IL FURORE DEI MARINAI. CRISI ISTITUZIONALE DELLA MUNICIPALITÀ DI RIMINI PER LA RIVOLTA DEI «PESCATORI» (30.5.1799-13.1.1800).
Relazione presentata agli STUDI ROMAGNOLI.
IMOLA, 20 OTTOBRE 2002
Il 30 maggio 1799 giunge all'epilogo il «governo francese» di Rimini che era iniziato il 5 febbraio 1797.
Le cronache del notaio Michel Angelo Zanotti narrano che, mentre «le Barche pescareccie» rientrano frettolosamente, un «brigantino austriaco con bandiera imperiale» comincia a far fuoco contro i militari francesi, posti a difesa del porto ed armati d'un solo cannone.
I pescatori riminesi mettono in fuga i soldati repubblicani, e poi marciano verso il centro della città. Scrive il commerciante Nicola Giangi: ai pescatori si uniscono «li birbanti». Tutti assieme vanno «a dar il sacheggio a due Boteghe di Ebrei», bruciano «gli Arbori di Libertà», ed assaltano il «Palazzo Publigo», dove rubano «tutto quello che vi era», dopo aver «rotto ogni cosa».
Sintetizza Giangi: «Insorgenza». La parola non ha per lui quella connotazione politica che le attribuiamo noi oggi. Per questo occorre chiedersi: quella dei marinai e dei «birbanti», fu una vera «insorgenza»? Cioè, fu una sollevazione popolare contro i repubblicani, i giacobini, i senzacristo, in nome del regime pontificio e della fede cristiana?
Molti rispondo tranquillamente di sì, usando però in maniera disinvolta le cronache di Zanotti. Il quale era un bel fiore di reazionario, sostenitore dell'antico regime, e non dei diritti dei popoli.
Zanotti vuole dimostrare che la rivolta antifrancese è fatta in nome di ideali politici e religiosi a cui dev'essere tributato il massimo rispetto, perché rovesciano i pericolosi princìpi di libertà, propagandati dalle truppe repubblicane e da quanti le hanno applaudite.
Zanotti però accompagna all'elogio degli «Insorgenti» la denuncia degli eccessi commessi in quei giorni a Rimini. Egli li attribuisce non ai «pescatori», promotori della rivolta antifrancese, ma a quella popolazione che loro s'accompagnava, provocando azioni che il nostro cronista definisce non condivisibili, anzi decisamente condannabili. Per lui sono buoni i marinai, e sono cattivi i «villani», calati «dalla Campagna, e dai vicini monti».
I seguaci odierni del notaio Zanotti, prendono soltanto la prima parte del suo racconto, quella sui buoni insorgenti; cancellano la seconda, dove si narra dei misfatti compiuti dai villani, dopo l'avvio dell'insurrezione da parte dei pescatori, e dimenticano che in altri passi Zanotti incolpa gli stessi marinai per le violenze avvenute in città.
La marineria riminese era «numerosa e poco docile». Così la definisce un documento municipale diretto al Legato nel luglio 1796, in relazione al problema delle armi sequestrate per prevenire disordini, al primo affacciarsi delle truppe repubblicane in Romagna.
Queste fonti municipali raccontano quello che Zanotti ha taciuto. Anche per Zanotti vale quanto è stato osservato da Anna Maria Rao in ambito nazionale: a forgiare le immagini negative delle sommosse popolari «sono soprattutto le cronache redatte da membri del clero o delle élites locali legittimiste». Esse non ricercano i motivi veri delle rivolte, le descrivono soltanto in base ai loro pregiudizi.
C'è una sommossa dei marinai, dunque. Una sommossa lunga e violenta che s'inserisce nel difficile quadro politico dell'ultimo Settecento riminese, di cui ho parlato in due precedenti comunicazioni . C'è, da lungo tempo, un contrasto fra nobili e borghesi. I nobili sono arroccati a difesa dei loro privilegi, ma pure sprofondati in grave crisi economica. I borghesi invece tentano l'ascesa al potere politico. Li accomuna il sogno municipalistico di uno Stato coincidente con le mura della città.
Le gravi ed estese devastazioni delle campagne, le prepotenze, le violenze continue contro le persone ed il patrimonio privato o pubblico, gli abusi commessi dai francesi, hanno sconvolto il panorama umano e sociale, aprendo il varco ad una protesta sempre più vasta ed intensa. Di questo clima del tutto nuovo, approfitta la «poco docile» classe dei marinai, seguìta dai «villani» dei dintorni.
Alle rivolte, gli austriaci rispondono con ripetuti e severi proclami che lasciano comunque il tempo che trovano.
Può qualcosa di più l'intervento del vescovo che riesce a far cessare il sequestro di due nobili, avvenuto il 31 maggio. Lo stesso giorno, il vescovo spiega al popolo che la città sconvolta ha necessità di «eleggere una nuova, e saggia magistratura pel regime della Commune».
Nei verbali della Reggenza, leggiamo che «il Popolo richiese a Monsignor Vescovo, che gli avesse nominato de' soggetti per una nuova Magistratura provvisoria». E che, «avendo Egli risposto, che il Popolo li avesse nominati da se, questi acclamò» sei persone che avevano già svolto ruoli amministrativi in città negli anni precedenti.
Il primo giugno il maggiore De Potts, comandante della Marina imperiale, conferma «provvisoriamente la scelta del Popolo».
La composizione di questa Magistratura subisce dei cambiamenti il 2 luglio ed il primo di agosto. Il 2 luglio si decide anche di ripristinare il numero di otto componenti (sei «Nobili» e due «Cittadini») come sotto il governo pontificio. Il primo agosto si ritorna invece ai sei componenti.
Il 2 giugno per volontà degli austriaci è nata la Guardia urbana, composta di quattrocento persone in tutto, «specialmente di marinari rivoluzionati» (come scrive la Reggenza). I quali marinai, legittimati ora dall'autorità, possono continuare a creare disordini impunemente.
Il primo giorno di attività della Guardia urbana, il 3 giugno, li vede sùbito in azione. I marinai catturano Barbara Belmonti, figlia di Gian Maria Belmonti, filofrancese, che sarà arrestato e trasferito in Ungheria, dove morirà (a quanto pare suicida) il 10 settembre dell'anno successivo, a cinquant'anni. Barbara, sospettata di aver nascosto il comandante cisalpino generale Chirau, è liberata dopo l'interrogatorio.
L'8 giugno i nuovi amministratori della città sono approvati dagli austriaci con il titolo di «Cesareo Regio Magistrato Provvisorio».
Gli austriaci, lo stesso giorno, intimano la cessazione di ogni disordine (lasciate amministrare la Giustizia solamente a Dio ed all'Imperatore, scrivono); ed ordinano (inutilmente) ai marinai di riprendere il loro mestiere, lasciando a terra soltanto due uomini per equipaggio (composto comunemente di quindici marinai), per controllare la situazione cittadina. Ormai, osserva Zanotti la «marinareccia armata» svolge «un'attività troppo materiale» contro la «pubblica tranquillità». Ma, com'abbiamo visto, parte della stessa «marinareccia armata» era inserita nella Guardia Urbana.
Coi pescatori ci riprova il 19 giugno (ancora invano) il vescovo di Cervia monsignor Gazola: è suo il proclama del cosiddetto «mezzo Mestiere», metà dei marinai al lavoro, metà a difendere Rimini.
Nulla però cambia. Tra 27 e 28 giugno i marinai mettono a soqquadro la città. La colpa, sostengono, è dei giacobini che hanno procurato l'allarme, dicendo che stavano per tornare i francesi. La Magistratura ricorre a due pii sacerdoti per placare i rivoltosi. Intanto il 21 giugno è stato ripristinato l'antico segnale sul cappello per gli Ebrei.
Il popolo è affamato. Non c'è denaro. Si dà la colpa ai Francesi. Al tempo del «governo francese», si era data la colpa al papa.
Gli austriaci vogliono una reggenza unica per la Romagna. Ravenna assume un ruolo principale, che non piace alle altre città le quali si ribellano: tutte eguali o niente, dicono, non vogliamo dipendere da Ravenna. I problemi urgenti restano sul tappeto, e ci si accapiglia sino all'inizio dell'anno successivo, quando Ravenna ottiene due rappresentanti, anziché uno come tutte le altre cinque città romagnole (Cesena, Faenza, Forlì, Imola, e Rimini).
Solamente il 10 gennaio 1800 a Rimini si può ritornare alle leggi pontificie del 1796, ovviamente sotto controllo austriaco, in esecuzione del «Piano provvisorio di organizzazione pel buon ordine della Provincia» del commissario provinciale Pellegrini, del 29 dicembre 1799.
Tra gli elementi di disturbo della vita pubblica, va annoverato anche il comportamento dello stesso comandante della Guardia urbana, Lorenzo Garampi, che abusa dei propri poteri: l'8 agosto arresta, processa ed addirittura condanna il vecchio bargello, Antonio Maria Palladini, già imprigionato a giugno perché non gradito al popolo. Liberato alla fine di luglio, Palladini aveva chiesto di essere reintegrato nella propria funzione. La Municipalità gli aveva risposto negativamente: egli era persona «malvisa» al popolo, ed «il mal umore» contro di lui («ed anche contro tutti gli sbirri»), non si era infatti ancora estinto.
Il 27 agosto, in cattedrale nasce una «sanguinosa zuffa» provocata dai soliti marinai. Garampi, nel bel mezzo della scena, scappa sul campanile, mentre intervengono «coraggiosi gentiluomini», racconta Zanotti, nel vano tentativo di placare i rivoltosi. «Aumentati di numero, e di animosità», i rivoltosi corrono alle porte civiche, e ne disarmano le guardie. Ben protetto dai soldati, Garampi torna nel suo palazzo, da dove fa battere la generale e dar fiato alle «guerriere trombe»: i marinai sono così ricacciati «nei loro Borghi».
Il 4 settembre, ricorda il cronista Giangi, Lorenzo Garampi ìntima ad alcune persone di partire subito «dalla Città, e Territorio di Rimini». Tra loro c'è il medico Michele Rosa: come colpa gli era attribuita la collaborazione con l'autorità francese per un piano di studi per la Romagna, neppur concepito.
Il 16, 17 e 18 ottobre i «marinari» organizzano un solenne triduo di ringraziamento «per li riportati favori nel conflitto co' Francesi del dì 31 maggio scorso»: Zanotti aggiunge che vi partecipa tutta la popolazione del Borgo di San Giuliano. Viene da chiedersi: perché il ringraziamento è celebrato con quattro mesi di ritardo? Più che un ritardo, potrebbe essere la conferma della volontà di continuare a controllare la piazza.
Il 17 dicembre Garampi pubblica un proclama sull'ordine pubblico, al fine di evitare arresti arbitrari.
Quattro giorni dopo, il 21 dicembre, la Reggenza riminese scrive al Commissario provinciale Giuseppe Pellegrini che i timori sulla pubblica tranquillità espressi da Garampi non hanno «verun fondamento»: «Regna la quiete nella Città nostra, in modo che non si conosce pericolo alcuno, che possa rimanere turbata», nonostante l'aumento dei prezzi dei generi alimentari.
«Alla quiete dell'Interno della Città», si aggiunge, «non si oppone ormai più l'aggitazione de Montanari, accordandosi loro dentro i limiti della Provincia del Granoturco pel giornaliero sostentamento». Erano quegli stessi «Montanari» che avevano turbato la vita del territorio riminese nel 1797, sempre a causa della mancanza di cibo nelle loro misere contrade .
A complicare la vita cittadina interviene pure il vescovo: al primo appressarsi delle armi austriache, ha eretto il Tribunale civile e criminale, riaperta la Cancelleria, «e riassunto perfino l'uso di tenere la forza armata», commettendo esecuzioni giudicate odiose dalla Reggenza riminese.
Il 5 dicembre la Reggenza impone all'Annona la fabbricazione provvisoria di una qualità speciale di pane ad uso esclusivo della Marineria, «fra il Bianco, ed il Bruno». Questo terzo tipo richiede una maggior cottura, ed ha «il sale, che vi occorre uniformemente a quello che sogliono fare in casa». I marinai «mal volentieri si adattano a questo necessario provvedimento», essendo soliti a comprare il grano sul mercato ed «a fare il pane in casa». (Nel 1801 il ricordato medico Michele Rosa suggerisce di rendere commestibile la ghianda. Un panettiere mette subito in pratica la ricetta, ottenendo un prodotto che riscuote un'entusiastica approvazione da parte della Municipalità.)
Fra il 13 ed il 31 gennaio 1800, il Consiglio generale municipale subisce quattro cambiamenti.
Il 13 gennaio Lorenzo Garampi denuncia irregolarità nel voto. Tra i convocati, cioè i trentanove consiglieri in funzione nel 1796, c'erano pure quei filofrancesi che secondo Garampi si erano dimostrati «infetti» e «di non sana morale», per essere stati favorevoli alle «massime democratiche». Garampi presenta un ricorso che blocca la nomina dei sei nuovi magistrati.
Tra questi sei eletti, figura addirittura uno dei filofrancesi avversati da Garampi: è Daniele Felici Capello che in età repubblicana ha ricoperto importanti incarichi non soltanto a Rimini ma pure nell'Amministrazione Centrale di Romagna (1797), diventandone presidente, ed è stato commissario governativo nel Dipartimento del Rubicone (1798). Sarà ministro dell'Interno nella Repubblica Italiana (1803) e ministro delle Finanze nel Regno Italico di Napoleone. Durante la Reggenza austriaca nel 1799 è amministratore del Dazio sulla macina del grano.
Nuova votazione il 19 gennaio. Si dà ragione sostanzialmente a Garampi. Occorreva fare un'epurazione dei sospetti filofrancesi, prima della convocazione del Consiglio. I consiglieri sono avvisati. Per essere esclusi dal parlamento cittadino non basta però il «semplice giuramento prestato nel tempo del Governo Repubblicano», occorre aver avuto «una successiva condotta riprensibile notoriamente».
Tre sono gli assenti il giorno 19: l'arrestato Belmonti (il suo fratellastro Alessandro Belmonti Cima è fra gli eletti non ratificati del 13), Gaetano Gaspare Battaglini (andato a Venezia) e Gaetano Urbano Urbani, ritiratosi in villa al Covignano.
Nella votazione del 19, un solo consigliere raggiunge il quorum richiesto dei due terzi. Il 28 gennaio si tengono altre due ballottazioni: in nessun caso si ottiene l'approvazione con i due terzi.
Il delegato imperiale Marco Bonzetti alla Municipalità riminese non sa come risolvere la situazione. Ogni nuova votazione è stata ordinata dal Commissario provinciale Giuseppe Pellegrini. Anche questa vota si attendono lumi da Pellegrini. Il quale, come racconta Zanotti, dichiara di essere «giustamente annoiato dalle praticate discordie, e maneggi», e di considerare «superfluo, ed indecoroso il ripetere delle nuove adunanze inutili», per cui decide di nominare lui stesso il Magistrato riminese.
Pellegrini sceglie:
1. Francesco Bonsi (unico eletto il 19 gennaio),
2. Ippolito Tonti (il 16 giugno ha sostituito un dimissionario, ed è stato nominato presidente del Consiglio riminese il primo agosto),
3. Giuseppe Soleri (già prescelto dal popolo il 31 maggio),
4. Francesco Mancini (votato, ma senza ottenere il quorum, il 19 gennaio),
5. Carlo Garattoni e
6. Gaetano Ceccarelli (eletti il 13 gennaio, nella votazione fatta invalidare da Garampi).
Il primo febbraio entra in carica il nuovo governatore, Luigi Brosi: è lo stesso governatore fuggito da Rimini il 2 febbraio 1797 assieme al vescovo Ferretti, due giorni prima che giungessero i francesi.
Il 5 febbraio 1800, a tre anni esatti dalla nascita del «governo francese», si tiene l'adunanza del Consiglio con il nuovo Magistrato di Rimini.
Sotto questa data, il cronista Giangi scrive: «Questa matina non si è più veduta la Bandiera al Pogiolo di questo Conte Lorenzo Garampi». Lo strapotere del comandante della Guardia urbana è finito. La sua vicenda è esemplare. Gli austriaci hanno tentato di servirsi di Garampi per piegare gli amministratori municipali al loro volere, come testimonia un episodio del 31 luglio, quando il comandante della Romagna De Buday non accetta un rinnovo della Reggenza a cui il Magistrato Provvisorio ha pensato per il primo agosto, ed ordina a Lorenzo Garampi d'intimare agli amministratori in carica di non cambiare nulla rispetto alla conferma austriaca della «scelta del Popolo» del primo giugno. Gli amministratori disubbidirono, ed il primo agosto riportarono a sei i componenti della Magistratura.
L'uscita di scena di Garampi è anche uno schiaffo alle pretese di Vienna di governare una qualsiasi piccola città conquistata manu militari, con la complicità di qualche fanatico rappresentante locale.
Antonio Montanari
Al
saggio
integrale.
All'
indice
di Riministoria
|