il Rimino - Riministoria

Pensiero ‘flessibile’
per una civiltà del dialogo
Ezio Raimondi:
ogni parola ha una «dimensione pubblica»

EZIO RAIMONDI tenne nell’ottobre 1993 una serie di lezioni nel corso di un seminario di studi sulla retorica, organizzato dalla Biblioteca Comunale di Cattolica. Ora quei testi sono raccolti in un volume della casa editrice bolognese «il Mulino» («La retorica oggi», ¤ 9,30), che esce con la premessa di Marcello Di Bella, direttore a quel tempo della stessa Biblioteca di Cattolica, ed ora della Gambalunghiana riminese. In fondo al libro è riprodotta una lunga intervista di Benedetta Craveri a Raimondi, pubblicata (con qualche riduzione) su «la Repubblica» del 27 giugno 2000.

Proprio la domanda conclusiva di Benedetta Craveri a Raimondi può essere presa come introduzione al suo pensiero: a che cosa serve la retorica, fuori dal mondo della cultura? Raimondi sintetizza in poche frasi il nocciolo della questione: la retorica come «dottrina della parola e delle sue interne possibilità in quanto rapporto con l’altro», dovrebbe essere lo strumento da conoscere e possedere per sottrarsi alle manipolazioni davanti a cui la realtà ogni giorno ci pone. La parola, prosegue Raimondi, quando ha una «dimensione pubblica», cerca di «persuadermi di qualcosa o a qualcosa»: come posso difendermi, come posso tutelare la «mia stessa libertà e consapevolezza» se non la so analizzare?

Appare subito chiaro che l’itinerario costruito dal celebre italianista bolognese non è un terreno riservato esclusivamente agli studiosi, ma pone un problema che ogni cittadino ‘comune’, responsabile nei confronti di sé e del prossimo, dovrebbe affrontare con serietà ed attenzione.

Se la parola è il nostro mezzo di comunicazione con il mondo e con gli altri, bisogna che conosciamo come esso agisce. Ogni comunicazione è sempre in due direzioni: quando parlo io e gli altri mi ascoltano, e poi quando parlano gli altri ed ascolto io. E, come in una linea telefonica, se c’è un disturbo, il messaggio parte male oppure giunge deformato. Ma può anche darsi il caso che, pur funzionando bene la linea, i due interlocutori non riescano ad intendersi. Quante volte succede di udire l’espressione: «ma allora parliamo due lingue diverse». E’ in questi casi che ci si accorge che le parole possono avere significati ambigui, che bisogna stare attenti a come si parla, per non provocare equivoci negli altri, o per comprendere esattamente i termini della questione.

Ovviamente il discorso di Raimondi richiama non tanto quei rapporti interpersonali che rientrano nella sfera privata, quanto quelli che attengono alla sfera pubblica. Non per nulla, all’inizio del suo volume, è ricordato Aristotele che nella «Retorica» esaminava anzitutto il discorso pubblico come quello che riguarda la giustizia («e che possiamo quindi chiamare ‘giudiziario’», aggiunge Raimondi), facendolo seguire dal «discorso deliberativo, che serve invece a prendere decisioni» (e che appare, detto in soldoni, come quello politico).

Il riferimento a queste premesse sembra togliere immediatamente di mezzo dalla nostra mente tutti quei ricordi che fanno della retorica l’arte della costruzione di un discorso che, anziché filare liscio, s’arrampica sugli effetti e sulle ricercatezze (retorico, secondo il dizionario, significa «gonfio, prolisso, ridondante»). No, tutto ciò non c’entra. La retorica, spiega Raimondi alla Craveri, nell’Umanesimo riscopre la parola come «elemento fondamentale della ’civitas’ umana». Oggi, leggiamo nel volume, essa si ripropone come attività «nella quale viene alla luce il momento problematico dell’uomo».

E’ questo il punto centrale del discorso di Raimondi. L’atteggiamento problematico nasce nell’Umanesimo, con «una nuova idea di cultura che riscopre la retorica in contrapposizione al rigore ed alla rigidità della filosofia, facendone una teoria del dialogo, del colloquio umano, della conoscenza dell’uomo come singolo e come ente pubblico». Oggi come oggi, scrive Raimondi qualche pagina più avanti, la retorica «non può non essere una teoria del dialogo», verificando e regolamentando i conflitti «attraverso la parola, senza ricorrere a ciò che è al di là della parola, in nome di una razionalità complessiva che riesca a capire anche l’altro, le sue ragioni e i suoi diritti».

Non c’è bisogno di sottolineare l’importanza che un simile atteggiamento potrebbe, anzi dovrebbe avere in tutti i campi dell’agire umano: in quel divenire della Storia che è la cronaca, registriamo ogni giorno la drammatica realtà in cui la parola delle armi prende sempre più sopravvento sull’arma della parola. (E’ quello che è successo, non dimentichiamolo, anche in Italia al tempo del terrorismo, in cui si poteva constatare come la ragione delle armi avesse soppiantato l’arma della ragione, secondo una formula allora alquanto comune presso chi non condivideva l’estremismo che portava acqua allo stesso terrorismo.)

Dalle pagine di Raimondi emerge l’immagine di un «uomo dialogale» che «significa essere più seri di quanto ci siamo proposti di essere, perché dobbiamo essere noi stessi e allo stesso tempo capire un altro che non è noi». C’è una formula che Raimondi usa, e che possiamo assumere come sintesi di tutto il suo discorso: la retorica «è oggi un’interrogazione razionale sul molteplice che è l’uomo».

Quasi per paradosso, aggiunge, occorre ammettere che la retorica stessa «è luogo di paradossi, accetta i paradossi dell’uomo e riconosce, a differenza della logica, il principio di contraddizione». Entro un orizzonte di questa natura, oggi, se la retorica vuol avere ancora una funzione, «dobbiamo vederla in modo problematico». Il che vuol dire interpretare l’uomo partendo appunto dall’uomo, «anziché da teorie o ideologie, facendo i conti con ciò che è irriducibilmente proprio dell’uomo, e cioè ancora il molteplice, che non si riduce se non attraverso un’autorità, ma che altrimenti deve necessariamente essere negoziato».

Si potrebbe condensare il tema in una breve frase: dalle parole alla democrazia. La quale non ci è data felicemente in eterno, ma deve ogni giorno essere testimoniata e costruita: e come nei castelli di carte, basta un nonnulla per far crollare il tutto. In un’epoca in cui si cita tanto, in campo economico, la flessibilità, si può prendere a prestito questo concetto per sostenere che soltanto chi ricorre ad un pensiero ‘flessibile’ (cioè non dogmatico), permette la costruzione di una civiltà del dialogo.

Chi è oggi, nel campo della comunicazione, il più grande studioso di retorica? Risponde Raimondi: è il pubblicitario che, rispetto agli antichi, ha un’arma in più, avendo scoperto l’inconscio o, come si dice, il subliminale. Anche la televisione «è uno spazio in cui la retorica trova evidentemente nuovi campi d’applicazione». Nella televisione, «il rischio è quello della messa in crisi della distanza tra reale e irreale», promuovendo «un meccanismo che finisce con l’incidere sulla nostra costruzione mentale, sulle nostre strutture percettive e persino giudicanti».

E la questione fondamentale resta questa: nell’osservare la realtà non bisogna essere passivi, ma occorre andare al di là della verità intesa «solo come possesso», ritenendo che essa sia invece «ricerca e tensione». Come si vede, il volume di Raimondi, non è soltanto un manuale letterario, ma pure lo spunto per una riflessione su quell’arte di governare lo Stato che coinvolge tutti noi, e che chiamiamo politica anche quando è affarismo senza scrupoli.

Antonio Montanari

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