il Rimino - Riministoria


Perché nei nostri presepi
mettiamo la statuetta di una donnina
che porta un cestino di uova

di Ettore Masina


C‘era una volta una donnina che viveva fuori della piccola città di Betlemme. Si chiamava Yahèl. Non sapeva quanti anni avesse esattamente – o se lo era dimenticato; ma il suo corpo glielo ricordava ogni mattina quando lei si levava dal lettuccio: “Sono tutto un cigolìo, un tremito, un cuscinetto punta-spille – diceva il corpo: - sei vecchia, Yahèl, sei MOLTO vecchia”. Che cosa poteva rispondere Yahèl? Rivolgeva una preghiera al Signore che sta nel più alto dei cieli e cominciava a vivere la sua giornata.

Un tempo aveva avuto marito e figli ma tutti se n’erano andati: il marito in seno al padre Abramo, e così anche qualcuno dei suoi piccoli; gli altri figli, diventati adulti, a cercare lavoro, lontano, chissà dove. Non erano più tornati e forse avevano dimenticato come si fa a scrivere. Yahèl pensava: senza dubbio si sono sposati (almeno il suo Jacob certamente sì: così bello, con quei riccioli neri e gli occhi azzurri. Le donne, scostumate!, se lo mangiavano con gli occhi); e senza dubbio avevano avuto dei bambini. Alle assenze, alla solitudine Yahèl si era abituata (o lo diceva a se stessa per consolarsi); alla mancanza di nipotini, no. Una vecchia ha pure il diritto di stringersi al petto creaturine che, nuore permettendo, sono anch’esse uscite, si fa per dire, dal suo ventre – o, insomma, sono anche carne della sua carne e sangue del suo sangue. Questa mancanza di piccini che le stringessero un dito con le manine o le sfiorassero le guance tentando di attaccarsi ai suoi capelli era il vero, grande dolore della vecchia Yahèl.



Ma ecco che ho già sbagliato nel raccontarvi questa storia. Ho detto che Yahèl si levava dal giaciglio la mattina. La verità è che lei si alzava molto prima di quella che gli altri chiamano mattina: talvolta appena prima dell’alba, quando una lieve striscia come di latte luminoso si apriva nel cielo ad Oriente, altre volte, addirittura, quando ancora, come aveva udito cantare a una festa da Salomon, il poeta del villaggio, “la notte si pavoneggiava nel suo manto di stelle”. Il fatto è che i vecchi dormono poco, pochissimo (o, almeno, certi vecchi: io, per esempio, sembro impastato di sonno).

Una delle ragioni per le quali Yahèl dormiva tanto poco era che nel suo pollaio c’era un vecchio gallo bizzoso che, essendo vecchio anche lui, era di sonno brevissimo e molto prima dell’alba (talvolta mentre ancora la notte si pavoneggiava eccetera eccetera) lanciava le sue rauche grida, frantumando ogni silenzio e, quasi, ogni orecchio di essere umano e di animali. A quelle insensate vanterie le galline si svegliavano protestando - e subito litigando fra loro oppure raccontandosi eccitate chissà quali sogni appena fatti. Poteva Yahèl dormire ancora, a quello schiamazzo?

E non bastava. A un tiro di sasso dalla capanna della donnina c’era un accampamento di pastori. Quando il pollaio di Yahèl diventava una specie di apocalisse, i cani cominciavano ad abbaiare festosi (avevano davanti una giornata di lavoro, grandi corse, poco pane; ma evidentemente non se lo ricordavano: i cani sono meno intelligenti di quanto si creda) e le pecore si lamentavano di quell’improvviso frastuono con i loro beeh beeh che sembravano i lamenti di una signora che avesse il mal di testa. Allora si svegliavano anche i pastori e stirandosi a braccia levate si toglievano di dosso il sonno. Qualche volta accadeva che uno di loro andasse a chiedere un po’ d’acqua a Yahèl e accettasse di barattare (festa grande!) un pezzo di formaggio con qualche uovo.



Il pollaio era la grande ricchezza di Yahèl. Anche se il gallo, oramai, aveva più nostalgie che iniziative e quindi nel recinto nascevamo ben pochi pulcini, le galline erano piene di buona volontà. Volevano un gran bene a Yahèl: appena la vedevano le correvano sui piedi anche se non era l’ora del cibo e le rimanevano intorno, come vecchie amiche, quando lei sedeva sulla panca fuori della capanna, con le mani in mano, immaginandosi i nipotini che non l’avrebbero mai ricordata. Ogni mattina le deponevano sulla paglia una dozzina di splendide uova, grandi, di guscio solido - e spesso con due tuorli. Yahèl le portava a Betlemme dal vecchio mercante Joshua. Si conoscevano ormai da tanto tempo che la contrattazione che li impegnava ogni giorno era come un rito di sinagoga, una specie molto particolare di preghiera per rendere grazie all’Altissimo che protegge non solo le vedove e gli orfani ma anche i vecchi, la loro capacità di non rimbambire troppo in fretta e magari di litigare amorevolmente. Poi Yahèl acquistava un pane, parlottando con la moglie del fornaio che si preparava ad andare a dormire dopo la notte di lavoro. Con questo chiacchiericcio, fitto di notizie mirabolanti, poiché la moglie del fornaio era una credulona che si beveva ogni frottola, la visita di Yahèl alla città era finita. La vecchina se ne tornava alla sua capanna dove c’erano sempre (se le inventava!) tante piccole cose da fare; o cose grandissime e gravissime come quando un falco compariva in cielo e bisognava vegliare con un bastone in mano perché non calasse sul pollaio con la sua furia vorace, incurante dello spaventapasseri che Yahèl aveva eretto nel recinto con tanta fatica.





L’angelo che arrivò una notte a destare i pastori non si curò di Yahèl. Forse era troppo emozionato per il messaggio che portava o forse, in fondo in fondo, persino gli angeli condividono la convinzione dei maschi che le donne sono esseri poco importanti, uomini mancati.

Yahèl, comunque, era già sveglia anche se il gallo non aveva ancora cantato (avrete capito che non ho grande simpatia per questo animale che sbaglia sempre i tempi delle sue prestazioni) oppure si svegliò per il grande chiarore che l’angelo accese nella notte e per la voce gentile ma alta che diceva ai pastori. “Destatevi, levatevi, andate a cercare il salvatore che vi è nato”. L’angelo non gridò ma Yahèl lo udì chiaramente. Nel recinto, le galline dormivano ancora perché si svegliavano soltanto per ordine del loro signore, padrone ed ex-amatore e dunque c’era un grande silenzio. Le orecchie della donnina, poi, sembravano essere più giovani del suo corpo.

Cercate di comprendere lo sbigottimento di Yahèl. Forse i pastori (gente che conosce il mondo: spesso con i loro greggi andavano lontanissimi dalla capanna della vecchina, tornavano soltanto dopo mesi), forse, dunque, i pastori avevano già visto qualche angelo, ma Yahèl mai. Lo trovò così bello che davvero le spiacque di non essere più giovane come un tempo. Ma subito le vennero alla mente due pensieri meno sciocchi. Il primo, che se un angelo si scomodava per dire che era nato un salvatore, era impossibile che si trattasse soltanto di un salvatore di pastori, doveva essere il Messia e dunque anche lei voleva accoglierlo. Il secondo pensiero fu invece proprio un pensiero da donna: se qualcuno era nato, c’era una madre che lo aveva partorito e che adesso avrebbe avuto bisogno di cibo per poter allattare il bambino come si deve. Queste due convinzioni si rafforzarono in Yahèl quando udì l’angelo spiegare ai pastori che il neonato era veramente il Messia ma che, per misterioso volere dell’Altissimo, non era nato nel tempio o nella reggia di Erode ma stava, povero bambino, in una mangiatoia scavata nelle pareti di una grotta. Subito la vecchina si disse: “Loro, i pastori, devono radunare i greggi, ma io non ho che da cominciare a camminare”. Pensiero sciocco anche questo? Sempre, quando c’era qualcosa di bello o di importante, le donne venivano spinte indietro dagli uomini e questi stupidi padroni erano spesso così più grandi e grossi di loro che le donne – e specialmente le vecchine come Yahèl - finivano per non vedere niente. Questa volta non sarebbe accaduto così, si disse Yahèl.



Dunque (è ancora notte ma lei non ha paura) Yahèl parte con il suo cestino pieno di uova da regalare alla puerpera. Dove può essere la grotta del miracolo? Yahèl crede di saperlo: non lontanissimo, una grande buca nei fianchi di una collina. Si chiama... si chiama...la grotta dell’Asino e del Bue.

Mentre chiude l’uscio della capanna, improvvisamente il gallo canta, stupidissimo animale, ma non per questo la notte si scuote di dosso il suo manto trapunto di stelle.



Sì, ci sono le stelle, ma non bastano a far luce perché è una notte di novilunio. Dunque le tenebre sono fitte (voi abitanti delle città non sapete quanto sia buio il buio delle campagne), si vede soltanto qualche lumicino in lontananza, dove c’è Betlemme. Sono i fornai al lavoro, pensa Yahél: e le viene in mente che Betlemme vuol dire “casa del pane”.

Che brava, la nostra vecchina: va avanti con coraggio, col suo bastone e il cestino delle uova, attenta a non cadere in qualche buca. Non si muove per campi coltivati, cammina per pascoli e qua e là vede le ombre di mandorli con i rami levati al cielo, come in orazione. Più difficile distinguere ciò che sta sul terreno. Ma se è davvero il Messia ad essere venuto, lei non deve avere paura, Lui la protegge. Come dice il salmo? Sopra la vipera e il basilisco camminerai e schiaccerai il leone e il dragone. Schiacciare il leone e il dragone? Lei? “Che stupida vecchia sei, Yahèl” ridacchia Yahèl.

Ripercorre con la mente il cammino fatto tanto tempo addietro quando andò con il marito (figùrati: mille anni fa!) a vedere la grotta dove stavano un asino e un bue che il padrone voleva vendere: ricorda che si doveva salire su un’alta collina, la quale dall’altra parte declina sino a un’ampia radura; al di là della radura c’è un’altra collina, nel cui fianco si apre la grotta (ma forse ve l’ho già detto, chiedo scusa).

Cammina cammina, la notte è ancora piena, chissà se il vecchio gallo ha continuato a cantare e le galline si sono svegliate e magari si domandano dove sia finita quella vecchia pazza della loro padrona... Yahèl, un po’ affannata, arriva in cima alla collina, comincia a scendere dall’altro versante, si arresta un attimo per riposare e adesso sì che la paura le piomba addosso, come un mantello pesante di pioggia sembra schiacciarla. Dapprima sente un brusìo, una specie di lamento che esce da voci sommesse; o forse è una canzone, mugolata a bocca chiusa piuttosto che cantata. Poi vede che la radura è piena di gente, immobile, seduta per terra, come in attesa. Un tappeto vivente, pensa la vecchina: “Sciocca Yahèl, vecchia sciocca” si dice Yahél, ma invece ha ragione: quel brulichìo di ombre palpita come un respiro. Poi si accorge che sono tutti bambini, una immensa folla di bambini.

Può sembrarvi stupido ma questa scoperta (che sono tutti bambini) aumenta la paura di Yahèl. Cento e cento volte, nel corso della sua lunga vita, la vecchina ha visto grandi folle di uomini e di donne, basta pensare alla Città Santa di Gerusalemme; ma tanti bambini insieme, mai. I bambini di solito giocano in piccoli gruppi o, se partecipano ai pellegrinaggi, se ne stanno ai margini dei raduni, tenuti buoni da minacce e da promesse; e sono soltanto i più grandicelli; i più piccoli rimangono a casa. Ma questi nella radura sono tantissimi e soli. Soli e piccoli, nella notte che adesso sembra anche più buia; e quella canzone a bocca chiusa, come una ninna-nanna. Che sta succedendo? Di là dalla radura brilla una piccola luce, a indicare la grotta dell’Asino e del Bue.



Ed ecco che qualcuno tocca Yahèl su una spalla e quasi lei sviene dalla paura. E’ un uomo gentile, con un volto buono che appare come illuminato da una luce che viene dall’interno (”E’ un angelo, un angelo. Un angelo anche per me!” balbetta Yahèl) e quel signore le chiede: “Quei bambini, chi sono e da dove vengono?”. Trema la vecchina e risponde: “Signore mio, tu lo sai”. E lui: “Questi sono i bambini che sono passati per la grande tribolazione: i bambini uccisi dagli adulti con le loro guerre, i loro vizi, le loro ingiustizie. I figli dell’Uomo stritolati dai potenti e dagli egoisti, da chi non si è curato di loro mentre cercava di schiacciare i propri nemici, da chi li ha usati come trastulli o come piccole bestie da soma, da chi ha rubato loro il presente e il futuro. Per questo essi stanno davanti alla culla del Messìa e gli rendono lode, perché egli viene a instaurare un regno di giustizia”. E Yahèl li guarda e si accorge che sono bambini e bambine con grandi occhi ed esili membra; e qualcuno ha corpi fasciati da bende insanguinate. E la vecchina vorrebbe fuggire, non guardarli più, soltanto vedere il Messia e poi morire contenta, e dunque chiede al signore gentile: “Signore mio, dov’è il sentiero che porta alla grotta?”. E l’angelo risponde. “Non si arriva alla grotta se non passando in mezzo a quei bambini”. E spinge gentilmente Yahèl nella folla dei piccini; ed ecco già è sparito.



Yahèl entra nella folla dei bambini a occhi chiusi, ma inciampa ed è costretta a guardare. E il primo che vede è un bassetto, biondo con gli occhi celesti, che alza verso di lei le mani quasi per abbracciarla, ma la vecchina si accorge che ha un braccio soltanto, l’altro non è che un moncherino. Subito Yahèl pensa: “ E se fosse uno dei miei nipotini?”; ma il colore dei capelli non è quello dei suoi figli, dei bambini di Betlemme. Tuttavia questo non le dà sollievo, proprio no. Il piccolo la guarda e lei non sa bene che fare, che dire e gli accarezza timidamente il capo e poi le viene in mente che forse potrebbe donargli un uovo. E il bambino sorride a quel dono e tutti gli altri adesso tendono le mani verso Yahèl; e la vecchina, avanzando a stento verso la grotta, dona a tutti quelli che sfiora una delle sue uova. Ne aveva dodici nel cesto ma ecco che sono diventate cento, duecento, chissà quante, sembra che il cesto generi uova in continuazione: e si sentono qua e là piccole risatine di gioia. E qualcuno o qualcuna dice: “Grazie, zia” e qualcuno o qualcuna dice: “Grazie, nonna”.

Quando Yahèl arriva finalmente nella grotta è così stanca e pallida che il padre del bambino la fa sedere su un sasso e le dà da bere un po’ d’acqua. La Madre le viene accanto portando il suo piccino e Yahèl non sa se ridere o piangere perché il Messia neonato è così bello ma il suo cesto è ormai vuoto. “Oh, sì – dice la Madre sorridendo: - vuoto di uova ma pieno d’amore”. Porge il suo fagottino a Yahèl: “Sono tanto stanca – dice. – Non me lo ninneresti un po’?”. E subito il piccolo stringe con le sue manine un dito della vecchina, le sfiora una guancia, sembra sorridere, felici lui e lei...

Ettore Masina

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