Ettore Masina (©)
Ricordo di Padre Balducci
La sorridente gara di pocanzi sulla primogenitura delle amicizie balducciane, ha riportato in me tante immagini del nostro grande amico. quella di lui magro, quasi esile (l'anno era il 1954) conferenziere nella Corsia dei Servi: un ragazzo troppo razionale e persino troppo colto, che nei dibattiti manovrava larguzia toscana e la scienza teologica come corpi contudenti per atterrare lavversario; una storica fotografia del 1957 con lui, padre Davide Turoldo, padre Camillo De Piaz, don Primo Mazzolari e, mi pare, don Abramo Levi, affacciati al balcone della villa di Luigi Santucci: mirabile pattuglia di evangelizzatori nella Missione di Milano voluta dallarcivescovo Montini; e un Balducci più. maturo, anche nel fisico, a un dibattito romano in cui, durante lultima sessione del Concilio, io moderavo, con qualche interno tremore, due giganti della Teologia come Danièlou e Chenu:
E tuttavia, anche in me, sopra ogni altra, prevale l'immagine di Balducci nella Badia Fiesolana. Quando noi foresti vi giungevamo, percepivamo che la Badia, la comunità che vi si raccoglieva erano per Balducci il centro della sua cosmogonia. Mi è capitato di dire e qui lo ripeto per avviare poi un discorso che mi porterà in altri luoghi, mi è capitato di dire una volta che Balducci abitava la Badia come l'indio amazzonico abita la propria capanna: e cioè come il centro del mondo, spazio sacro nel quale non soltanto egli vive, ma anche seppellisce i suoi morti, a reciproca custodia. Dunque anche nei miei ricordi prevale la figura di un Ernesto in qualche misura davvero abate, benché senza titolo ecclesiastico: il quale celebrava liturgie e accoglieva fiorentini o fiesolani, ma anche giunte da ogni parte dItalia per deporre nel suo cuore sacerdotale e davanti alla sua limpida ragione dolori e problemi; il Balducci che nella Badia riceveva dai confratelli e dagli amici affetti, notizie, consigli, persino sorridenti rimbrotti per quel tanto di narcisismo che cera in lui, comè inevitabile per tutti gli intellettuali; e aveva amanuensi devote e capaci che ci hanno conservato il tesoro delle sue parole; e pie donne che si occupavano dei pranzi per lui e i suoi amici, spazio conviviale in cui Ernesto si apriva ai suoi rari, ma così limpidi, sorrisi. Insomma nei ricordi di noi che tante volte approdammo alla Badia è difficile per così dire enuclearlo da quella dimora, la quale- pietre e creature era per lui una casa-madre, chiostro popolato di voci amiche, "portico di Salomone"; in cui gli era indispensabile tornare rapidamente, quando ne era partito.
Ma io, oggi, voglio parlare, invece, del Balducci pellegrino, itinerante. Non per viaggi in terre lontane: quelli, in qualche misura, egli non li sentiva necessari. La sua cultura, la sua insaziabile fame di culture altre e di notizie significanti, la vastità della sua erudizione, la capacità di manovrare una sterminata biblioteca (che non stava tutta negli scaffali ma anche nella sua prodigiosa memoria) gli rendevano possibile raggiungere i luoghi più alti e drammatici della storia umana: senza muoversi dalla Badia, Balducci scendeva fra le immense folle radunate da Gandhi lungo le rive del Gange, o saliva i sentieri scoscesi delle Ande percorsi dalle torme dei conquistadores ossessionati dalla smania dell'oro; camminava idealmente sulle strade silenziose
dell'Umbria, con Francesco e con Chiara; e in tutti questi cammini non avanzava soltanto con lacume e la scienza interpretativa ma anche con la capacità di cogliere le sofferenze dei vinti, le loro disperse memorie, le massacrate speranze: il figlio del minatore del Monte Amiata non dimenticava mai la preziosità germinativa delle lotte e delle sofferenze dei poveri. E proprio la partecipazione al dolore della povera gente gli faceva contemplare con orrore le guerre: le tecnologicamente ferocissime, come quella del Golfo, e le più ancestralmente selvagge, come quelle balcaniche di cui intravvide i primi lividi bagliori. Soltanto la detestazione per la disseminazione di dolori, per la stupidità, per la follìa, per la teratologia di tutte le guerre, qualunque etichetta esse portassero, fece progettare a Balducci, alla fine del 1990, per un istante, un viaggio geograficamente lungo e politicamente rischioso: pensò di accompagnarsi a Raniero La Valle nella missione a Baghdad intesa ad annunziare allo spietato raìs iracheno la grandezza della pace e a fargli rilasciare gli ostaggi occidentali che egli aveva sequestrato.
Ma non è nemmeno di questi viaggi al di là del nostro Paese che io voglio parlare, è di quelli per i quali si può dire che Balducci arò lItalia cristiana (e forse soprattutto quella non-cristiana) con il vomere della sua fede, irruente e insieme mai dimentica delle esigenze dellintelletto (la mia profezia ragionevole la definiva); e seminò ovunque levangelo che gli bruciava nel cuore. Voglio dire qualcosa del Balducci viaggiatore nella cosiddetta periferia, e cioè non soltanto a Roma ma anche nei luoghi lontani dalle metropoli o dalle città di cultura prestigiosa come Firenze.
A ben pensarci, già lapparato ecclesiastico aveva più volte deciso di collocare Balducci, per così dire, in periferia, fuori porta: a Frascati e non a Roma; poi non nel centro di Roma ma nella parrocchia periferica di San Francesco a Monte Mario, poi a Fiesole e non a Firenze. Compromessi miserandi, puntigli clericali che oggi ci appaiono ridicoli o peggio. La Badia Fiesolana non fu certo luogo desilio; aveva anzi, soprattutto agli inizi, molte possibilità di diventare, comè successo del resto in altre avventure di sacerdoti cui fu data disponibilità di grandi case, devoto buen retiro, o, peggio ancora, istituzione paralizzante. Il Balducci abate non si rinserrò nel suo chiostro. Con quasi temeraria generosità, per tutti gli anni della sua vita, aderì alle richieste che gli venivano incessantemente rivolte da gruppi e comunità che con lui volevano rileggere il vangelo e i segni dei tempi. La sua ruvida dedizione non ebbe limiti al riguardo. Oggi che è diventato abituale per tanti intellettuali (qualche sacerdote fra essi) muoversi soltanto dopo avere ricevuto ampie assicurazioni sulle dimensioni numeriche e qualitative del pubblico e sullentità del cosiddetto gettone di presenza, appare ancora più toccante la disponibilità di Balducci a donarsi gratuitamente, sino allesaurimento delle forze. Perché non della fatica sui libri, non di una malattia, non di un impazzimento delle cellule è morto il nostro amico, ma della sua fatica di evangelizzatore. Se si pubblicasse lagenda dei suoi viaggi, apparirebbero chiare e sorprendenti le dimensioni per così dire geografiche della sua dedicazione alla costruzione di una Chiesa che sapesse immergersi nel futuro per accogliere le sfide della liberazione dell'uomo; e della sua convinzione che questa Chiesa non potesse nascere senza radici che si allungassero nellhumus di quella che appunto abbiamo chiamato periferia perché molto di buono può venire dalla galilee di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Balducci è morto su una strada, viandante come gli apostoli, alla sequela del Cristo. Quando guardiamo al suo ingegno sfolgorante, a quelle sue prontezza ed eleganza di eloquio, ai suoi libri, alla sua santità (uso con convinzione questa parola forte per dire della sua intensità di preghiera, della delicata tenerezza che egli seppe donare ai dolenti che gli si presentarono o che egli andò a trovare, per esempio nelle carceri), quando ricordiamo tutto questo, non dobbiamo dimenticare come e perché Balducci è morto: in itinere.
A me è toccato, nei mesi seguenti la sua fine terrena, l'onore (e lo strazio) di andare a concludere alcuni dei cicli di conferenze che egli aveva iniziato: a Frascati, a Fabriano, a Cesena, a Senigallia, in tanti centri apparentemente piccoli ma per lui egualmente importanti. E la cosa che più mi ha colpito, nei racconti di chi gli si era stretto accanto in quei luoghi è stata la pastoralità dei suoi viaggi. Ovunque si recasse cera molta gente ad ascoltarlo, venuta anche da lontano (da questo punto di vista Balducci fu forse lultimo epigono degli uomini della penitenza, i grandi predicatori medievali), ma cerano anche creature doloranti che attendevano da lui una parola o un gesto che restituisse loro una ragione di vita: vecchie signore che si sentivano inutili, emarginate e che egli portava a casa con la sua auto, ridando loro autostima e un po di prestigio sociale, donne e uomini smarriti in qualche pena psichica, cui egli affidava piccole mansioni che li facevano sentire suoi collaboratori; atei conclamati e detestati per la loro irruenza cui Balducci mostrava le braccia spalancate del crocefisso; e questi episodi di tenerezza - mi testimoniavano i gruppi -erano andati crescendo in numero e qualità negli ultimi anni, cosicché in molti e molte è rimasta limmagine di un Balducci non soltanto intellettualmente grande ma anche, e soprattutto, buono, amabile.
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La seconda caratteristica dellincontro di Balducci con i tanti gruppi al cui servizio egli pose il suo cuore e la sua intelligenza fu il profondo rispetto che egli portò loro. Esistono molte trascrizioni dei suoi discorsi fatti in varie sedi, anche in giorni successivi; ed è quasi incredibile vedere come ciascuno di essi sia diverso dagli altri se non nellimpianto almeno in molte significative notazioni. Egli avrebbe potuto calare dallalto la propria cultura e la propria riflessione in un discorso ormai collaudato; invece risulta evidente dai confronti che ogni occasione fu preparata, costantemente arricchita dalla attualità, da quel dipanarsi della storia nella cronaca di cui Ernesto sapeva cogliere le implicazioni con mirabile prontezza.
Ai suoi ascoltatori non elargiva mai della retorica né la accettava da loro. Il suo dire era solenne, fluiva in un discorso che sembrava scritto (mentre egli non aveva davanti a sé neppure una scaletta) , ma allinfuori di questa eleganza egli non concedeva sconti, per così dire. Citava autori come Freud e Jung, Habermas, Levinas e Levi Strauss, e non sempre usava parole facilissime; senza compiacimenti intellettuali, sapeva di avere una funzione magisteriale e chiedeva di fatto ai suoi ascoltatori di ampliare le proprie conoscenze. Nei dibattiti era paziente ma non celava la sua insofferenza per le spiritualità evanescenti tipo new age, né per i settarismi o per i movimenti esclusivi, ancorché graditi in Vaticano, dei quali. detestava larrocca-mento isolazionista o la furia proselitistica Non accettava volentieri di discutere di riforme della Chiesa, che non gli parevano di grande sostanza: Preferiva parlare con passione (una passione che è rimasta nel ricordo di molti gruppi), di una Chiesa-comunità che doveva accettare il rischio di mutare profondissimamente, giorno dopo giorno, secondo le sfide del futuro. ma respingeva lidea che con la Chiesa-istituzione si potesse (o addirittura si dovesse) rompere. Le tensioni potevano e dovevano essere portate, diceva, sino al limite di rottura e quel limite doveva essere coraggiosamente indagato, Ma non doveva essere varcato perché la carità doveva prevalere. Con qualche ruvidezza disse una volta a un acceso progressista: Non vogliamo una fede di sinistra, quello che vogliamo è che la fede si liberi dagli involucri ideologici che vanificano il mistero delluniversalità della Croce.
Ovunque seminò cultura e inquietudini ma soprattutto speranza. Ai tanti abituati, allora come adesso, a vedere il presente e il futuro prossimo come lacrimevole tragedia, Balducci insegnò a leggere l'eschaton, l'oggi di Dio, come lui diceva, la storia che andava redenta dallingiustizia dell'uomo sull'uomo, del Nord sul Sud, dellideologia sulla profezia. Un eschaton che si poteva cogliere soltanto votandosi alla liberazione dei poveri, lasciandosi convocare dal grido degli oppressi. E a chi gli ripeteva, come ripete anche oggi, il lamento della sconfitta, egli additava speranze raccolte non soltanto nella Parola rivelata o almeno non soltanto in quella contenuta nei libri canonici. Mi ricordo un motorista di Cesena che, venuto alla commemo-razione di Balducci, mi chiese: Ma tu che cosa pensi di quel Levistrù di cui lui sempre parlava? Quellidea di Levi Strauss che anche nell'uomo banale e incerto che è ciascuno di noi abiti un homo
ineditus, un cumulo di energie positive che, ad un tratto. una condizione storica può far emergere, Balducci la esponeva con una convinzione che credo sia rimasta in non pochi, oggi più preziosa che mai.
Un giorno del 1990, in un convegno, a Rimini, della Rete Radiè Resch, unassociazione di solidarietà internazionale, Ernesto rivelò una delle ragioni che lo portavano a raggiungere così frequentemente certi gruppi. Disse: Ho bisogno di queste prefigurazioni di quella cittadinanza planetaria, senza la quale io cadrei per la vertigine, per la perdita totale del mio vivere quotidiano e del mio vivere storico. Luomo al quale non era mancata la possibilità di raggiungere le grandi folle virtuali dei mass-media, sentiva il bisogno di incontrare di persona, occhi negli occhi e mano nella mano quelle che Helder Camara chiamava comunità abramitiche.. Balducci seppe dunque accettare ciò che risulta difficile a molti, e specialmente a molti intellettuali: il dare e il ricevere come eguale espressione di amore.
E giacché ho citato la Rete Radié Resch, vorrei concludere con le parole che Ernesto scrisse nella prefazione a un libro che ne narra la storia trentennale. E un testo che ci pervenne il giorno seguente alla sua morte e ci parve non soltanto un testamento spirituale ma anche un autoritratto:
Il genio della Rete è nella sua totale immanenza ai rischi e agli imprevisti della libertà. una condizione che richiede, per non venir meno, una costante dinamica della fantasia creativa. Ma sono proprio queste le qualità essenziali dell'uomo planetario: la totale apertura allo spazio e al tempo, senza schermi di autodifesa, in un atteggiamento di servizio in cui si attua il pronostico evangelico: solo chi è, in ogni momento, pronto a morire, porta frutto. Esser pronti a morire non è morire, è trasformare la morte da minaccia temibile in intima generosità oblativa. E a queste profondità che nel seno del presente nasce il futuro
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