Prof. Masanori Kumagai (Univ. Tokushima / Japan)

 

Il "vuoto" nella religione buddista secondo Keiji Nishitani.

Confronto con il cristianesimo

 

Questo contributo, dedicandosi alla filosofia della religione di Keiji Nishitani, espone prima il concetto centrale del "vuoto" della religione buddista per confrontarla, poi, con la religione cristiana.

 

1. Il concetto del "vuoto" nel buddismo secondo Keiji Nishitani

 

       a) Prefazione

       Vi sono oggi 90 milioni buddisti in Giappone, che fanno 75% dei 120 milioni Giapponesi (1994). Ma è incerto il numero di coloro che credono veramente al buddismo. Tuttavia molti buddisti deplorano lo stato presente del buddismo e non sono contenti delle riforme, perché creano delle difficoltà di mantenere ancora l'eredità nei templi buddisti. Molti temono che il buddismo svanisca man mano. È però anche un innegabile fatto che non tanti giovani studiano così intensamente ai templi buddisti come qui studenti cristiani all'Università Lateranense. Ma la gente semplice è ancora interessata allo zen. Normalmente nelle riunioni zen partecipano circa 10-15 persone. In una riunione zen a Tokushima cui io partecipo sono attorno a 10 persone che fanno esercizi un’ora alla mattina due volte alla settimana. Si è convinti che il buddismo giapponese non cadrà, nonostante il fatto che esso ha perduto della forza di tempi anteriori. Esso è anche oggi aperto a ciascuno che cerca la verità del buddismo.

       È ben noto che il buddismo si basa sulla dottrina di Budda del VI secolo av. Cr. e dei suoi discepoli. Il buddismo di quel tempo viene chiamato "buddismo originale" e sta anche oggi all'inizio della meditazione. Si è sviluppato in diversi indirizzi in Asia Est, in Cina, Corea e Giappone, e subisce cambiamenti più o meno forti. Non si sa precisamente quante sette del nembutsu e dello zen buddismo vi sono in Giappone. Per ciò per me è difficile fare una conferenza sulla filosofia buddista, non essendo un ricercatore del buddismo, né un buddista autentico. Sono soltanto filosofo che si occupa da molto tempo della filosofia europea. Del resto noi giapponesi non sappiamo quali informazioni sul buddismo gli uomini non-buddisti hanno, per esempio i cristiani, e in che misura si interessano del buddismo.

       Avendo un grande interesse nel buddismo e partecipando ad esso ogni giorno, mi sento obbligato e spinto a rispondere a questioni che concernono l'essenza della religione buddista, in comparazione con quella cristiana. Vorrei avvalermi della comprensione del buddismo di Keiji Nishitani (1900-1990). Egli era un grande e famoso filosofo in Giappone che ha sviluppato il buddismo giapponese nella sua dottrina del vuoto, ricercando il profondo significato di questo concetto fondamen-tale del buddismo. L'essenziale della sua dottrina si trova nel suo libro famoso: Che cos'è la religione? che fu tradotto anche in tedesco e inglese. A mio parere un aspetto della sua filosofia del vuoto si trova già nel buddismo originale. Penso che il buddismo consista nell'apprendere la filosofia del vuoto e di praticarla nella vita quotidiana. In seguito esporrò gli aspetti principali della concezione di Nishitani sul vuoto che forma il nucleo della sua religione ed etica buddista.

 

       b) Il tema centrale del vuoto nella filosofia di Keiji Nishitani

       Nishitani chiarisce nella sua filosofia che cosa significhi il "campo del vuoto" ossia la "posizione del vuoto": esso è, in una parola, il modo del nostro proprio essere che possiamo e dobbiamo realizzare ed attuare in noi stessi. Che cosa significa il "campo del vuoto"? Questo non si trova soltanto negli uomini asiatici e buddisti, ma anche in cristiani, come in San Francesco, un santo famoso pure per i giapponesi, il quale si appropriò il campo del vuoto.

 

       c) Su San Francesco d'Assisi

       Quando si basa sulla posizione del vuoto, si può amare tutti gli uomini e tutte le cose come se stesso. La posizione è di modo tale che il sé si vede in tutte le cose, gli animali, le montagne e i fiumi, nelle città e nei villaggi, nelle pietre e persino in una tegola rotta e ama tutte queste cose come se stesso. Si tratta però di un sé che è stato annientato (Nishitani, Che cos'è la religione, p. 418).

       In ciò consiste "la misericordia nel buddismo", che si estende su tutti gli esseri viventi, essendo non soltanto un sentimento filantropico per una fraternità universale, bensì origina dal carattere essenziale del buddismo come religione (p. 419).

       Per Nishitani Francesco era un cristiano straordinario. Come è noto, Francesco ha vissuto in mezzo della natura con amore con gli uccelli e con le bestie. Questo amore religioso con tutte le cose realizza il campo del vuoto. Quando patì un male degli occhi e dovette subire una cura con un ferro ardente, egli parlò con il fuoco e con il ferro in modo amoroso affinché possa sopportare l'ardore. Facendo il segno della croce sul ferro ardente aprì il campo del vuoto laddove il fuoco cessa di essere fuoco per Francesco.

       Nel campo del vuoto si costituisce un rapporto reciproco tra l'uomo e le cose del compenetrarsi vicendevolmente laddove le opposizioni convengono in un'unità, fino all'auto-identità. Allora l'altro diventa lo stesso fine come il sé (p. 423).

       Paradossalmente, però, nel campo del vuoto il soggetto e l'oggetto ricevono le loro proprie forze. L'altro diventa proprio l'altro. Ogni uomo e ogni cosa arrivano al loro proprio posto e al suo proprio modo dell'essere.

 

       d) Lo stato iniziale di "autocentricità" dell'uomo

       Con quale ragione Nishitani afferma che il campo del vuoto sia il più importante dell'uomo? Perché introduce la sua dottrina del vuoto? La risposta è che l'uomo nel suo stato normale iniziale vive in modo improprio e vede anche l'altro nella sua esistenza impropria. Come Nishitani intende questo stato improprio?

       Visto storicamente, con la secolarizzazione fin dall'inizio dei tempi moderni crolla, insieme al sistema teleologico di un ordine divino del mondo, anche la gerarchia dei valori (p. 357). Dietro quella gerarchia dei valori crollata si manifesta nell'uomo un "impulso infinito", il quale spinge avanti verso un fine illimitato, avendo se stesso come fine, e perciò non ha nessun fine. Lo storiografo Toynbee lo chiama "autocentricità" (p. 311).

       Quasi tutti gli uomini fin dai tempi moderni vivono secondo questo impulso, il quale si innesta in loro, li racchiude in se stessi e fa perdere il senso della vita. Cadono in un nulla e diventano nichilisti.

       In questo stato gli uomini ritengono il mondo come senza senso e vedono se stessi e il mondo avanti a un nichil abissale, che si manifesta come campo del nulla, quando Dio e il suo ordine crollano. Anche nella relazione familiare con gli altri, persino con i vicini, si apre infine una distanza abissale. Nel mondo intero, nel decorso dei tempi fuggitivo, si rivela la caducità. Niente è eterno.

       La caducità delle cose induce poi gli uomini a una leggerezza di vivere lieti, sopprimendo l'angoscia e lasciando dietro il passato, con libertà autonoma, per godere il presente. Inoltre, c'è quell'impeto che ci spinge avanti e ci costringe sempre di fare e creare qualcosa, nonostante la mancanza del senso e il fatto che tutto si scioglie nel corso del tempo.

       Questa costrizione nella libertà di accedere sempre nuovi compiti, lasciando altri, è il karma, "una dinamica contraddittoria in se stessa" che ci mette in connessione con gli altri e di stare in comunicazione con le altre cose, essendo sottoposte agli influssi di esse, in una concatenazione infinita.

       La causa di tale concatenazione fatale è, in ultima analisi, "l'autocentricità" (p. 366) che ci costringe di fare sempre qualcosa, volente nolente, come perseguitati da qualche fato – il che desta in noi il sentimento nichilistico dell'assenza del senso.

       Quindi per Nishitani la coscienza del karma origina col pensiero della colpa e del peccato. Il peccato originale, si potrebbe dire, sia contemporanea con l'agire libero e l'esistenza dell'uomo (p. 375). Secondo Nishitani, karma è la libertà attaccata al sé e perciò determinata dalla connessione con la totalità del mondo, sebbene viene esercitata con autonomia arbitraria.

       La vita dell'uomo ha nel karma «la forma dell'attaccarsi della sua volontà a se stesso e del governare», e può essere intesa come il peccato originale. "L'impulso infinito", con cui l'uomo è rinchiuso in sé e centrato a sé, è segnato dalla mancanza di senso e dalla distruzione nel karma; si chiama avidya originale, essendo una ignoranza fondamentale, una cecità ed oscurità assoluta" (p. 376). Si manifesta nel crollo della gerarchia dei valori. Potremmo vivere senza l'autocentricità, ma essa è innestata profondamente in noi stessi. Ciò nondimeno l'uomo deve superarla per non distruggersi in fondo.

 

       e) La via dell'annientamento del sé egocentrico

       Solo attraverso la grande ignoranza e l'autocentralità si arriva a quel luogo del vuoto, in cui noi diventiamo noi stessi, e le altre cose diventano se stesse. Diventare se stessi significa proprio il negare del sé centrato in se stesso e liberarsi dall'autocentricità.

       Il tentativo di raggiungere il luogo del vuoto sembra implicare qualcosa di contraddittorio: infatti come il sé potrebbe negare se stesso se non rimanendo il sé l'agente dell'autonegazione? Sembra che non possa abbandonare se stesso, ma mantenendosi resta nell'autocentralità. La risposta è che l'uomo non raggiunge il luogo del vuoto dicendo che il sé diventi il vuoto, bensì che il vuoto diventi il sé. Ossia, dopo la totale autonegazione il sé diventa nel vuoto e arriva a una nuova affermazione.

       Riflettendo più profondamente possiamo dire che non la volontà viene negata ma la sua autocentralità. L'ego deve diventare non-ego. Il sé deve avvenire nel non-sé.

       Questa azione è spontanea e per così dire "naturale", come un gioco che provoca piacere. Ciò malgrado si avvicina a un compito serio. L'azione dell'autonegazione, in quanto naturale e quasi giocosa, è innocente, ma nondimeno seria, in quanto dovuta all'altro.

       Effettuando l'autonegazione e agendo così con naturale spontaneità, ogni ente arriva al suo vero sé al suo proprio luogo, al suo centro assoluto, in una vera "autocentralità" non-egoica. Tutte le cose si compenetrano come "centri assoluti" senza periferie.

       In tal modo il campo del vuoto è il luogo, il quale dona la vita non solo al sé, ma anche all'altro, non solo agli uomini, ma anche alle altre cose. In questo campo le cose mostrano la loro originale realtà, dove anche la più semplice delle nostre azioni prende origine (p. 204).

       Quindi si chiarisce che significhi, secondo Nishitani, il vuoto come il sé: esso cioè si rivela come la possibilità dell'essere delle cose. Esso non è soltanto consapevole a noi ma esiste nel suo vero fondo, nel suo essere per sé, aprendo il campo del vuoto, nel quale il mondo e le cose diventano possibili (p. 242).

 

       f) Il sapere nel "vuoto", al di là del soggetto e dell'oggetto

       Il campo del vuoto è «la rete della compenetrazione vicendevole che connette tutte le cose» (p. 241), nel quale esse diventano possibili, realizzabili e conoscibili. Tuttavia non vengono comprese in una conoscenza oggettiva, bensì in un accorgimento del sé. Il nostro essere in quel luogo è un accorgersi se stesso, è un conoscere del non-conoscere, perché provenendo dal non-sapere. Intanto, tale sapere del non-sapere avviene come azione ossia come un fare, compiendosi da sé, in modo naturale e vero. Si arriva a questo stato attraverso esercizi. E solo nel campo del vuoto sapere ed esercizio diventano lo stesso.

 

2. La religione buddista in confronto con quella cristiana secondo K. Nishitani

 

       Dopo l'esposizione del "campo del vuoto" nella religione buddista cercherò di confrontarla con la religione cristiana nella quale tale campo del vuoto manca.

 

       a) La via della perfezione e della salvezza

       Nel campo del vuoto conoscenza e prassi, sapere e fare diventano identici. In questo campo le cose raggiungono la loro primissima realtà e rivelano la loro essenza (Nishitani, Che cos'è la religione?, p. 204, cfr. 287). Nel ambiente dove esercizio è veramente esercizio, i fenomeni degli uomini che muovono le loro membra, delle nuvole che migrano al cielo, dell'acqua che decorre, dei fogli che cadono e dei fiori che marciscono non hanno più nessuna forma nella nostra vista. Fare esercizio religioso significa acquisire una tale visione nella quale le forme determinate delle cose svaniscono.

       Il nostro fare ha un carattere normale, ma allo stesso tempo anche anormale, quando cioè proviene dalla negazione della volontà normale e del suo attaccamento al sé. Allora tutto il nostro fare si mostra così come è, cioè come un fare del non-fare (p. 204).

       Tale "fare del non-fare" non è né oggettivo, né consapevole. Quando noi vediamo una cosa in quella maniera "naturale", allora abbiamo più coscienza del "nostro vedere". Perciò già l'atto normale del vedere delle cose è un fare del non-fare. Detto in generale, nel fondo di ogni coscienza c'è una non-coscienza, il cosiddetto inconscio, (p. 244).

       Nel campo del vuoto laddove si trova il "sapere del non-sapere", e "il fare del non-fare", originano tutti gli enti sotto il loro proprio aspetto. La vera salvezza / redenzione è il lasciar libere tutte le cose per essere se stesse.

 

       b) La via del Budda: i quattro voti

       Nonostante che si dice generalmente che gli esercizi del buddismo mirano al satori ossia all'illuminazione ciò non vale nel campo del vuoto. Alla fine dello zazen si pronuncia "quattro voti universali" del Bodisatva. Il primo voto suona così:

«Faccio voto di salvare / redimere gli innumerevoli esseri viventi» (p. 404).

Poi, seguono gli altri tre voti. Il quarto e ultimo suona così:

«Faccio voto di compiere la via del Budda, il più sublime, in me» (ibidem).

Il compito primario del buddista è "la salvezza degli altri", che consiste nel superare l'autocentricità di cui ho parlato sopra..

       Questo superamento significa anche uccidere Budda, insieme a uccidere il nostro sé, vincolato con tante relazioni a noi stessi, e agli altri. Occorre accedere altre "relazioni assolute", allontanarci dal nostro essere attaccati a noi e agli altri. Perciò uccidere se stessi significa anche uccidere gli altri e Budda, affinché il vero sé originario ritorni, cioè il suo vero fondo.

       L'uccidere gli altri e Budda è la via sulla quale viene ridata la vita al sé, agli altri e al Budda. Si realizza la salvezza degli altri e di se stessi. Si assolve una "colpa non-colpevole agli altri".

       Si realizza anche una vera autarchia, la quale significa soltanto che il sé si rende vuoto e si lascia libero tutto. Il passaggio del buddismo dal Hinayana al mahayana implica, come è noto, una conversione alla perfezione e alla autarchia per cui si apre la posizione della grande misericordia (p. 420). Ciò si chiama "la via del Budda" (p. 393) ossia "la via del Bodisatva" (p. 406). L'amore religioso nella misericordia del buddismo riposa soprattutto sulla "negazione assoluta" di se stessi.

 

       c) Propria salvezza

       Poiché la propria salvezza, insieme a quella degli altri, avviene provenendo dal non-sé, questo evento è "momentaneo". Nel momento istantaneo tutto si genera nel mondo. Lo stesso fare non si ripete più in futuro. Il momento è totalmente infinito. Anche se un momento produce sempre un altro nel mondo, il precedente momento non svanisce, ma rimane nel prossimo, e rimane infinitamente, eternamente.

Mentre si può dire che l'esistenza di ogni cosa, nel campo del vuoto, è finito in ogni momento, essa è anche radicata nell'eterno, essendo veramente infinito.

       I voti di intenzione infinita, i quali si promettono in risposta alla realtà infinita, indicano un'infinitezza che si trova alla base dell'esistenza, rivelandosi come la vita infinita dell'esistenza stessa. L'accorgimento di questa vita è l'espressione della via del Bodisatva buddista.

       La posizione, nella quale il sé ritorna nel fondo di tutti gli altri enti e finisce in essi, deve essere dischiusa attraverso la negazione totale del sé nel suo voler-dominare di se stesso. Visto moralmente, il sé non può essere auto-fine nel senso tradizionale. Anzi, anche la persona deve diventare cosa per gli altri, il che avviene soltanto nel campo del vuoto, al di qua della nostra vita (p. 410).

 

       d) Confronto con pensatori occidentali

       La propria salvezza, insieme a quella degli altri, come "la via del Budda" o "la via del Bodisatva", sorpassa, secondo Nishitani, l'etica di Kant. Il terzo imperativo di lui suono: «Agisci così che tu tratti il genere umano sia nella tua persona sia nella persona di qualsiasi altro sempre simultaneamente come fine e non mai meramente come mezzo!». "Il genere umano" dovrebbe dunque essere trattato, secondo Kant, sempre anche come fine. Nella via del Bodisatva, però, si vede il fine in tutti gli enti. Inoltre, il fine come oggetto cui mira la volontà, viene negato. L'agire o il fare, in questa via buddista, si intende come un evento naturale, proveniente dal non-sé, perché questa via è "naturale".

       Questa posizione, sorpassando l'etica di Kant, è quella della religione. Vale anche, secondo Nishitani, per il cristianesimo, inteso nel senso dello scritto di Martino Lutero: «Sulla libertà di un uomo cristiano». Si legge qui all'inizio: «Un uomo cristiano è un signore libero su tutte le cose e soggetto a nessuno. Un uomo cristiano è un servo utile a tutte le cose e soggetto a ognuno». Le due proposizioni corrono verso lo stesso significato. Soltanto chi nella fede ritorna a Dio e acquisisce in lui la libertà di un signore superiore a tutte le cose, può diventare, da quel luogo della negazione del sé e dell'auto-signoria, il servo di tutte le cose. E viceversa: soltanto chi è in grado di diventare il servo di tutte le cose e di vuotare il suo sé fino al nulla, può essere in Dio a casa, come signore su tutte le cose e diventare il soggetto di tutte le cose. Si riconosce qui una relazione profonda tra il sé e tutte le cose nella loro compenetrazione vicendevole (p. 411). Questa si compie, come spiegato sopra, nel campo del vuoto.

 

       e) Misericordia buddista con tutto

       Nel buddismo la misericordia è simile a quella nel cristianesimo. Il "luogo" dove si "ama Dio" è simile al campo del vuoto realizzato dal buddista. Proprio qui si genera la misericordia. Perciò anche i cristiani credono che possano amare il prossimo veramente soltanto nell'amore di Dio.

Nel campo del vuoto avviene la propria misericordia e il vero amore, perché qui il sé diventa il proprio sé, e l'altro il proprio altro.

       Il campo del vuoto soggiace a tutti gli enti, compresi gli uomini. Perciò questo campo abbraccia tutti gli altri campi superati anteriormente. Solo nel campo del vuoto può crearsi il campo della coscienza, con la posizione del nulla. Questo campo sta alla base di tutti gli altri campi.

       Né la sfera della coscienza, né quella del nulla possono trovarsi separatamente dal campo del vuoto. Prima che le cose prendessero la forma di realtà esterna, sono presenti con la loro vera faccia nel campo del vuoto. Nel vuoto le cose sono a casa veramente e radicalmente. Prima di accorgere le cose nella rappresentazione della coscienza come oggetti le vediamo nel vuoto, al di qua della nostra vita, con un accorgimento autentico (p. 188).

       Chi dimora nella "sfera della coscienza" la ritiene come la migliore. Ma perciò non sa che essa basa sul campo del vuoto. Chi invece dimora nel campo del nulla ritiene questo come il più alto e pensa che vi sia soltanto il nulla, senza limitazioni. Per conseguenza anche per questo atteggiamento non si apre il vero aspetto di tutti gli enti dei diversi campi. Soltanto chi arriva all'atteggiamento di accorgersi di tutti gli enti nel campo del vuoto come diventino essi stessi (nel loro proprio essere) acquisisce il sapere quel campo del vuoto è il fondo di tutti gli enti. Esso è al di là di tutte le altre sfere, andando in alto, e al di qua delle altre sfere, andando in fondo.

 

       f) Ad alcune questioni sul buddismo dal punto di vista occidentale

       Dopo le mie spiegazioni sul buddismo secondo Nishitani, vorrei aggiungere brevi osservazioni circa alcune questioni su questo che si pongono nell'occidente.

       Si legge spesso in rappresentazioni sul buddismo che esso non è proprio una religione ma piuttosto una filosofia ossia un'etica. Allora sorge la domanda: che significhi per buddisti oggi "religione"? Forse il concetto giapponese "shukyoo" è un neologismo? Comunque, esso significa "dottrina del celeste", rinviando a un contenuto di cose celesti, divine, piuttosto che delle cose pratiche terrene degli uomini.

       Questa questione si pone naturalmente anche a noi giapponesi. Secondo Rinzai e Nishitani non si potrebbe raggiungere l'illuminazione religiosa, se non si uccida prima Budda e i genitori, il che corrisponde a un compito morale dell'auto-negazione (vedi sopra). In generale nessuno capirà che si debba uccidere Budda e i genitori che dobbiamo piuttosto amare e venerare. Tuttavia, attaccandoci a loro non possiamo seguire ciò che ci avvisano.

       Imitatio Christi significa che si conduce la stessa vita come quella di Cristo, il che ci divide dagli altri. Forse lo stesso accade nel dividersi da Budda uccidendolo per liberarsi da un falso attaccamento a lui? Si tratta forse di una "blasfemia di Budda" simile alla "blasfemia di Dio"? E non è forse simile tale blasfemia religiosa con la filosofia di Nietzsche? In tal senso forse il buddismo non sarebbe una religione bensì una filosofia?

       Inoltre, Nishitani non parla sulla fede in Budda o in Dio. Ma la fede non è forse la base della religione? Nel caso della fiducia in se stessi, di cui egli parla, oggetto e soggetto di questa è soltanto il sé, che arriva all'illuminazione. Facendo così, forse il sé diventa il più alto e il meglio, il quale deve essere venerato e amato? E perché "il servizio di Budda" e "l'auto-abbandono a Budda" si crea dalla fiducia nel sé, mentre piuttosto la religione è un servizio e un auto-abbandono a Dio?

       Con Nishitani forse si risponderà che la fiducia nel sé «lascia andarlo al suo proprio modo dell'essere al suo luogo idoneo» (p. 394). Ciò sarà forse qualcos'altro della fede in Dio o in Budda?

       Inoltre, quando qualcuno sta nel campo del vuoto, forse ciò vuol dire che si ponga tutti gli enti al di là "dell'essere e del nulla"? Ciò non significa forse che si venga liberati totalmente dall'essere e dal nulla, non essendo più attaccati all'essere o al nulla? Intanto, ciò non conduce forse a una vita selvaggia in libertà indisciplinata? In Nishitani il campo del vuoto viene superato non attraverso la religione ma attraverso la filosofia; infatti la salvezza del proprio sé in ognuno e negli altri si compie attraverso la fiducia in se stessi e, facendo così, proviene dal campo del vuoto. La domanda o l'affermazione che il buddismo non sia una religione ma una filosofia, soprattutto un'etica, in quanto nel buddismo non vi è una fede in Budda, sembra essere convincente anche a noi.

 

       g) Conclusione

       Budda vive nel nostro sé, il quale può uccidere Budda per ricevere nuova vita da lui. Uccidere Budda significa liberarsi da un falso attaccarsi a lui. Ma se noi perso-nalmente, poi, agiamo in modo naturale, seguiamo Budda, vivendo secondo la sua dottrina. Ciò rallegra Budda; infatti comincia a vivere egli in noi.

       Da questo punto di vista la fiducia in se stessi vuol dire di avere la fede che il campo del vuoto in noi ossia nel nostro sé si riveli, e che qui il proprio sé e quello dell'altro esistano, come pure tutti gli enti abbiano qui il loro proprio luogo.

       La fiducia in sé significa dunque di lasciare il sé al suo luogo, ossia di lasciare il sé al sé. E questa fiducia si compie come un avvenimento che proviene dal non-sé ossia dal vuoto, in modo radicale, giocoso e insieme serio, senza libertà sfrenata o indiciplinata. Infatti si tratta di un servizio e auto-abbandono a Budda, poiché il vero modo dell'essere nel campo del vuoto è proprio ciò che insegna Budda.

       Il campo del vuoto rende possibile il nostro modo di essere – cioè di essere liberati dal essere egocentrico e dal non essere che lo consegue – e rivela il luogo della "prassi benevola al proprio sé e simultaneamente agli altri", il luogo "della grande misericordia" e "dell'amore religioso".

       Il campo del vuoto viene compreso soltanto da chi lo raggiunge: "comprendere" qui significa, per Nishitani, realizzare e attuare. Se qualcuno partecipa allo zen gli si rivela qualcosa man mano, e cioè il campo del vuoto. Come menzionato sopra, la condizione necessaria di questo avvenimento è la fiducia o la fede in se stessi.

       Se questo è vero, allora soltanto colui che partecipa allo zen e fa zenbutsu capirà il campo del vuoto e lo realizzerà, lo attuerà. Le condizioni nel cristianesimo saranno simili. Lo comprenderà soltanto un cristiano che pratica la preghiera nella Chiesa. Ma allora forse non si intenderanno cristiani e buddisti, perché vivendi in realtà diverse, e non possono avere contatto fra di loro? Intanto, ambedue possono sperimentare il campo del vuoto.

       In tutte le religioni sarà qualcosa di comune. Sono sicuro che il primo principio nel buddismo è "la grande misericordia", cioè la salvezza di tutti gli enti. Quale differenza potrebbe esistere in questo punto tra buddismo e cristianesimo?

(Tradotto dall'inglese)

 

       Annotazione dal traduttore, Prof. Horst Seidl:

 

       Il testo è una compilazione da due conferenze preziose che il Prof. Masanori Kumagai ha tenuto alla Facoltà di Filosofia della Pont. Università Lateranense / Roma, sul mio invito; infatti sono attaccato a lui con ammirazione e amicizia, arricchito dalle molte conversazioni svoltesi durante una serie di anni tra di noi. Perciò mi permetto di aggiungere due mie osservazioni che si sono formate negli incontri fruttuosi con il caro Professore giapponese, riguardo a un confronto tra buddismo e cristianesimo.

 

       1. La mia prima osservazione concerne il fatto che il buddismo è un complesso fenomeno, con una componente religiosa e una filosofica. Ciò vale soprattutto per quella scuola di Kyoto cui appartiene Keiji Nishitani che ha assunto la filosofia heideggeriana nel buddismo. Egli infatti fu ritenuto "il Heidegger dell'Oriente". Mi ricordo ancora come negli anni '70 vennero suoi allievi al Seminario di Filosofia dell'Università di Monoco (Baviera) per studiare la filosofia di Heidegger presso il suo discepolo Prof. Max Müller. In quella scuola religione buddista e filosofia esistenzialista sono la stessa cosa. Venerava Heidegger come un'autorità religiosa cosicché era difficile per me esprimere una critica a Heidegger senza offendere la loro fede religiosa. Dovevo sempre sottolineare la mia distinzione tra il campo religioso e quello filosofico.

       La componente religiosa si trova già nel buddismo originario: Budda e i suoi compagni furono monaci. Tuttavia il loro zelo religioso diventò sempre più etico e filosofico cercando la pace e la liberazione da ogni desiderio e l'unità nella molteplicità, per arrivare a una superiorità a ogni miseria. La trovarono nella cosiddetta illuminazione, la quale di per sé è un'esperienza religiosa dell'estasi mistica, anche occidentale. Ma la ricerca, originariamente religiosa, finisce nell'etica, fermandosi nell'illuminazione stessa perché accompagnata da grande pace, gioia e liberazione da ogni egoismo e dalle sue miserie. Dalla prospettiva religiosa, però, l'illuminazione è soltanto uno stadio intermedio per arrivare alla comunione con Dio, come alla propria méta religiosa. Il buddismo perde di vista questa méta vedendo il divino nella stessa forza che il veggente sente in sé nell'illuminazione.

       Il Buddista presenta il diventare vuoti come avviso etico agli uomini, cioè di abbandonare l'autocentralità ossia l'egoismo con cui l'individuo si separa dagli altri e dagli oggetti e cerca di impadronirsi degli altri e di possedere tutto. Quindi l'avviso a ogni individuo di liberarsi dal proprio egoismo e lasciare gli altri e le cose nel loro essere indipendente. Ora, condividendo questo avviso che ha il suo diritto, tuttavia trovo difficoltà di accettare la premessa (di origine empirista) che lo precede, cioè che l'uomo è per natura sua un egoista cosicché per superare il suo egocentrismo egli dovrebbe annullare la sua natura. L'etica e l'antropologia della grande tradizione occidentale ci insegna che la natura dell'uomo è buona, già nell'ordine essenziale in lui con la superiorità dell'intelletto all'istinto e al corpo. L'egoismo entra dunque nell'anima solo attraverso una falsa educazione, esempi seducenti, cattive abitudini ecc. la cui correzione non significa l'annullamento della natura umana ma piuttosto il suo rafforzamento.

       Il male morale dell'individuo non consiste nel distinguersi dagli altri e dalle cose, neanche di avere la sua volontà individuale con cui aspira certi determinati fini buoni, ma piuttosto nella perversa volontà che aspira a fini cattivi (sotto l'apparenza di un bene). Lo stesso vale anche per il peccato dell'uomo dinanzi a Dio che non consiste nel trovarsi distinto da Lui, ma nella volontà perversa che antepone un bene apparente mondano a Lui. Perciò la correzione morale non si effettua nel tentativo dell'individuo di diventare identico con tutti e con tutto, ma di abbandonare i cattivi propositi, insieme al perverso volere, e di riconciliarsi, in tal modo, con gli altri e con Dio. Se io ho per es. commesso una ingiustizia a un altro, non mi riconcilio con lui, per il tentativo di svuotarmi – cioè di estinguere la mala coscienza morale – ma per il cambiare il mio ingiusto atteggiamento e nel ricompensare il danno apportato all'altro, ritornando così alla buona coscienza. Neanche l'esercizio di misericordia potrebbe sostituire il dovere di ricompensare ingiustizie commesse ad altrui.

 

       2. Vorrei osservare inoltre che la filosofia della religione di Nishitani rivela un empirismo che riduce la base della nostra conoscenza delle cose e dell'uomo a ciò che sperimentiamo tramite l'intuizione sensitiva. Perciò, se facciamo astrazione dalle singole cose e dagli uomini individuali sperimentate da noi nelle loro diverse forme determinate, allora rimane soltanto il nulla. Tuttavia, secondo la grande tradizione filosofica nell' Occidente, le cose naturali e gli uomini non posseggono soltanto un lato sensibile nei loro fenomeni empirici ma anche un lato intelligibile di caratteristiche essenziali che l'intelletto comprende, senza l'intuizione sensitiva.

       La ricerca dell'essenza delle cose, attraversando il medio dei fenomeni sensibili, non arriva al nulla, bensì alle cause costitutive immanenti delle cose, cioè negli animali a un principio psichico della loro vita, non più sensibile, e – in ultima analisi – a una prima causa trascendente, divina, comune a tutte le cose. Il buddismo parla impropriamente del "nulla" e lo intende nel senso di un fondo divino comune di tutte le cose, immanente in esse, il che equivarrebbe a un panteismo. Il vuotarci da ogni contenuto sensibile in noi non conduce, dunque, al nulla ma proprio alla nostra anima, della quale abbiamo autocoscienza.

       Non solo l'essenza, ma anche già il semplice esser-ci delle cose, e dell'intelletto stesso, è un aspetto intelligibile, non più sensibile, delle cose cui corrisponde proprio l'atto della coscienza. Per sbaglio il concetto moderno di coscienza, a partire da Descartes, l'identifica con la riflessione dell'io-penso, con la distinzione tra oggetto e soggetto e tante altre distinzioni, cosicché il buddismo, arrivando al nulla, nel senso positivo, come il vero fondo comune di tutta la realtà, insegna che non abbiamo più coscienza del nulla perché questo è al di là (o al di quà) dell'opposizione tra soggetto e oggetto, e la coscienza è sempre coscienza dell'io riflettente. Tuttavia, ciò non è vero; infatti la coscienza equivale a quel concetto tradizionale del "sapere concomitante" (con-scientia) sull'essere di tutte le cose, sia degli oggetti sia del soggetto stesso. Il Buddista non potrebbe parlare del "nulla" divino, come il vero sé e il fondo unico di tutte le cose e del soggetto, se non disponesse della coscienza di questo, ma gli manca il concetto adeguato di essa.