Marco Biagi: l'art. 18, un errore del governo
Articolo del prof. Stefano Zamagni
Molto è stato detto e scritto - non sempre, in verità, in maniera accurata e non strumentalizzante - sul sacrificio di Marco Biagi, uomo mite e giusto, studioso raffinato e creativo, padre e marito generoso e affabile. Preferisco allora utilizzare queste poche righe per avanzare una sorta di interpretazione della vicenda umana di Marco e del suo drammatico epilogo. Mi preme, infatti, cercare di estrarre da questa vicenda come un messaggio e un ammonimento. Forse è questo il modo più conveniente di riempire il vuoto che lascia la scomparsa di un amico fedele e di uno stimato collega.
Prima, però, un brevissimo ricordo personale. Incontrai per la prima volta Marco esattamente venti anni fa alla Johns Hopkins University, l'Università americana che ha sede a Bologna, dove io insegnavo già da qualche anno e dove Marco continuò ad insegnare con regolarità fino al corrente anno accademico il suo corso di "Relazioni industriali in prospettiva europea". Da allora frequenti e via via crescenti nel tempo sono stati i contatti personali, a livello non solo scientifico ma anche familiare. L'immagine più forte che ho di Marco è la passione con cui portava avanti i suoi progetti, il suo sentimento profondo di questo nostro tempo e delle sue valenze. Il suo insegnamento universitario non si limitava a trasmettere nozioni e strumentazioni tecniche, ma riusciva a veicolare valori etici forti, quelli che coinvolgono la persona nella sua interezza. Un habitus questo che gli derivava dagli anni trascorsi in Africa, nel periodo della giovinezza, in qualità di volontario durante i periodi estivi. Nel seminario del 25 gennaio 2002 alla Consulta dell'Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI, Marco aveva esordito con queste parole: "Il confronto sui temi del lavoro è molto utile in tutte le direzioni e in tutti gli ambienti; essendo poi un credente, mi è particolarmente di aiuto riflettere nell'ambiente della Chiesa cui appartengo e in cui credo".
Un ultimo ricordo, importante - credo - per fare luce sulle interpretazioni e sui commenti dei giorni scorsi. In una di quelle conversazioni che si fanno quando due amici si incontrano sul treno, la settimana precedente il barbaro assassinio, Marco mi diceva che era stato un errore aver inserito nel disegno di legge delega sulla riforma del mercato del lavoro la cancellazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Altre questioni di prioritaria importanza - mi illustrava - avrebbero dovuto trovare una soluzione prima di arrivare a discutere della revisione dell'art.18. Si tratta della riforma del collocamento, della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, della flessibilità in entrata nel mercato del lavoro, della regolazione delle collaborazioni. Una posizione questa che Marco espresse in modo assai fermo in uno dei suoi ultimi scritti dove si legge: "Queste e altre sono le priorità [quelle sopra indicate]. Un governo che dichiara di operare nell'arco di una legislatura non dovrebbe temere di affrontare i problemi uno alla volta".
Quali i messaggi che la vicenda umana e scientifica di Biagi ci invia con forza? Due, in particolare, meritano la nostra speciale attenzione. Il primo è che il nostro è un paese nel quale stenta ancora ad affermarsi e ad acquisire un suo proprio ruolo la figura dell'intellettuale della società civile, come a me piace chiamarlo. E' come se fossimo costretti a scegliere tra la figura dell'intellettuale-idéologue - un soggetto che pone la propria capacità al servizio di una qualche ortodossia; in buona sostanza, la figura dell'intellettuale organico in senso gramsciano - e quella dell'intellettuale-esperto che studia con competenza tecnica la società di cui è parte, ma da essa se ne tiene a debita distanza, proprio come l'astronomo osserva e analizza il firmamento. L'intellettuale della società civile, invece, è un soggetto che, pur non aderendo ad uno schieramento politico e pur non facendo vita di partito, si adopera fattivamente perché qualcosa di rilevante abbia a mutare nell'assetto istituzionale del proprio paese nella direzione del bene comune. Marco apparteneva a questa pattuglia di intellettuali ed è stato eliminato, come parecchi altri prima di lui, dal terrorismo cosiddetto rivoluzionario. Perché? Contrariamente a quanto molti sono inclini a pensare, il terrorista non è un folle, né una scheggia impazzita. Al contrario, è un soggetto freddamente razionale - anche se di razionalità disumana si tratta - che ha bene compreso come l'intellettuale della società civile sia indispensabile per la formazione di un'opinione pubblica libera ed esigente e come quest'ultima sia necessaria perché una democrazia autentica possa espandersi ed irrobustirsi. Ecco perché si colpiscono proprio questi soggetti: si pensi a persone come V. Bachelet, R. Ruffilli e a quelli che ricorderò tra breve.
L'altro messaggio ci viene dalla seguente constatazione. Cosa hanno in comune Ezio Tarantelli, Gino Giugni - grazie a Dio, solamente ferito - Massimo D'Antona e ora Marco Biagi? Che tutti e quattro si erano occupati, in modi e tempi diversi, di riforme del mercato del lavoro. Si tratta di qualcosa di casuale? Non lo credo proprio. La verità è che, ancora troppo radicata in certi segmenti della società civile italiana, è l'idea, di ascendenza vetero-marxiana, secondo cui il rapporto di lavoro capitalistico non può essere riformato ma solo radicalmente superato. Non solo, ma ogni tentativo di rendere questo rapporto più umano, cioè meno esposto a forme di sfruttamento e di alienazione, va contrastato con ogni mezzo perché ciò ritarderebbe l'avvento della "nuova società", della palingenesi definitiva. Non è dunque per caso che il nuovo terrorismo colpisca chi si occupa di avanzare proposte, più o meno risolutive, di intervento sul rapporto di lavoro e non anche su altri pezzi importanti del welfare, come la sanità, la scuola, l'assistenza e così via.
Quale il senso ultimo di quanto precede? Quello di ricordarci che, senza nulla togliere alla validità dei metodi tradizionali di lotta al terrorismo, la strategia vincente non può che essere quella propriamente culturale. Per un verso, si tratta di portare avanti, con maggiore determinazione, lo sforzo perché si affermi nel nostro paese quell'idea di società civile che è alla base, in particolare, del Progetto Culturale della Chiesa Italiana; per l'altro verso, occorre affrettare i tempi perché prenda avvio - una buona volta - un dibattito di alto profilo sul senso del lavoro, oggi; un dibattito che valga a portare a sintesi le molteplici dimensioni del lavoro, il quale non può essere pensato in rapporto alla sola dimensione dell'avere. Sono persuaso che sia questo il modo più acconcio e responsabile di fare memoria del sacrificio di Marco. Al quale mi sento di esprimere gratitudine sincera con le parole di Agostino: "Non ti domandiamo, Signore, perché ci hai portato via così presto il nostro fratello. Ti ringraziano perché ce l' hai dato".
(Esclusiva de "Il Ponte". Ringraziamo per la concessione alla pubblicazione su "il Rimino".)
Stefano Zamagni
All'
indice
de
il Rimino.
|