecite che solo in maniera mediata
vengono comunemente connesse al ciclo delle droghe. Ci si limita sovente a
segnalare la quota di piccoli consumatori‑distributori che sono partecipi di
un'economia di sussistenza: lo smercio minuto, nel loro caso, produce un
profitto appena sufficiente ad assicurare le dosi gratuite9. Vengono
invece tralasciate le altre attività illegali che si sostanziano principalmente
nei furti in negozi e appartamenti, e che alimentano un mercato parallelo: da questo mercato attingono clienti del
tutto estranei al mondo delle droghe. Le cosiddette attività illegali sono a
tal punto connaturate all'esistenza quotidiana dei tossicodipendenti che, nella
nozione di questi ultimi, l'apprendistato al piccolo crimine e la carriera di
consumo degli oppiacei finiscono inevitabilmente per coincidere. Maggiore
abilità nel furto e maggiore lucidità
nella piccola rapina, paradossalmente, diventano sinonimo di maggior numero
di sballi, vale a dire maggiori
occasioni di rinuncia volontaria alla stessa lucidità.
Va segnalato che molti distributori accettano,
in cambio di un numero equivalente di dosi, una gamma di merci rubate e che vige
una scala di valori piuttosto minuziosa che decreta quale bene sia da ritenere
leader in conformità agli umori del
mercato. Alcuni tossicodipendenti dichiarano di uscire ogni mattina con una
singolare "lista della spesa", con le indicazioni delle merci più richieste e,
non di rado, con le opzioni relative alla marca delle merci stesse. Se alcuni
evadono richieste che giungono loro direttamente da clienti conosciuti, molti
non dispongono di un numero sufficiente di acquirenti che consenta ai loro furti
una cadenza di routine. Per questo motivo il distributore di eroina diviene
spesso un bizzarro coordinatore di un'agenzia multicommodity in grado di evadere
richieste variegate quanto incessanti. Va da sé che a questi consumi paralleli
si accompagnano prestazioni di lavoro irregolare e mutuI servizi occasionali che
costituiscono la caratteristica quotidiana di intere aree urbane deprivate. Per
completare la descrizione del laborioso
bazar occorre Includervi il cosiddetto mercato grigio: metadone,
prescrizioni mediche e psicotropi di ogni natura sono anch'essi dotati di un
indice di equivalenza che ne permette lo scambio con prestazioni irregolari o
merci di provenienza illecita10.
Si intende qui sottolineare che i frequentatori
del mercato dell'eroina sono lontani
dal costituire un aggregato sociale impermeabile e che le loro attività
finiscono per connettersi col mercato
tout court. Il loro comportamento " anomalo", infatti, non esclude la
possibilità di tessere rapporti commerciali "conformi" né di sottoporsi a legami
di natura produttiva, in maniera da coinvolgere nella loro laboriosità gruppi
sociali ben più ampi di quella "comunità disperata" di cui fanno parte. A questo
proposito, alcune ricerche si sono recentemente spinte nel terreno di frontiera
che separa quella appena descritta, definibile economia illegale, con quella che con
sempre maggiore frequenza, e secondo un modello italiano, viene definita economia informale. Alcuni autori, ad
esempio, hanno indagato su quelle figure sociali impegnate nell'economia
dell'eroina che già occupano un qualche ruolo nell'economia tout court. Molti
tra i giovani che devono la propria esistenza al poco generoso assegno di
disoccupazione passano indifferentemente dal lavoro precario e, per così dire,
al nero, alle attività specifiche del
mercato nero11". Le piccole attività criminali, in altre parole,
diventano una sorta di «secondo lavoro" che integra vuoi il reddito
assistenziale, vuoi quello produttivo reperito nell'ambito dell'economia
informale.
E’ questa una prospettiva di ricerca che
potrebbe consentire, qualora approfondita, di capovolgere la nozione
convenzionale secondo la quale il consumo di droghe conduce ad attività
criminali indirette. Nel caso in esame, assume plausibilità il tragitto inverso,
arricchito di un inedito passaggio: chi è
impegnato
nell'economia informale può accedere ad attività illegali; attraverso queste
ultime il "lavoratore‑delinquente" si incontrerà prima o dopo col mercato
dell'eroina, finendo molto spèsso per fare uso della sostanza. A opinione di chi
scrive, questa ipotesi di ricerca merita riflessione e verifica, se non altro
perché consente di individuare alcune articolazioni intermedie nella abusata
equazione: disoccupato‑tossicodipendente.
Nel contesto sommariamente descritto, comunque,
non sembrano esistere elementi che autorizzino la definizione del mondo della
tossicodipendenza come un universo astensionista. L'elevato pendolarismo
economico che distingue i consumatori di eroina testimonia del contrario, vale a
dire di un assiduo presenzialismo nel
mercato del lavoro, anche se quest'ultimo va riferito ad attività produttive che
comunemente vengono escluse dall'economia formale. Del resto, un ultimo elemento
depone a favore di questa ipotesi e può incoraggiare lo scrutinio critico delle
categorie tradizionali. Si tratta della mutata situazione generale delle
economie occidentali. Quando Parsons, nel 195 1, identificava nel consumatore di
droghe pesanti un cosiddetto sick‑role
(ruolo di persona malata) 1
riferiva le sue
osservazioni a un mercato del lavoro ufficiale dinamico, vivacissimo, tipico di
un periodo di piena occupazione virtuale12. In una simile condizione,
la diffusa pratica in‑out offriva non solo la possibilità di cambiare spesso il
tipo di occupazione, ma anche il gradevole agio di frequenti periodi di
inattività. Il sick‑role
era idoneo
a interpretare una specie di periodo supplementare di vacanza, quando
l'individuo si asteneva temporaneamente dagli obblighi della produzione e, di
conseguenza, dalla conformità. Quella attuale non può che essere descritta come
una situazione diametralmente opposta: l'esclusione dal mercato del lavoro
ufficiale sembra permanente o si annuncia, nella più ottimistica delle ipotesi,
di lunga durata. Uniche possibilità per gli esclusi rimangono le prestazioni
precarie, sottopagate, connesse in più di un'occasione con l'economia illegale e
che fanno anche del tossicodipendente un individuo altamente produttivo. La sua
compulsione, infatti, è costituita da un sapiente intreccio tra deprivazione
economica, dipendenza dal mercato e dipendenza dalla sostanza: di qui,
probabilmente, la sua iperattività13.
* * *
Altro topic piuttosto diffuso, che ha radici
nel repertorio delle categorie tradizionali, vuole che il mondo dell'eroina sia
contraddistinto da alterità culturale e trasgressione dei valori comuni. La
ricerca sul campo, in Gran Bretagna, ha messo in rilievo uno scenario a dir poco
contraddittorio, dove trasgressione e conformismo sembrano convivere e dove
l'intensità di entrambi rivela esasperazioni valutabili solo se riferite al
quadro culturale generale. Molti ragazzi intervistati nel Nord Inghilterra
ammettono che, dopo l'iniziale sentimento di complicità, nei gruppi dediti al
consumo di eroina si scatenano attitudini di reciproca intolleranza e di
competizione aggressiva. Non pochi lamentano l'incombere di sinistri
"pugnalatori alle spalle" nelle stesse comunità che un tempo osservavano, se non
altro, principi di reciproco rispetto14. E’ tipico l'esempio relativo
ai rapporti tra i giovani neri
caraibici e i
giovani bianchi. Questi ultimi, se commettono l'ingenuità di cercare la "roba"
nelle aree dell'immigrazione di colore, non solo non incontrano la comprensione
che ci si aspetterebbe da coetanei dotati di una "antica" cultura della droga,
ma vengono spesso maltrattati e derubati15. La cosa si può spiegare
con la tradizionale cultura della cannabis propria dei giovani neri, i quali
sono propensi a considerare gli eroinomani al pari di rampolli degenerati della
razza bianca e come tali meritevoli di ogni penalizzazione. Secondo
un'interpretazione di tipo economico, invece, coloro che sono impegnati nel
mercato delle droghe leggere non vedono con favore l'irruzione dell'eroina,
temendo il potenziale predominio della nuova droga e il suo prevedibile
monopolio dell'economia illegale16.
Identici meccanismi di competitività sono in
atto, del resto, tra i gruppi della stessa etnia e della medesima cultura. Non è
raro che si verifichi, in condizioni di relativa carenza di sostanza sul
mercato, un conflitto di tutti contro tutti nel tenere celati il luogo e la
persona provvisti di eroina da smerciare. Né è infrequente che, tra amici, il
terrore di rimanere senza sostanza conduca a comportamenti di ingenerosità o di
spietato individualismo. Molti, contravvenendo a una consuetudine che si credeva
immutabile, rifiutano di offrirne una dose e respingono quel tacito sodalizio
secondo il quale quella dose verrà prima o poi restituita. Risulta inoltre che
si verifichino episodi "predatori" all'interno della stessa comunità degli
eroinomani: molti piccoli spacciatori adottano ogni misura di sicurezza per
sventare le possibili rapine da parte di loro concorrenti o di semplici
consumatori abituali disperati17.
E’ un fatto che la sostanza, in passato
ritenuta un artificio capace di mediare e favorire il rapporto con gli altri,
oggi finisca per promuovere un semplice rapporto, notevolmente drammatizzato,
del consumatore con se stesso, E la cosa non deve destare stupore se si
considera che la cultura della droga spesso corrisponde, anche se in forme
paradossali e devastanti, alla cultura egemone nella cosiddetta società sana. I
rispettivi elementi costitutivi possono somigliarsi in maniera inquietante. Si
pensi a quella che un nostro sociologo ha definito "cultura dell'io", intesa
come rigetto delle azioni pubbliche e collettive; alla visibile difficoltà di
mettere in atto forme di cooperazione; al livore urbano
che
dissuade dai comportamenti solidali18. Si torni per un attimo al
mercato dell'eroina, dove non si può mancare di cogliere come siano possibili,
anche in questo mondo "trasgressivo", modalità conformiste di carriera, processi
di accumulazione di ricchezza e formazione gerarchica dei ruoli "produttivi" non
solo nelle fasce imprenditoriali e di élite di questa specifica attività, ma
anche tra coloro che ne costituiscono la base di massa.
La letteratura sociologica e criminologica
britannica offre splendidi studi dell'evoluzione dei ghetti, evidenziando la
formazione, all'interno delle stesse micro‑attività illegali, di leadership
economiche e sofisticati diagrammi di potere19. Analoga evoluzione in
senso gerarchico ha avuto luogo nell'economia delle droghe pesanti, dove la
spinta alla capitalizzazione è testimoniata dalla estrema varietà dei ruoli e
dal continuo ricambio della sua forza‑lavoro. L'elevata resilienza della sua
struttura risulta essere di cruciale importanza laddove il rendimento medio
di chi vi
"lavora", visto l'inevitabile arresto, si aggira su valori piuttosto bassi.
Diversificazione, vertiginoso turn‑over,
alta
concorrenza tra la mano d'opera, sfruttamento, fanno dell'azienda eroina
un modello
poco difforme dalla cosiddetta imprenditoria d'avventura. La desolidarizzazione
tra chi ne fa parte emerge in non poche testimonianze: "L'ipocrisia è essenziale
per il junky, in un primo momento per proteggere la propria immagine pubblica
dalle ovvie conseguenze dell'eroina, e in seguito per evitare di dover dividere
la propria
roba con
altri". Gli eroinomani sono sempre più sospettosi l'uno dell'altro. "Temono più
un compagno di sventura di quanto non temano la
polizia"20.
Altri palesi elementi di conformismo vengono
alla luce quando si indagano i rapporti fra i due sessi. Agli eroinomani di
sesso maschile non sembra estraneo l'uso strumentale della propria condizione
per costringere madri, sorelle e gir1‑friends
all'erogazione, in senso
unidirezionale, di servizi
emozionali.
Nelle
rilevazioni di Mc Robbie, ai ragazzi tossicodipendenti non piacciono le coetanee
che bevono o fanno uso di droghe per gli effetti sgradevoli che inevitabilmente
si manifestano "sul corpo femminile"21. Secondo uno stereotipo che
vige anche all'interno della comunità dei tossicodipendenti, alla donna viene
spesso attribuito un ruolo di nurse
o di
assistente sociale privata cui è richiesto di prodigarsi per il benessere
dell'uomo. Una sedimentata divisione dei ruoli, infatti, vuole che molti ragazzi
inaugurino periodicamente delle fasi di divezzamento dall'eroina nelle quali,
insieme ai tentativi di ricomporre un rapporto di affetto ritenuto necessario,
sono implicite la propria posizione di protagonista e quella tradizionalmente
gregaria della partner. Quest'ultima ne riceve una illusoria gratificazione,
trovandosi nella posizione di chi è chiamato a redimere un individuo, ancor più,
avvertendo di «averla spuntata sulla rivale eroina". Ecco allora l'erogazione di
una serie di servizi di natura assistenziale che fungono da rinvigorimento
fisico e rinforzo psichico. Una volta usufruitone, l'eroinomane tornerà all'uso
abituale della sostanza con intermittenti periodi di cura, fatti di nuove
prestazioni materiali e affettive da parte dell'inesauribile
partner22.
In altri casi, una ragazza con partner dedito
abitualmente all'eroina non sembra avere scelta: "non potendo competere con una
rivale di tale potenza chimica, o abbandona il campo o assume la stessa
abitudine"23. L'uso abituale, per di più, espone la ragazza a una
doppia penalizzazione: sarà stigmatizzata in quanto dedita alla sostanza
"maledetta" e sarà riprovata in quanto l'eroina non le lascerà tempo e danaro
per curare il proprio aspetto. In molte coppie, inoltre, le donne si sacrificano
prostituendosi onde evitare che i partner, già recidivi, compiano altri atti
illegali e si espongano a condanne più severe. Nelle considerazioni di Marsha
Rosenbaum, la donna eroinomane viene definita "merce danneggiata" che non gode
di gran considerazione neppure nel suo stesso entourage. Secondo il sentimento
convenzionale condiviso anche da molti eroinomani, dunque, "le donne non
dovrebbero farsi24.
* *
*
Le descrizioni di Burroughs relative a una
trentina d'anni fa non si addicono davvero al mondo contemporaneo
d'eroina25. L'irruzione della sostanza nelle città britanniche ha
sortito effetti di natura involutiva e spiccatamente conservatrice. Interi
ghetti si autogovernano per il tramite di un . piccola economia, in bilico tra
il legale e l'illegale che, come Si
è suggerito, è
connessa all'economia informale. La competizione interna non soltanto alimenta
l'autodisciplina, ma mette in campo un repertorio di sanzioni e di risposte
strumentali: il ghetto funge da polizia di se stesso. La stessa caratteristica
di immobilità geografica tipica di chi fa uso abituale di droghe pesanti, a ben
vedere, costituisce un ulteriore elemento di conservazione. Si pensi al costume,
molto diffuso negli anni della "swinging
London", secondo il quale i giovani lasciavano la famiglia e si spostavano
con frequenza da un luogo e da un lavoro all'altro: questo "educativo" nomadismo
non sembra compatibile con l'uso di routine dell'eroina e con l'economia
stanziale che lo sottende.
Quest'ultimo punto merita la seguente breve
riflessione. La ricchezza materiale e culturale, così come la disposizione al
nuovo, sono spesso sinonimo di dovizia nei rapporti comunicativi e di mobilità
sociale. Se ne riceve una netta sensazione quando si osserva una città come
Londra, dove la povertà coincide con una severa limitazione della possibilità di
spostarsi e dove i mezzi di trasporto si avviano a diventare beni voluttuari.
Ora, l'immobilità di coloro che assumono abitualmente eroina è congruente con la
politica assistenziale governativa degli ultimi anni, che costringe i giovani a
cercare nell'ambito della famiglia la fonte del loro sostentamento. L'assistenza
viene infatti garantita solo a coloro che conservano il luogo originario di
residenza e desistono dall'idea di riversarsi nel più prospero Sud, o di
aggiungere con la loro presenza un supplemento di tensione nel mercato del
lavoro delle gran di città26.
Non si intende qui suggerire una nozione
cospirativa dell'autorità; si desidera mettere in evidenza come gli effetti
sociali dell'eroina siano consonanti con le politiche di restaurazione e
preparino il terreno a una poco problematica governabilità. Né si crede alla
teoria del complotto secondo la quale l'autorità, travestita da pusher, cerca di "drogare" e
neutralizzare le comunità conflittuali. Al contrario, pare si possa dubitare
della stessa plausibilità del termine pusher. La ricerca dimostra,
contrariamente alle fantasie corrive, che nessuno spinge all'uso delle droghe o contamina,
a mo' di untore, quelle fragili comunità che offrono una potenziale clientela.
Tutti gli intervistati nelle inchieste più recenti affermano che la prima
offerta di droga avviene da parte di persona molto amica, di partner, amante,
marito o moglie. 'Friends not pushers"
è divenuto un prologo obbligato per tutta la letteratura
sull'argomento27. E questo elemento aggiunge ulteriore riprova del
fenomeno "autocontrollo del ghetto"
cui si è fatto cenno e che già altri autori hanno efficacemente
sottolineato28.
Autocontrollo e "desolidarizzazione", già manifesti al]'interno della comunità dei consumatori abituali di droghe, presentano poi espressioni esasperate nei rapporti tra quest'ultima comunità e quella esterna. Lo stigma crescente basato, da una parte, sulla frettolosa considerazione della improduttività del ghetto, dall'altra sulla consueta demonizzazione della sostanza, si traduce in episodi di ostilità e di violenza. Ne costituisce un esempio estremo la formazione, a Liverpool, di squadre di "giustizieri morali" ' che puniscono chi è in odore di eroina e ricorrono spesso al raid, con sequestro della sostanza contro i presunti piccoli spacciatori. Si possono sollevare dei dubbi sulla reale ispirazione di questi volontari della vigilanza, se accade persino che l'eroina sequestrata venga poi reintrodotta nel mercato dagli stessi moralizzatori29. E’ uno degli altri effetti dell'irruzione dell'eroina: uno stimolo alla concorrenza ad ogni costo, che presenta singolari consonanze con la propaganda del "self‑employment", con lo slogan "inventati un lavoro da te".
A conclusione di queste note, vale la pena segnalare un
ultimo elemento caratteristico del panorama britannico, vale a dire il numero
oscuro presumibilmente molto elevato dei consumatori di droghe pesanti. È segno
che anche l'uso di eroina può essere, per così dire,
compatibile con condotte "normali". Recenti ricerche hanno consentito di
stabilire l'esistenza di
un'ampia fascia di consumatori di droghe in grado di controllare, in totale
autonomia, quei processi di "decision-making"
che scandiscono le fasi di uso piacevole,
astinenza, cura, riduzione quantitativa e rotazione qualitativa della
sostanza30. Una significativa distinzione
linguistica, adottata anche dalle agenzie ufficiali, mette infatti in rilievo le
seguenti possibili varianti: uso, abuso, uso errato (use, abuse, misuse)31. La
controprova di questo fenomeno è molto eloquente: solo il 5% dei
tossicodipendenti obbligati al ricovero in clinica o in centri riabilitativi
abbandona poi l'uso abituale della sostanza. Le percentuali, al contrario, sono
molto incoraggianti quando il tipo di trattamento e l'opportunità dello
stesso vengono scelti autonomamente dagli
utenti32. Una intrigante risposta di "razionalità" da parte
dei consumatori di droghe rivolta a quella tradizione di ricerca che si è
prodigata lungamente a indagare sulla loro
irrazionalità.
V.R.
NOTE
l.
R.A.Cloward‑L.E.Ohlin, Delinquency and
Opportunity, London,1961.
2.
R.K.Merton, Social Structure and Anomie
in "American Sociological. Review", N3, 1938. Dello
stesso autore si vedano i saggi pubblicati in lingua italiana in Teoria e struttura sociale, Bologna
1971.
3. Questa interpretazione ,
oltre che presente nella letteratura specializzata, è anche cara alla cultura
musicale degli anni
'60. Sarebbe fin troppo
semplice, a questo proposito, citare brani delle canzoni degli Stones, Dylan,
Janis Joplin, Grateful Dead (nome sinistro quanto significativo: i morti
riconoscenti), del torturato Leonard Cohen o dei Velvet Underground che nella
loro Heroin così si esprimono: "I’m
going to try the Kingdom if I can".
4. Mi riferisco a quelle
posizioni che si possono definire di "ossessione terapeutica" e che cercano
elementi di disagio e carenze di identità in ogni condotta di indulgenza nei
confronti delle droghe. Ne è un esempio la pubblicazione, per altri versi
utilissima, edita dal periodico "Le Scienze", La droga a cura di V. Andreoli, Milano
1984.
5.
AA.VV., Scoring Smack: the Illicit Heroin
Market in London in "British Journal of Addiction", N 8,
1985.
6.
A.Heriman‑R.Lewis‑T.Malyon, Big Deal. The
Politics or the Illicit Drugs Business, London 1985.
7.
J.Auld‑N.Dorn‑N.South, 'Irregular Work, Irregular Pleasures: Heroin in the
1980s" in AA.VV., Confronting Crime,
London 1986.
8.
G.Pearsons, The New Heroin Users,
Oxford 1987.
9. Relativamente a questo
approccio, mi limito a segnalare il saggio ormai classico di AA.VV., The Social Structure of a Heroin Copping
Community apparso in "American journal of Psychiatry", november 1971.
Per
la Gran Bretagna, si veda G.Pearson‑M.Gilman‑S.Moiver, Young People and Heroin: an Examination of
Heroin Use in the North of England, Health Education Council Research Report
N 8, London 1986.
10.
R.Hannol‑R.Lewis‑S.Bryer, "Recent Trends in Drug Use in Britain" in Druglink, N 19, 1985. E il recente
N.Dorn‑N.South, A Land Fit for Heroin:
Drugs in Britain in the 1980s, London 1987.
11
. Una minuziosissima indagine relativa ai comportamenti economici quotidiani
delle comunità di eroinomani è compresa in AA.VV., Taking Care of Business: The Economic of
Crime by Heroin Abusers, Lexington 1985.
12.
T. Parsons,
The Social System, London 195 1.
13. E‑Gafio‑V.Ruggiero‑R.Silvi,
Gli Ostelli dello sciamano; Alle radici
della tossicomania, Milano 1980. Sullo stesso argomento si veda V. Ruggiero,
La droga come merce in "Criminologia"
N. 5/6, febbraio 1986.
14.
T.Stewart, The Heroin Users, London
1987.
15.
G.Pearson,
op. cit.
16. Di questo si è lungamente
discusso nel convegno "Law and Order in the 80s" tenutosi a Londra nel febbraio 1986. Per un resoconto critico di tale
convegno si veda V.Ruggiero, La
criminologia critica: un ricordo in "Criminologia N. 7, marzo 1986.
17.
T.Stewart,
op.cit.
18. L.Gallino, Della ingovernabilità, Milano 1987.
19. La bibliografia
sull'argomento sarebbe sterminata; non si può fare a meno, tuttavia, di
segnalare M.McIntosh, The Organisation of
Crime, London 1975; K.Chesney, The Victorian Underworld, Harmondsworth
1972; J.White, The Worst Street in North London, London
1986 e la ricca letteratura cui in questi
testi si fa riferimento.
20.
T.Stewart,
op.cit.
21.
A.McRobbie,
"Settling Accounts with Subcultures: a Feminist Critique" in Screen Education N. 31, 1980.
22. Ho raccolto queste
informazioni nel corso di mie interviste che fanno parte di un lavoro più ampio
in via di pubblicazione. Per quanto riguarda la dedizione femminile al cospetto
della seducente figura dell'eroinomane, si veda L.Eíchenbaum‑S.Orbach, What do women want?, London 1984.