La Romagna dei fagioli, «carne dei poveri»
Viaggio nel tempo e nelle usanze popolari con Vittorio Tonelli
Come le luminarie nelle strade, le vetrine addobbate ed il sorriso della gente solitamente mugugnante, anche i libri di Vittorio Tonelli annunciano le feste natalizie. La sua strenna per il 2002 è appena uscita presso Edit di Faenza, dedicata a «La carne dei poveri», ovvero fagioli ed altri legumi nella vita quotidiana dei romagnoli. Il suo viaggio nel tempo parte dal Virgilio delle «Georgiche», dove i fagioli sono citati come cibo «vile», ed arriva al 1942 quando l'economia di guerra vede anche i legumi sottoposti a censimento da parte del Ministero dell'Agricoltura, con l'obbligo di denunciarne la consistenza di raccolto e di deposito alla mezzanotte del 2 luglio.
Nell'emergenza bellica, in cui anche ciò che non piace serve per non morire di fame, nessuno pensa al giudizio del poeta latino, neanche i letterati più schizzinosi. Questo ricordo rimanda alla follia degli uomini che fanno di tutto per rovinare la vita a loro stessi ed agli altri con la violenza delle armi, preceduta (ovviamente, come sempre) da quella delle parole.
Ed a proposito di follia umana, Tonelli ce ne offre un indiretto esempio. Dico indiretto, perché tale lo considero io. Lui lo pone tra gli elementi del folclore. Di quel folclore che spesso molti rimpiangono come struttura di un mondo beato. Che in realtà non era tale. Si tratta della cosiddetta «fagiolata» con cui si compiva «un dispetto scherzoso» od «un vero e proprio scherno». Rientrava fra quegli elementi di controllo sociale dell'individuo che possono non sostenere una persona in difficoltà con il proprio mondo, ma umiliarla o travolgerla in situazioni critiche capaci d'arrivare anche alle più tragiche conseguenze (delle quali la memoria collettiva solitamente non conserva traccia).
Con la «fagiolata», racconta Tonelli, si colpivano fanciulle gravide, donne adultere, amori non corrisposti, fidanzati abbandonati, matrimoni di riparazione, amiche gelose ed anche gli spietati moralizzatori di costumi. Gli anticlericali usavano farne a spese dei poveri preti ai quali, come al parroco di Sant'Agata di Premilcuore, non restava altro che inviare rispettosa denuncia all'«illustrissimo signor Brigadiere» del luogo.
Tonelli, fra i racconti conclusivi, inserisce pure quello di una «fagiolata» che una giovane fidanzata riteneva diretta a se stessa, mentre alla fine si rivela rivolta a sua madre, coinvolta in una tresca con «uno scapolone amico di famiglia». Tresca adulterina, commenta l'autore, «additata al pubblico disprezzo dall'antico codice d'onore, non scritto, della comunità».
Leggo sempre con piacere le pagine dell'amico Tonelli, che cortesemente mi tiene informato della sua produzione letteraria. Ma non ho mai ammirazione per il buon tempo andato dove, con la scusa di fare scherzi, non si aveva rispetto dell'altrui dignità. E non lo si aveva, questo rispetto, perché quei tempi erano ferocemente di sopravvivenza in primo luogo per i bisogni più elementari, come appunto racconta il libro dove la gastronomia è interpretata in chiave storica e sociologica: lo vediamo ad esempio nel paragrafo dedicato ai giorni di magro che nei secoli «lontani» erano circa 150 all'anno, e che vedevano in teoria anche i ricchi accostarsi ai legumi per salvare l'anima. Ma sappiamo che spesso le strade per acquistarsi un posto in Paradiso potevano passare pure attraverso territori meno tormentati come quelli caratterizzati con l'astinenza dalla carne e dal cibo più raffinato, proibito ai poveri.
La parte dedicata alla medicina popolare ci racconta altri aspetti terribili: vedi il brodo di fagioli usato nelle pappine dei bimbi appena svezzati, che «poteva causare una malattia seria come la gastroenterite». Mentre alla storia spicciola rimanda la memoria di quei benestanti di Sarsina che il due novembre lessavano «grossi quantitativi di fave per i poveri, imploranti la 'carità di murt' col pentolino in mano». Carità concessa perché i beneficiati avessero memoria per i defunti dei benefattori.
Rammentando queste elemosine «pro oratione», forse non è fuori luogo chiederci realisticamente se fossero maggiori gli 'accidenti' per i donatori che vivevano sfamandosi senza fatica, o le preghiere in suffragio dei «poveri morti» in nome dei quali si bussava alle porte dei 'signori'.
Antonio Montanari
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