Un numero doppio della rivista «In forma di parole» presenta l'antologia «Poeti della terra d'Albania», con traduzione di Rosangela Sportelli e per iniziativa (mista di «intenzione letteraria e direi anche etico-politica», come scrive il direttore Gianni Scalia), del critico letterario riminese Ennio Grassi che ha al suo attivo numerose importanti pubblicazioni storico-letterarie, oltre che un'attività pubblica anche nel Paese da cui arrivano queste voci liriche.
Voci di autori, aggiunge Scalia, che testimoniano, con quello che uno di loro ha definito «frammenti di resistenza», una condizione a margine del potere totalizzante e della storia ufficiale della loro terra.
Il volume ci fa conoscere una realtà culturale a cui altre iniziative locali (come la mostra della nostra diocesi sulle icone albanesi), hanno tentato di avvicinarsi per dimostrare non soltanto solidarietà d'occasione, ma il bisogno d'allargare la comprensione di un popolo che spesso è raccontato soltanto, a casa nostra, nelle pagine di cronaca nera.
«Tradotta dal silenzio» è definita dai due curatori Grassi e Sportelli la poesia albanese contemporanea, avviandoci ad un discorso in cui la letteratura è costretta inevitabilmente a fare i conti con la politica della «stagione comunista autarchica e nazionalistica» che ne congelò espressioni ed umori, creando una specie di «buco della memoria».
Non è una breve nota giornalistica come questa il luogo più adatto per ripercorrere il dotto excursus che spiega il passaggio dal Risorgimento albanese della seconda metà dell'Ottocento agli anni Trenta del secolo scorso (segnati dagli influssi russi di Majakòvskij e di Esénin), sino al periodo successivo alla seconda guerra mondiale con lo sviluppo di tre «contesti»: quello interno all'Albania, quello di Kosovo e Macedonia, e quello infine della diaspora.
Le note biografiche conclusive precisano, attraverso singole vicende, il quadro generale di una società. Ad esempio Mimoza Ahmeti (nata nel 1968), «enfant terrible» della letteratura albanese, debutta nel 1986 con uno scandaloso libro scritto «al maschile» ed intitolato «Fatti bello», qui definito «grido di rivolta contro i condizionamenti morali e sociali».
Luljeta Lleshanaku (1968), imparentata con oppositori politici, non poté frequentare l'università: il marito (noto narratore) fu licenziato perché troppo «liberale» con la moglie che lui aveva difeso per farle revocare il divieto.
Concludono i curatori Grassi e Sportelli: «Il prezzo pagato dalla poesia, nella lunga notte del regime, in cambio di una precaria sopravvivenza è stato forse troppo alto. La voce giunge come sfinita, esausta al traguardo del cambiamento...».