"ANDREOTTI: TRAGEDIA E VERGOGNA, E' LA POLITICA IMPAZZITA"
di Vincenzo Passerini
"Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose di quante ne sogna la tua filosofia"
(Amleto, atto I, scena V)
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Siamo tutti pieni di amletici dubbi sulla condanna di Andreotti. Ma poi, alla fine, c'è chi ha più certezze di altri. E la certezza dominante, perfino asfissiante, è che è impossibile che Andreotti sia il mandante dell'omicidio Pecorelli. Non solo. Gli attestati di stima, di simpatia, di fervida solidarietà (come quelli dei vertici politici e dei vertici ecclesiastici) trasformano il senatore a vita in una vittima innocente, lui che è così saggio, così ironico, così religioso, così colto, così distaccato. Così diverso da tutti gli altri. Così superiore. E allora sotto accusa si mette la giustizia, in un coro unanime che ha dell'agghiacciante. Dove risorge lo spirito funesto della Bicamerale, dell'accordo D'Alema-Berlusconi per zittire definitivamente i giudici, sacrificati per consentire ai nuovi vincitori di riscrivere il patto costituzionale. Spirito funesto che ammorba l'aria, la rende irrespirabile, tanto che ti vien da dire che in questo infelice paese la verità non la troveremo mai.
Untorelli da quattro soldi, siamo noi, niente di più. Voci stonate in un coro intonato. Non diciamo che è colpevole: c'è una sentenza da leggere, ce n'è un'altra da attendere. E comunque non ne abbiamo né l'autorevolezza che derivi da una qualche certezza, né il desiderio. Ma rifiutiamo il coro che grida: è impossibile! è assurdo! è folle!
Come se la realtà della storia italiana non fosse superiore, nelle cose folli, impossibili, assurde che l'hanno tragicamente segnata, a qualsiasi fantasia. Come se la vicenda Andreotti spuntasse da un prato verde e fiorito, dove ci si scazzotta innocentemente nel gioco del potere. E non, invece, da un campo solcato dalle terrificanti stragi di piazza Fontana a Milano, di piazza della Loggia a Brescia, del treno Italicus, della stazione di Bologna; dal terrorismo che uccise Moro e con lui tanti dei migliori: magistrati, giornalisti, generali, carabinieri e poliziotti, sindacalisti; dal potere occulto e svelato della loggia massonica P2, pericoloso cancro delle istituzioni come lo definì la commissione parlamentare d'inchiesta; dalle stragi di mafia che decapitarono una intera classe dirigente in Sicilia: magistrati, politici, generali; dai servizi segreti che hanno fatto e disfatto tutto a piacimento, e che hanno marcato la loro presenza in ciascuna di queste tragiche vicende; dai disegni finanziari inquietanti dei Calvi e dei Sindona, loro pure infine assassinati; dai grandi scandali che hanno visti coinvolti i vertici della politica, dell'amministrazione pubblica, della guardia di finanza, dei carabinieri. In quale altro paese europeo è capitato tanto? Nemmeno il sanguinolento e immaginoso Shakespeare sarebbe riuscito ad inventare tanti fatti così folli in così poco spazio, di terra e di tempo. Eppure, tutto questo è accaduto nella bella Italia, in questo fazzoletto di terra, in pochi anni. Ma lui lo sapeva che la realtà strapazza ogni immaginazione. Siamo noi che fingiamo di non saperlo, che fingiamo di stupirci.
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Perché questo è l'ultimo capitolo della tragedia della politica italiana, non della giustizia italiana. Si stanno rovesciando le parti, come se fossimo partecipi di una storia normale su cui agisce una giustizia impazzita. E non, invece, di una storia impazzita su cui cerca di agire una giustizia normale. Ecco il cuore della questione italiana. La giustizia, soprattutto negli ultimi vent'anni, ha cercato di far fronte a questo impazzimento della politica. Qualcuno si è venduto, qualcuno ha fatto finta di non vedere, qualcuno ha peccato di protagonismo, ma nel suo insieme la giustizia ha fatto fronte con grande dignità alle tragedie della politica impazzita. Dal terrorismo alle stragi, dai delitti di mafia alla corruzione, dai poteri occulti ai grandi scandali finanziari la giustizia ha cercato, spesso pagando un altissimo prezzo di sangue, di trovare la verità. E se non c'è riuscita, talvolta, è perché ha trovato di fronte gli innumerevoli ostacoli costruiti dagli innumerevoli poteri, i silenzi, i "non ricordo", le complicità diffuse, i testimoni ammazzati, le delegittimazioni dall'alto. I muri di gomma. A volte anche le leggi fatte apposte per impedire di arrivare alla verità.
Il delitto Pecorelli, avvenuto il 20 marzo del 1979, è dentro il terribile quinquennio della politica italiana che va dal delitto Moro, nel 1978, al delitto Dalla Chiesa, nel 1982. In mezzo ci sono: l'assassinio dell'avvocato Ambrosoli (luglio 1979) ad opera dei sicari di Sindona; l'ingiusta incriminazione dei vertici della Banca d'Italia architettata dagli amici di Sindona (luglio 1979); gli assassinii, ad opera delle Brigate Rosse, di Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Walter Tobagi (1979); l'assassinio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, da parte delle Br (gennaio 1980); lo scandalo dei petroli (giugno 1980) che vede implicati i comandanti della guardia di finanza; l'abbattimento dell'aereo DC9 Itavia sul cielo di Ustica, 81 morti (27 giugno 1980); la strage terroristica alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) che provoca 83 morti; la scoperta degli elenchi della loggia massonica Propaganda 2 (marzo 1981) ad opera dei magistrati Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Guido Viola: 962 affiliati, tra cui ministri, generali, i vertici della guardia di finanza e dei servizi segreti, giornalisti, Silvio Berlusconi; l'assassinio di Calvi a Londra ( giugno 1982); l'assassinio del generale Dalla Chiesa in Sicilia (settembre 1982), che chiude la prima sanguinosa stagione dei grandi delitti di mafia che hanno decapitato le istituzioni siciliane (Mattarella, Terranova, Chinnici, Ciaccio Montalto).
Elenco incompleto ma bastante a ricordarci il quinquennio terribile e folle della politica italiana in cui si inscrive la vicenda Pecorelli- Andreotti. Quale sia stato il ruolo del senatore a vita in alcune di queste vicende è vecchia materia di discussione e di indagine. Ma alcuni fatti, almeno, vanno ricordati.
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Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere brigatista riserva ad Andreotti i giudizi più pesanti, più implacabili. "Accuse brucianti" le definisce Alfredo Carlo Moro (in "Storia di un delitto annunciato", 1998), fratello dello statista ucciso, magistrato, già presidente del tribunale dei minorenni di Roma, che assegna al memoriale il valore "non di uno scritto difensivo ma di un testamento politico".
In secondo luogo. I rapporti di Andreotti con potenti ambienti mafiosi siciliani sono stati considerati certi anche dalla sentenza del tribunale di Palermo che ha assolto Andreotti dall'accusa di associazione mafiosa (le sentenze vano lette anche nei casi di assoluzione perché si scoprono verità meno comode di quelle che si vogliono far credere).
In terzo luogo. Andreotti mentì al maxiprocesso di Palermo nel 1986 a proposito dei suoi rapporti con il generale Dalla Chiesa, e negò quanto il generale aveva scritto nel suo diario a proposito del colloquio con lo stesso Andreotti ("non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori" aveva detto Dalla Chiesa ad Andreotti; si veda "Storie di boss, ministri, tribunali, giornali, intellettuali, cittadini" (1990), di Nando Dalla Chiesa, oggi parlamentare della Margherita).
In quarto luogo. Sindona cercò di neutralizzare politicamente le indagini del coraggioso avvocato Giorgio Ambrosoli anche con l'aiuto di Andreotti, suo amico e protettore. Non riuscendoci fece assassinare l'avvocato (si legga il preciso "Un eroe borghese" di Corrado Stajano, 1991).
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Due osservazioni, infine.
E' profondamente sbagliato identificare la storia della DC con quella di Andreotti. E' sbagliato da un punto di vista storico e da un punto di vista morale. La storia della DC è stata fatta da Degasperi, da Fanfani e da Moro, che non avevano nulla da spartire con Andreotti (nemmeno Degasperi, distante anni luce dal suo collaboratore). Andreotti c'è sempre, è potente, si adatta ai tempi che mutano, ma non li prefigura, né li costruisce. Salva sempre se stesso, fino alla fine. Moro muore ucciso, e Craxi e Forlani con i quali gestisce gli anni Ottanta del dopo Moro, finiscono condannati, il primo fugge e muore all'estero, il secondo è mandato ai servizi sociali.
Infine. E' per me inaccettabile che i vertici della mia Chiesa indichino Andreotti come una sorta di modello di impegno civile e politico. Tra i cattolici impegnati a fare il proprio dovere sarebbe di gran lunga preferibile indicare come esempi, restando nell'ambito di questa tragedia della politica italiana, l'avvocato Giorgio Ambrosoli, o il giudice-ragazzino Livatino, o Paolo Borsellino. Fecero il loro dovere di fronte alle mafie che li stritolavano, in solitudine, senza indietreggiare, contando unicamente sulla loro fede e sulla loro coscienza.
Vincenzo Passerini
L'Adige, 21 novembre 2002
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