il Rimino - Riministoria

Fossoli, il silenzio sulla strage
Vi morirono Rino Molari, Walter Ghelfi e Edo Bertaccini

12 LUGLIO 1944. Sessantotto prigionieri italiani del lager di Fossoli sono uccisi al poligono di tiro di Cibeno (Carpi). Tra loro ci sono Edo Bertaccini di Coriano (frazione di Forlì), capitano dell’ottava brigata Garibaldi, un ferroviere di Rimini, Walter Ghelfi, ed il santarcangiolese Rino Molari, professore di scuola media. Sulla drammatica vicenda ritorna un libro appena uscito presso Mondadori, «Le stragi nascoste» di Mimmo Franzinelli, dedicato al tema precisato nel sottotitolo: «L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001».

11 luglio 1944, vigilia dell’eccidio: alle ore 19 il vicecomandante del lager Hans Haage, chiama «i nomi delle persone che l’indomani sarebbero partite ‘per il nord’; la modalità dell’appello, nominativo invece che numerico, indicava che qualcosa di straordinario stava per accadere». I repubblichini hanno piazzato una mitragliatrice che domina la piazza dell’appello. Questo comprova, scrive Franzinelli, la «compartecipazione dei fascisti alla preparazione dell’eccidio». Otto prigionieri ebrei sono stati intanto portati al poligono di Cibeno, distante circa tre chilometri, per scavare una fossa: è larga dieci per cinque metri, profonda un metro e mezzo.

L’indagine di Franzinelli ricostruisce quanto accaduto in Italia del dopoguerra a proposito degli eccidi come questo di Fossoli. Per mezzo secolo, scrive, la magistratura militare ha negato giustizia; soltanto dal 1994 si sono avviate istruttorie «seguite al tardivo invio dei fascicoli processuali alle procure militari territoriali». In un armadio di legno con le ante appoggiate contro una parete (l’«armadio della vergogna» del sottotitolo), 695 fascicoli sui crimini nazisti (che provocarono dai 10 ai 15 mila morti), furono occultati a Roma presso la procura generale militare, in uno stanzino inaccessibile, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta.

Il fascicolo di Fossoli reca il n. 2 (apre la serie quello sulle Fosse Ardeatine). Come per gli altri, nel 1960 fu decretata la sua «archiviazione provvisoria», durata fino al 1994, quando tutti i documenti furono rinvenuti casualmente nel corso di indagini su Erich Priebke, dal procuratore militare del Tribunale militare di Roma, Antonino Intelisano. Il Consiglio della magistratura militare definì illegale l’occultamento dei 695 fascicoli, con una relazione approvata di misura il 23 marzo 1999: fu «una votazione che spaccò in due il Consiglio», osserva Franzinelli.

Per la vicenda di Fossoli, il gip militare della Spezia, il 10 novembre 1999, decretò l’archiviazione del procedimento nei confronti di Hans Haage (deceduto), Karl Friedrich Titho (per insufficienza di prove per sostenere l’accusa), e di altri indagati «per essere gli stessi rimasti ignoti non essendo stata possibile la loro esatta identificazione». Il tenente Titho comandava il lager, ma «il vero padrone di Fossoli», scrive Franzinelli, era Haage, sergente maggiore, descritto da un recluso come un nazista fanatico.

Sulle responsabilità dell’eccidio, la sentenza del 1999 dice che essa «è da ricondurre al Comando supremo» tedesco, «nella persona, allo stato, di soggetti ignoti». A Titho, l’ordine ricevuto poté sembrare non illegittimo «proprio perché inserito in una organizzazione dalla disciplina particolarmente rigida e severa, nella quale l’obbedienza era cieca ed assoluta».

Contro Titho ed Haage, un ordine di cattura era stato emesso nel 1954 dal Tribunale militare di Bologna. La successiva richiesta di estradizione per Titho fu bloccata dal ministro degli Esteri Gaetano Martino e dal Tribunale supremo militare, con la motivazione che i fatti a lui attribuiti apparivano di «carattere politico». La posizione fu condivisa dal ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani.

L’interprete di Fossoli, Karl Gutweniger, lavorò anche a Bolzano. Arrestato dagli americani, fu rinchiuso nel campo di concentramento di Rimini da dove fuggì nel luglio 1946. Fu condannato il 13 dicembre dello stesso anno, in contumacia, dalla Corte d’assise straordinaria di Bolzano a 12 anni per collaborazionismo: «egli beneficiò di cinque anni di condono e scontò solo tre anni di libertà vigilata».

Franzinelli, a proposito «di sopraffazioni e di violenze gratuite da parte» tedesca contro la popolazione italiana, riporta un memoriale dell’ex segretario del fascio di Riccione: «per carità di Patria», questi scrisse, doveva rimanere ignorato un episodio di violenza usata da soldati germanici a donne «ed anche alle giovinette», nell’imminenza dell’abbandono delle postazioni difensive.

Tra le «stragi nascoste», Franzinelli elenca pure quella di Fragheto, agosto 1944: 80 persone fucilate, 30 case distrutte; i 17 giovani fucilati a Cesena per inadempienza del servizio militare; i 33 italiani fucilati a Galeata. A Fossoli passò anche lo scrittore Primo Levi («Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il filo spinato / Ho visto il sole scendere e morire; / Ho sentito lacerarmi la carne /Le parole del vecchio poeta:/ “Possono i soli cadere e tornare: / A noi, quando la breve luce è spenta, / Una notte infinita è da dormire”»).

Riuscì invece a non arrivarci un altro riminese, Giuseppe Babbi, arrestato il 18 marzo 1944 dai fascisti italiani in territorio neutrale, a San Marino, e trasferito al carcere di Bologna: qui incontra Ghelfi e Molari. Della sua vicenda s’interessò la diplomazia alleata che riuscì a salvargli la vita.

Walter Ghelfi, che aveva raggiunto l’Ottava brigata Garibaldi sull’Appennino tosco-emiliano, fu carcerato, torturato e ridotto in misere condizioni fisiche, ma «non tradì i suoi compagni in arme». Rino Molari insegnò lettere nell’anno scolastico 1943-44 a Riccione, dove fece amicizia con don Giovanni Montali, suo compaesano. Trasportò materiale clandestino. Una spia della Repubblica di Salò lo fece arrestare il 28 aprile 1944.

Tonino Guerra in quell’anno cerca di applicare la lezione appresa da Rino Molari. Ricevuti in consegna dei manifestini lasciati proprio da Molari (nel frattempo ucciso) ad un fabbro, Guerra è fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì, quindi a Fossoli («e sono stato nella stessa baracca dove era stato Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19»), infine in prigionia in Germania per un anno.

Antonio Montanari

[Per altre notizie, vedi «I giorni dell’ira», http://digilander.libero.it/monari/ira.08.html
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La storia del campo: dalle SS a Nomadelfia

A Fossoli, nelle vicinanze di Carpi, in provincia di Modena, nel maggio 1942 è insediato il campo di concentramento fascista per prigionieri di guerra “n. 73", gestito dalle autorità militari italiane e destinato all'internamento di sottufficiali inglesi catturati in Nord Africa. L'8 settembre 1943 il Campo viene occupato dai nazisti, attratti dalla posizione geografica che rende la zona un comodo snodo ferroviario. Dal dicembre dello stesso anno funziona come "Campo di concentramento provinciale per ebrei", sotto la gestione della Prefettura di Modena. Sul finire del gennaio 1944 le autorità tedesche avocano a sé la giurisdizione del campo che diventa campo poliziesco di transito per deportati politici e razziali, rastrellati in varie parti d'Italia. Ha così inizio una serie di trasferimenti: dalla stazione ferroviaria di Carpi partono 7 convogli destinati ai più tragici lager del Nord Europa.

Accanto al Campo Vecchio amministrato dalle Prefettura di Modena e gestito da italiani con prigionieri che non venivano deportati; c’era il Campo Nuovo gestito dalle SS tedesche del tenente Karl Titho e del sergente maggiore Hans Hage, con prigionieri ebrei e politici destinati alla deportazione.

Il campo di Fossoli rimase in attività per circa sette mesi, durante i quali vi passano circa 5.000 deportati di cui la metà ebrei: un terzo dei deportati ebrei dal nostro Paese. Il primo grande trasporto, composto quasi tutto di ebrei, è quello segnalato da Primo Levi, che partì da Fossoli il 22 gennaio 1944. Dopo la fine della guerra, il Campo è utilizzato lungamente a scopo abitativo: dal 1947 al 1952 è occupato dalla comunità cattolica di Nomadelfia (che significa dal greco: “Dove la fraternità è legge"), e dal 1953 alla fine degli anni '60 dai profughi giuliani e dalmati (Villaggio San Marco).

A Fossoli avvennero alcuni gravissimi delitti ad opera delle SS, il più grave dei quali è la fucilazione di 68 deportati, partigiani e antifascisti, il 12 luglio 1944. Sull'episodio, ecco la testimonianza di Alba Valech Capozzi (deportata da Fossoli a Birkenau, e liberata dagli Alleati a Dachau il 1° maggio 1945), tratta dal suo volume "A.24029":

«Quel giorno lavorammo preoccupate. Neppure a mezzogiorno i venti ebrei erano rientrati. Nelle baracche regnava un gran nervosismo. Si facevano i commenti più disparati. Tutti eravamo inquieti. Non tornarono neppure la sera, quando ci adunammo sullo spiazzo per il controllo. Pensammo li avessero ammazzati. Eravamo tutti in fila, ma regnava un'atmosfera pesante e perfino il maresciallo Hans aveva il viso oscuro. Anche a mensa io avevo notato qualcosa di strano. Un parlottare serio e serrato fra i tedeschi e delle animate discussioni. Io non avevo compreso nulla di quello che si diceva, ma avevo collegato quelle discussioni con l'assenza dei venti ebrei. Avevo provato a chiedere di loro, ma avevano risposto solo con grida e con pugni sui tavoli. Non avevo insistito ed appena terminato il lavoro ero corsa subito al campo.

Scuro in viso Hans terminò il controllo, poi si portò in mezzo allo spiazzo e disse: "Quelli che ora chiamo, prenderanno la loro roba ed andranno a dormire in un'altra baracca. Domattina partiranno per la Germania ed andranno in un campo di lavoro dove staranno molto bene". Cominciò l'appello. Erano settanta. (…) I settanta si erano frattanto riuniti, con tutta la loro roba. Vidi Fritz, l'interprete, parlare animatamente con loro, mentre si avviavano verso la baracca. I venti ebrei non erano ancora rientrati. Uno ad uno quei settanta vennero poi a salutarci tutti, e quella notte al campo, si fu più preoccupati per i venti ebrei che per quei settanta politici. La mattina seguente, andando in cucina, vidi che gli ebrei erano rientrati al campo. Stavano in gruppo fra la cucina e la mensa. Erano tutti pallidi.

"Signor Vita, signor Vita, - chiamai, rivolgendomi ad uno di loro, - ma dove siete stati? Qui al campo eravamo tutti in pensiero". Il Vita non rispose. Scosse solo la testa con aria desolata. "Alba, Alba, venga qua", gridò il cuoco. Un tedesco si avvicinava. Erano circa le otto. Presi il bricco del caffelatte e mi avviai alla mensa. Uno dei tedeschi aveva un braccio fasciato.

"Capùt, capùt", dissi indicandogli il braccio. Intendevo chiedere se si fosse fatto male; nella speranza di attaccare discorso e saper qualcosa. Mi guardò meravigliato ed accennando di sì con la testa, rispose: "Molto, molto capùt". Uscii impressionata dalla mensa. Vidi i muratori che venivano al campo per lavorare. Anche loro avevano delle facce strane. "Che è accaduto?" chiesi ad uno di loro. "Li hanno ammazzati tutti, ma stia zitta, per carità", mi sussurrò.”

Fonti:

www.deportati.it/campi/fossoli
www.fondazionefossoli.org
www.itc-belotti.org
www.nomadelfia.it
www.comune.modena.it

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