| Il titolo di «Congregazione del porto» è documentato negli atti comunali di Rimini dal 1669, al posto di quello di «Ufficio del porto» risalente al 1568. Conclusasi la dominazione veneziana (1503-1509), Rimini è tornata sotto il governo della Chiesa con la «costituzione civile» di papa Giulio II (26.2.1509). In essa si ricorda il diritto di libera navigazione lungo le coste e d'approdo al porto «sine aliquo impedimento» (art. XXVII). Carlo Tonini, nella sua storia di «Rimini dal 1500 al 1800» (1887), per il 1669 ricorda soltanto che «l'infelice Città di Candia [...] cadeva irreparabilmente sotto il giogo ottomano», confessando poi di sapere «ben poco» di quanto accaduto in loco [I, p. 493]. La «Congregazione del porto» non è soltanto uno dei tanti organi amministrativi della Municipalità, delegati a curare i singoli settori della vita pubblica. Essa rappresenta lo strumento politico per risollevare le sorti di una città in profonda crisi economica. Le strade da percorrere erano due. Una riguarda il consolidamento delle attività commerciali. L'altra tocca i problemi idrici del porto e del fiume che in esso si versava, la Marecchia. Quest'ultimo aspetto condiziona il primo, pesantemente e per lungo tempo (
sino al 1938). Nel 1614 c'è un'inondazione che provoca morti e rovine sino al Rubicone. Due anni dopo per un fortunale affondano barche, affogano persone e si registrano danni nel borgo San Giuliano posto sulla riva sinistra del fiume. Nel 1656 la città ottiene dal legato una nuova fiera sul porto in onore di sant'Antonio da Padova dal 6 all'11 luglio inclusi. All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre in una «fiera generale» i tre appuntamenti tradizionali: la fiera delle pelli per sant'Antonio (12-20 giugno), quella di San Giuliano (presente dal 1351) tra 21 giugno e 22 luglio e la fiera di San Gaudenzio (nata nel 1509) ad ottobre. Era l'effetto di un declino economico a cui non si sapeva reagire. Già nel 1613 cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini hanno chiesto una nuova fiera in primavera, per sviluppare i commerci. La fiera del 1656 si ripete nel 1659 (quando sono emanati i relativi «Capitoli»), ma è sospesa nel 1665 dal governatore di Rimini. Riprende il 22 maggio 1671 per undici giorni (cioè sino al primo giugno), con l'autorizzazione di papa Clemente X del 13 agosto 1670.
Su questo scenario è fondamentale il ruolo della «Congregazione del porto». Al governo cittadino spetta il compito di intervenire nella vita pubblica con i provvedimenti in apparenza più disparati. Essi sono legati dalla consapevolezza che è necessario mutare rotta e soprattutto favorire la circolazione delle merci. La realtà geografica può permettere a Rimini di svolgere un ruolo preciso, posta com'è sulla linea commerciale che dalle coste marchigiane porta a quelle ferraresi, entrambe controllate dai mercanti ebraici. I domini estensi nel 1598 sono passati sotto il governo di Roma, come accaduto a Pesaro nel 1631. Il 16 giugno 1666 il Consiglio generale riminese ha bocciato la proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto degli ebrei, ad «utile e beneficio» della città. Il ghetto era stato distrutto nel 1615 da una rivolta popolare favorita (se non promossa) dall'atteggiamento della Chiesa locale e di alcuni nobili. Nel 1624 Roma ha proibito agli ebrei il domicilio nello Stato ecclesiastico, ma non il soggiorno in qualsiasi luogo o città «per occasioni di mercantie», secondo la regola introdotta da Clemente VIII per periodi massimi di tre o quattro giorni. Rimini si appiglia a tali «occasioni di mercantie» per riaprire le porte della città agli ebrei. Sul finire del 1670 la Municipalità riminese inoltra inutilmente al papa la richiesta di concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo Ghetto d'Hebrei». Ci si giustifica con la necessità di portare «sollievo» economico a Rimini per mezzo di un «qualche poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle «presenti contingenze della nuova fiera», per la quale gli ebrei sono considerati «necessarissimi». Nel 1693 gli ebrei chiedono di essere autorizzati a rivolgersi direttamente al pontefice per poter ottenere di rientrare in città. Facendo presente di avere a Roma un «buon mezzo» per comunicare con il papa. Il 17 febbraio 1693 il Consiglio generale discute il memoriale di quei commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, e concede loro l'autorizzazione ad inoltrare al papa la supplica desiderata. Come sia andata a finire la faccenda a Roma, non è dato di sapere. La votazione del 1693 rovescia l'atteggiamento del Consiglio generale circa la presenza ebraica. I contrari sono soltanto due su 43. Erano stati 31 su 45 nella votazione del 16 giugno 1666 circa la richiesta di ricostituire il ghetto. Nel verbale del 17 febbraio 1693 si legge pure che «d'alcun tempo in qua» agli ebrei era stata proibita la dimora in Rimini con «danno comune» sia del «Monte della Pietà», sia della dogana, sia di «altro per la loro assenza». Gli israeliti erano dunque tornati ad essere presenti a Rimini dopo la distruzione del ghetto nel 1615. Nel loro memoriale si dichiara che «l'avergli levato il libero commercio» aveva provocato «danni notabili» a tutta la vita cittadina. Nel 1692 a Ferrara (la cui realtà economica è caratterizzata dalla predominanza ebraica), è stato introdotto dal cardinal legato Giuseppe Renato Imperiali il «libero commercio» dei grani (anche se per soli dodici mesi), nella provincia e fuori di essa, ripetendo analogo provvedimento pontificio di Clemente IX (1667-69). Il memoriale riminese del 1693 sembra rispondere alle attese del governo cittadino, il quale tenta di realizzare una propria politica, autonoma da Roma, nei confronti degli ebrei, non in nome di astratti princìpi ma in virtù di concretissime ragioni di generale convenienza economica.
L'anno prima della comparsa del titolo della «Congregazione del porto», cioè nel 1668, si è provveduto alla «Riforma delle Pompe e del lusso». Non soltanto per obbedire agli ordini del cardinal legato, come annota Carlo Tonini [op. cit., I, p. 493] ma per porre fine a situazioni di spreco su cui ci si era già soffermati nel 1601. Quando il Consiglio generale discusse dei danni provocati dalle eccessive spese per il lusso del vestire e per i funerali. Il quadro locale va poi collocato in un contesto internazionale le cui guerre sono segnalate in città dai continui, costosi passaggi di truppe. Nel 1649 a Rimini c'è stata una rivolta della plebe contro i consiglieri municipali ed i cattivi amministratori dell'Annona per l'eccessivo costo del grano di cui «tota Italia fuit in penuria», racconta mons. Giacomo Villani nella sua «Cronaca». Villani attribuisce ad un'eclissi di luna la rovina d'Italia prodotta dalle guerre. Nel 1618 per carestie ed epidemie egli ha dato la colpa all'apparizione di una cometa. Secondo Villani la crisi di Rimini nasceva dalla scomparsa dei cittadini migliori. Erano rimasti gli incapaci ed i meno ricchi. Di soldi in giro ce ne sono pochi. Il cardinal legato riduce le cariche (a pagamento) in Consiglio civico, i cui componenti passano da 130 a 80. Diminuisce la popolazione urbana. Dalle circa diecimila anime tra fine 1500 e 1608, si passa nel 1656 a 7.717 con più di tre anni. Nel 1659 il legato Giberto Borromeo si lamenta delle discussioni avute con gli amministratori cittadini, e durate «sette, et otto hore continue». Al governatore di Rimini, Angelo Ranuzzi, il legato spiega che il «grave sconcerto» in cui versa la città è la conseguenza del comportamento dei suoi amministratori, «disapplicati» a ben dirigere gli affari pubblici. Quegli amministratori invece ritengono che Rimini sia stata condotta all'«ultima sua ruina» dalle spese militari imposte pochi anni prima (1641-1644, «prima guerra del ducato di Castro») da Urbano VIII, come la Municipalità spiega apertis verbis alla romana Congregazione del Buon Governo. Il governatore Ranuzzi accusa di inettitudine i riminesi, definendoli «più dediti all'amoreggiare, che al combattere».
La fiera del 1671 è il momento simbolico dell'attività pubblica a favore di una ripresa della vita economica cittadina. Essa è ripetuta sino al 1680 con una continua diminuzione del «concorso» di mercanti e compratori, per cui non porta «se non incomodo» ai commercianti locali. Ritorna soltanto nel 1691, senza smalto e soprattutto senza gli effetti positivi sperati. Alla fiera del 1671 (durata undici giorni anziché gli otto previsti), sono presenti otto ditte di ebrei, tutte del settore tessile-abbigliamento. Tre sono di Ancona, tre di Urbino, due di Pesaro. Le merci da loro introdotte hanno un valore pari al 28,25% del totale. Gli affari invece sono magri, immaginiamo non per la qualità dei prodotti offerti dagli ebrei, ma per un pregiudizio religioso nei loro confronti. Dei 5.914 scudi dichiarati come valore delle merci entrate, le otto ditte di ebrei vendono soltanto il 16,82%, pari a 995 scudi, cioè il 10,16% del venduto totale della fiera, che è di 9.787 scudi. La questione ebraica legata alle fiere riminesi, è una specie di cartina di tornasole nell'analisi dei due fronti: quello statuale-religioso da una parte, e dall'altra quello amministrativo locale. Il potere statuale-religioso (centrale e periferico) appare rigorosamente vessatorio ed intollerante man mano che si scende dai vertici ecclesiastici alla base del clero. A sua volta il clero influenza e condiziona il comportamento ostile delle masse popolari verso gli ebrei, fatti oggetto di scherno e violenze. Il governo cittadino opera, come si è detto, per una convenienza economica. Sono le stesse ragioni che guidano la «Congregazione del porto» nella sua attività di cura dello scalo marittimo, per permettere alla città di avere i traffici necessari alla sua sopravvivenza. Nel contrasto tra Rimini e Roma la città è perdente, anche se dal punto di vista ideale alla fine essa ha ragione, quando il provvedimento sul libero commercio è deciso da Clemente IX. Che governa la Chiesa proprio fra 1667 e l'anno (1669) in ricorre per la prima volta il titolo di «Congregazione del porto». Ad onore degli amministratori riminesi va anche ricordata la pubblicazione nel 1745 dei «Capitoli del Porto». Sono una specie di contratto collettivo di lavoro, imposto dalla Municipalità ai «padroni», ovvero ai «conduttori» della barche, seguendo l'«inveterato stile» comunemente osservato. Non sempre i «padroni» ne sono anche i proprietari. Ad investire nell'ambiente del porto, oltre ai commercianti, figurano pure alcuni nobili. Grazie a quei «Capitoli» i pescatori sono più tutelati dei lavoratori dei campi, duramente colpiti dalla carestia che si sviluppa pure a Rimini tra 1765 e 1768. Molti di loro fuggono a Roma, ospitati a spese dell'Erario in due «serragli», in mezzo ad un'epidemia di vaiolo. Nella «miserabile città» di Rimini, scrive il cronista Ubaldo Marchi nel 1767, i marinai sono «in molto gran numero» e lavorano su quaranta barche pescarecce; tremila sono invece i poveri che campano «con cercare elemosina». Nel corso di questa carestia si ripropone il contrasto fra le autorità locali ed il potere romano. Il cardinal legato fa incetta di grani in Romagna. Rimini si trova senza provviste. L'Annona non ha potuto costituirle per mancanza di denaro. Un cronista del tempo, Ernesto Capobelli, racconta quei momenti. Nei giorni di mercato, centinaia di uomini e donne scendono dalla campagna a Rimini per ottenere la «permissione» di ritirare la loro quota di grano, e si accalcano nella piazza della Fontana, dove ha sede il Governatore: «Argine alla furia di questo Popolo oppresso ed avvilito dalla fame era l'insolente ed inumana sbirraglia». «Moltissimi furono li maltrattati, ed anche feriti in modo, che in più parti grondavano sangue». Una donna gravida «spinta, e giù dalle scale rovesciata, poté con gran difficoltà alzarsi, e con grandissima fatica giungere alla sua abitazione, ove in poche ore ne abortì con grave pericolo di sua vita». Anche nelle botteghe troppo affollate, «per resistere alla confusione» si fece ricorso al «gravoso, ed infame ajuto de' Birri».
Alla fine del secolo XVIII tocca ai marinai protestare. Il 30 maggio 1799, mentre finisce il «governo francese» della città (iniziato il 5 febbraio 1797), «alla vista di un reggimento austriaco scoppiò una rivolta nella marineria, alla quale si unirono i birbanti della città secondo il solito, rivolta già preparata e combinata», racconta lo storico ottocentesco riminese Antonio Bianchi. La marineria dimostra tutta la rabbia accumulata in molti decenni di sofferenze. Seguìta dai «villani» dei dintorni, organizza una sommossa lunga e violenta che subentra alle devastazioni, alle prepotenze, agli abusi dei napoleonici. I ripetuti e severi proclami degli austriaci, lasciano il tempo che trovano. Gli umori popolari sono ben riassunti da un sonetto anonimo in cui Roma è definita «infame», e si inneggia agli austriaci. I quali innalzano le insegne, care ai reazionari, dell'aquila imperiale e dell'«amore della Santa Fede». I rivoltosi saccheggiano le botteghe degli ebrei, assaltano il palazzo pubblico, dove rubano tutto quello che vi era, dopo aver rotto ogni cosa. Arrestano, incarcerano, mandano in esilio. Entrati nella Guardia Civica, i marinai fanno da pompieri e da incendiari. Il loro comandante Lorenzo Garampi ne approfitta per tentare di dominare sulla città, favorito dal fatto che agli austriaci sfugge il controllo di una situazione in continuo fermento. I marinai tentano di sistemare anche Lorenzo Garampi che per salvarsi, il 27 agosto in cattedrale durante una «sanguinosa zuffa», è costretto a rifugiarsi sul campanile. Quei marinai oggi li definiscono «insorgenti» per la difesa della Santa Fede. Li guidava un «parone» del borgo San Giuliano, abitato dalla marineria riminese, Giuseppe Federici, detto «il glorioso», insomma un fanfarone, come il soldato plautino. Per qualcuno, in maniera forse troppo azzardata, è oggi diventato un'icona religiosa venerata addirittura nelle chiese. I marinai tentano di riproporre una specie di libero comune, slegato da ogni altra autorità costituita, con la «Magistratura provvisoria» che dura sino al 13 gennaio 1800. Il ritorno alla normalità amministrativa è di breve durata. La vittoria napoleonica di Marengo, il 14 giugno, apre un nuovo capitolo, con la ricostituzione della Repubblica Cisalpina (5 giugno), poi diventata Repubblica Italiana (26 gennaio 1802), ed infine trasformatasi in Regno d'Italia sotto le insegne del potere francese (18 marzo 1805). Il titolo di «Congregazione del porto» è intanto stato sostituito nel 1793 da quello di «Commissione del porto». Tutto sta cambiando in Europa dopo il 14 luglio 1789 di Parigi. Il 13 luglio Ippolito Pindemonte dalla capitale francese ha scritto all'abate filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi, educato a Rimini ed attivo a Roma: «Non potrei dipingervi la costernazione nell'una parte del Popolo, e il furore nell'altra. Moltissimi han preso le armi stamani, e si dice che vogliano muoversi alla volta di Versailles: gran quantità di truppe fu fatta venire, sicché vedete la strage ch'è per accadere. Tutte le botteghe in Parigi son chiuse, e pochissimi ardiscono uscir di casa». Rimini ha avuto un disastroso terremoto, il 24 dicembre 1786. Sembra rappresentare idealmente il crollo dell'«antico regime», attestato negli atti pubblici da un documento del 25 agosto 1792. Quando si chiude la vicenda dei «Matrimonj disuguali di nascita». Il legato approva i relativi «Capitoli» richiesti dagli aristocratici. Un nobile può sposare, oltre che ovviamente le donne sue pari grado, anche quelle «ignobili di civile condizione» (cioè appartenenti all'ordine civico) o figlie di chi esercitasse mercatura, allo scopo di «conseguire una cospicua dote». Ovviamente, il denaro rende puro il sangue che non lo è. Le idee illuministiche o rivoluzionarie non c'entrano. Quel «bisogno», che argutamente Vincenzo Cuoco individuò come molla della Storia, aveva spinto i vecchi aristocratici riminesi a scendere a patti con i «cittadini».
Ritorniamo al porto. All'inizio del 1700 sono stati eseguiti lavori di riparazione alle sponde. Alla riva destra, le palizzate sono state sostituite completamente da un'opera in muratura. I nuovi moli crollano per la spaventosa alluvione del settembre 1727 descritta nella «Cronaca» del conte Federico Sartoni. Dopo tale «diluvio» il 6 giugno 1733 giunge a Rimini Valentino Cipriani, architetto della Reverenda Camera Apostolica. Nel 1734, su ordine romano, è convocato a Rimini Luigi Vanvitelli, già al servizio dello Stato della Chiesa per sovrintendere ai porti dell'alto Adriatico. In tale veste ad Ancona progetta l'imponente lazzaretto e cura lavori di riassetto di tutto il canale. Ha le credenziali indispensabili per affrontare la questione di Rimini. Dove giunge all'inizio del gennaio 1735. Suggerisce di sistemare il canale del porto prima di procedere ad ogni altra opera. È il progetto annunciato da Roma: aggiustare il molo prima di fabbricare il «Fortino». Ma ciò non basta. Nel 1762 il filosofo Giovanni Antonio Battarra presenta un altro piano che (spiega Michelangelo Rosa), è «pessimamente eseguito da chi non si fece coscienza di volere innanzi lo sconcio e il danno» dell'ideatore. Nel dicembre dello stesso 1762, aprendo il suo corso pubblico di Filosofia, Battarra tiene due discorsi sul porto, pubblicati a stampa l'anno successivo. A sostegno delle sue tesi, ricorre anche all'autorità di Galileo: per un arco di quarto di circolo, l'acqua si muove più velocemente che per la corda di esso. La velocità del fiume serve a tener più pulito il canale. Precisa il nostro abate: «Mi rido che il condur acque per linea retta sia in tutti i casi la regola più certa, per farle giugner più presto e con più velocità al lor destino». Secondo Battarra, per salvare il porto, occorreva quindi «condurre il canale per una curva equabile» e «non mai produrre [prolungare] i moli». L'errore commesso dagli amministratori di Rimini, stava per Battarra nell'aver fatto eseguire lavori «senza la direzione d'un Fisico, ed insieme di uno di quegli Architetti, che per fondamento dell'arte hanno un forte presidio di Filosofia, e di tutte le buone discipline Matematiche».
Per quasi due secoli, tra Settecento ed Ottocento, nella vita sociale di Rimini i marinai sono protagonisti dimenticati anche se temuti. Giocano un ruolo molto importante, a cui però non corrispondono né una soddisfacente condizione economica, né un qualsiasi coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica. Alla marineria fanno capo, verso la fine del XVIII secolo circa tremila persone. Il conto comprende non soltanto gli addetti ai lavori, ma anche i loro nuclei famigliari. Una prima crisi si avverte dopo l'armistizio del 23 giugno 1796, quando la Municipalità riminese riesce ad impedire l'emigrazione di molti abitanti del Porto. La «classe marinara» costituisce l'anello più debole della società dell'«antico regime». Però appare ugualmente pericolosa, come ricaviamo da una lettera del 14 luglio 1796 (dopo l'arrivo dei francesi in Romagna), in cui la Municipalità scrive al cardinal legato che essa si dimostra «poco docile». Tale si è già rivelata il 26 aprile 1768, organizzando «un terribile tumulto» contro Serafino Calindri ed il suo progetto di espurgazione del canale. Calindri se n'era andato da Rimini temendo che un bandito (il «noto Brugiaferro»), fosse stato assoldato per toglierlo dalla circolazione, allo scopo di favorire il prolungamento dei moli proposto dal medico Giovanni Bianchi. Sono gli anni in cui padre Ruggiero Boscovich definisce il nostro porto «massima risorsa» della città. «Poco docile» la classe marinara si manifesta anche nelle questioni che oggi chiameremmo sindacali, quando si tratta di difendere i diritti dei lavoratori nei confronti dei «Padroni» delle Barche che, ad esempio, somministravano ai loro marinai cattivo vitto e «vino corrotto». Nella seconda metà del 1700 il numero delle barche pescarecce aumenta del 128%. A cavallo dei due secoli c'è un calo del 15. Nel 1805 nel porto sono attive oltre settanta barche con 780 marinai. Settanta sono da pesca con 480 marinai, e trentaquattro da traffico con 300 addetti. In dodici mesi nel nostro porto «entrano più di 400 bastimenti carichi di varie mercanzie e generi, e ne partono altri quattrocento carichi di effetti del Paese e dell'Estero». Per questa sua situazione, si sottolineava, Rimini meriterebbe di ottenere il «porto franco». L'indotto è costituito da un cantiere senza loggiato (dove non è possibile lavorare nei mesi invernali), da fabbriche di cordami, e dalla manifattura della cotonina per le vele con trecento donne impiegate annualmente. Esistono poi buone fabbriche di concia di pelle, di vetri e cristalli «a uso di Venezia», di ombrelle di tela cerata, di cappelli fini «a uso di Germania», ed «un considerevole lavoro di seta greggia». Si fanno «paste di frumento a uso di Genova» ed il «Biscotto pei Marinai», un tipo di «pane particolare per gusto, e per la forma», che essi «trasportano in Mare», ed è diverso da quello spacciato dall'Annona che «non può resistere ai dieci, o dodici giorni di navigazione». Segue fino al 1836 una risalita del numero delle barche del 36%, a cui subentra un calo di quasi il 50 sino al 1869, quando la flotta peschereccia torna con 51 unità al livello del 1773. Il declino continua nel secondo Ottocento. Nel 1902 le barche sono soltanto 46. Nel corso d'un secolo, dal 1805 al 1902, la forza lavoro passa da 480 marinai a 280 (meno 41%). Nel 1816 avvengono tumulti contro l'aumento del prezzo del frumento. Vi partecipano anche i marinai, ai quali la stagione burrascosa impediva d'andare in mare. Essi hanno un cannone levato da una loro barca, con il quale entrano in città, puntandolo da sotto la statua di Paolo V contro la scala del palazzo consolare. Una trattativa e la promessa di diminuire il prezzo del grano, fanno rientrare i marinai nel porto, assieme alla loro bocca da fuoco, mentre il vescovo li benedice. I naviganti erano dotati di artiglieria e di armi leggere per combattere i pirati. I quali costituiscono una piaga secolare per l'Adriatico.
La nascita (1843) e lo sviluppo dell'imprenditoria balneare danneggiano le attività portuali per le quali mancano i necessari investimenti. Ne deriva una crisi che avrà forte ripercussione su tutta l'economia cittadina. Attorno al 1861 più di diecimila persone vivono delle industrie e delle occupazioni marinare. Erano state circa duemila nel 1791. Sulle tremila restano fra 1796 e 1835 quando la cessazione dei commerci e la scarsità di pesce portano alla disperazione quella «gente buona sì, ma rozza, impetuosa», come la stessa marineria allora si definisce scrivendo alla Segreteria di Stato. Nel 1843 la «classe infelice» e «numerosa de' Marinai, e Calafati non che Commercianti» si dichiara costituire «una quarta parte» della popolazione riminese. Nel 1856, come documenta il gonfaloniere scrivendo all'ingegner Maurizio Brighenti (autore di un progetto di rinnovamento del canale), l'attività portuale è «l'unico mezzo di alimento» per «più di cinque mila persone dedite specialmente ai negozi marittimi d'ogni specie». Nel 1857 risultano attivi 199 navigli, con 23 capitani mercantili, 65 «paroni di piccolo corso» ed 820 marinai in genere, per un totale di 908 addetti. Nel 1861 il personale di marina nel porto raggiunge un totale complessivo di 1.659 addetti (1.165 per il commercio e 494 per la pesca), per 123 navigli (46 da commercio e 77 da pesca). Nel commercio ci sono 27 capitani, 108 padroni, 730 marinari, 300 mozzi. Nella pesca, 90 padroni, 334 marinai, 70 mozzi. Un padrone per farsi la barca deve indebitarsi per un periodo così lungo che normalmente coincide con quasi tutta la durata della barca stessa, che va dai dieci ai quindici anni. A metà della crisi (1864) Luigi Tonini censisce 5.284 riminesi «portolotti» cioè pescatori, naviganti, calafati, commercianti, industrianti e quanti compongono i loro nuclei famigliari. Sono poco meno di un terzo della popolazione urbana complessiva (rioni di città e borghi), che ascende a 16.874 anime sulle circa 33 mila dell'intero Comune. I pescatori risultano 419, i naviganti 458. I pescatori e le loro famiglie sono soltanto un migliaio di persone, un terzo di quanto erano sul finire del secolo precedente. I naviganti e famiglie arrivano a 1.823 unità. I «portolotti» abitano prevalentemente, ma non soltanto, nei borghi Marina e San Giuliano. La situazione idraulica del canale rende poco servibile il porto. Ne ricevono danno il commercio e l'attività delle costruzioni marittime. A questa situazione negativa si cerca di porre rimedio tra 1842 e 1863 con un duplice prolungamento dei moli secondo la ricordata ricetta settecentesca di Giovanni Bianchi, per complessivi 328 metri a levante e 373 a ponente. Il rinnovato Porto Corsini di Ravenna dal 1870 toglie a quello di Rimini il primato che aveva nel tratto di costa fra Venezia ed Ancona. Nel 1859 inoltre il porto di Rimini è declassato a semplice commissariato di prima classe da capoluogo (trasferito a Ravenna) di circondario marittimo qual era dal 1803. Nel 1843 il porto è stato dichiarato «scalo di merci per la Toscana». Quando il re Vittorio Emanuele II passa da Rimini alla fine del 1860, una commissione gli consegna un foglio «per il Porto». Più che la crisi del porto e della marineria, è un'intera crisi politica della città voluta dai suoi amministratori. Nel 1938, come s'è accennato, si chiude la secolare vicenda della sistemazione del canale. Dando ragione a Serafino Calindri che il 14 giugno 1764, nel pubblico Palazzo, aveva spiegato che quello di Rimini non poteva essere un buon porto perché «fabbricato sopra di un fiume». Antonio Montanari |