Sul periodico «Ariminum» (XI, 5, 2004, pp. 36-37), Enzo Pirroni ha pubblicato un commosso e puntuale ricordo di Guido Nozzoli come «Cronista di guerra» (questo è il titolo del suo pezzo).
Probabilmente l'amico Pirroni avrà delle rogne (se non lui, almeno il direttore di «Ariminum», rivista alquanto spostata sulla Destra), per l'elogio che fa di un personaggio storico dell'estrema Sinistra non soltanto riminese ma anche italiana. E di un giornalista indipendente al punto di aver scritto sul governativo «Il Giorno» (per il quale era inviato in Viet-nam) che gli Usa avrebbero perso la guerra. Ecco il testo di Pirroni.
La folta schiera di amici morti in questi ultimi anni, oltre che portarmi un lugubre annuncio di vecchiezza mi ribadisce una assoluta, per quanto dura da accettare, verità: non c'è alcun rimedio contro il tempo. Anche Guido Nozzoli se ne è andato.
Quando morì era l11 novembre del 2000. Dignitosamente, tra le viscose foschie autunnali ha intrapreso l'ultimo, definitivo viaggio verso la "lontana, deserta isola del silenzio, immersa nella penombra, avviluppata nel mistero".
Iniziò la professione di giornalista nellimmediato dopoguerra allorché venne assunto al "Progresso" di Bologna insieme ad un altro giovane intellettuale riminese: Gino Paglierani, passò quindi all"Unità" ed infine a "Il Giorno".
Nei primi anni 60, allorché i miei coetanei ed io, cominciavamo a leggere i giornali, cercando di capirci qualcosa, la firma di Guido Nozzoli era notissima. I protagonisti della generazione precedente alla sua, da Mario Missiroli, Giovanni Ansaldo, Orio Vergani, rimanevano, per noi, ciò che in realtà erano stati ed erano: vecchi mestieranti compromessi con una stagione ormai tramontata, screditati da un atteggiamento morale scettico e da un inevitabile approccio cinico con la realtà e con la notizia.
Guido Nozzoli, con la sua bravura, con la simpatia che ogni suo scritto sapeva trasmettere, con la spregiudicatezza che l'ha sempre contraddistinto, aveva, ai nostri occhi, il grande merito di non imprimere mai, sui suoi servizi, sulle sue corrispondenze, il marchio avvilente della ufficialità.
Parlando della sua professione diceva: "Per essere un bravo giornalista occorre soprattutto saper ascoltare e sapere dove cercare le notizie. Bisogna, inoltre usare le gambe almeno quanto il cervello, nel senso che è indispensabile, prima di licenziare un articolo, verificare le informazioni, ma pretendere di dire la verità e tutta la verità con un giornale è come pretendere di suonare la Nona di Beethoven con un'ocarina. Lo strumento non è propriamente adatto".
Fu in Sicilia, cronista rigoroso, all'indomani di quel torrido 5 luglio 1950, allorché il corpo del bandito Salvatore Giuliano venne trovato privo di vita nel cortile di una casa di
Castelvetrano.
Fu da una Modena insanguinata e offesa che Guido Nozzoli scrisse uno dei suoi servizi più toccanti, fremente per indignazione e passione civile, nel momento in cui raccontò della proditoria strage, compiuta dai celerini del ministro Scelba, i quali sparando dai tetti delle Fonderie Orsi sulla folla di scioperanti, lasciarono sul terreno sei morti ed una decina di feriti.
Fu tra i primi a riferire circa le immani devastazioni provocate dallo straripamento Po nelle località Occhiobello e Pavide, il 17 novembre 1951 ed immediatamente accorse, il 10 settembre 1963, in una apocalittica Longarone, dopo che una frana, caduta nel bacino artificiale del Vayont, aveva provocato una improvvisa, colossale inondazione che causò migliaia di morti.
Per Guido Nozzoli, fare giornalismo ha voluto dire occuparsi dei mali dell'uomo, condividere i dolori di molti, esprimere coraggiosamente le proprie idee, criticare e giudicare, il tutto con la massima partecipazione ed onestà intellettuale.
Fu come inviato speciale di guerra che Guido Nozzoli diede il meglio di sé. Già nel 1954. quando ancora scriveva per l' "Unità", venne a contatto con i massimi vertici del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino sposandone da subito la causa.
Da codesta particolare posizione: cronista e fiancheggiatore dei "terroristi ribelli" (così gli uomini dell'OAS, Organissation de l'Armèe Sècrete, chiamavano i patrioti africani che combattevano per l'indipendenza e per la libertà del proprio paese), il giornalista riminese, raccontò, vivendolo in prima persona, tutto il conflitto.
Magistrali furono le interviste effettuate a Ben Bella, al generale Yves Godard, capo del reparto strategico dell'organizzazione dei Pieds Noir e nel 1962, allo scrittore francese André Malraux, allora ministro della cultura, chiamato espressamente a quell'incarico dal presidente De Gaulle.
Poi venne il Vietnam ed anche qui il nostro uomo, non poteva che schierarsi da una parte. Nella lontana Indocina, tra le paludi insalubri, la fitta jungla, le bombe al napalm, scelse di stare dalla parte dei Vietnamiti del Nord.
Con profetica esattezza, in tempi non sospetti, dalle colonne de "II Giorno", Guido Nozzoli si era detto sicuro della disfatta dell'esercito americano. Ebbe ragione. La guerra del Vietnam, costò agli Stati Uniti 55.000 morti, 300.000 feriti elio miliardi di dollari. Essa, per di più, contribuì ad offuscare, mettendola decisamente in crisi, l'immagine degli USA nel mondo.
Poi, a cinquantacinque anni, nella pienezza dei suoi mezzi espressivi, senza una ragione plausibile, staccò la spina. Ripose la fidata Olivetti lettera 22 nella custodia ed andò in pensione. Non ne volle più sapere né di collaborazioni né di soldi né di nulla. Abbandonò definitivamente Milano e ritornò a Rimini nella vecchia casa patema e qui, quasi andasse alla riscoperta di un panorama compiutamente familiare, avvolto nel proprio dolore come in un velo di favola (l'amata figlia Serena se ne era andata per sempre, divorata da un male che non perdona), si sottrasse un poco alla volta alla vita.
Spesso, durante le nostre lunghe conversazioni mi confessò di non possedere più la forza di aderire al proprio destino. Mi confessò che ormai il mondo gli pareva assurdo ed inestricabile e che non vedeva come fosse possibile trovare la salvezza mediante un atto di volontà. In quella stanza surriscaldata, in quel luogo, ingombro di libri, affastellato di oggetti che a capriccio, senza un sistema stavano sparsi su tavoli, in bilico su pencolanti mensole, serrati dentro severi armadi, consumavamo intere nottate. mentre le parole del mio anziano amico, in affascinanti traslazioni metaforiche, riuscivano a creare vere e proprie sinfonie lessicali.
Non sembrava neppure di appartenere al mondo reale. Era quasi una
proiezione dell' immaginario. In quella sorta di laboratorio che era il suo studio Guido Nozzoli, mi accoglieva per trascorrere insonni nottate tra sfere armillari, inutili mercatanzie, preziose minuterie, stormi di quadri, vasi di diaspro, cucurbite, alambicchi, recipienti per coagoli e gatti. Tanti gatti. Vecchi felini, taluni oppressi dalla obesità, alcuni orbati, altri compunti e felpati che, con indifferenza, quasi movendosi nel sogno,trasportavano la loro demonia nell'iridescente splendore di drappi luminosi. La scienza di codesto vecchio giornalista si collocava in un delicato punto d'incontro tra immaginazione e conoscenza, per cui attraverso precise rivisitazioni che, grazie alla perizia verbale di Guido, trapassavano in racconti, si ridestavano le memorie lontane, cronache dimenticate riapparivano intatte, accadimenti remoti risplendevano di repentina, attuale chiarezza.
Succedeva, nelle viscose ore notturne del torvo inverno rivierasco, di avvilupparsi nell'intricatissimo simbolismo mistico della letteratura rabbinica ed allora Guido Nozzoli,con la naturalezza derivantegli da un'antica consuetudine, mi erudiva circa le differenze tra il talmud gerosolimitano e quello babilonese, mi accompagnava con soave immediatezza, procedendo di citazione in citazione, attraverso la gimatreya, ovvero l'interpretazione delle lettere per mezzo del loro valore numerico che è, senza dubbio laspetto più affascinante dell'ermeneutica cabbalistica, mi conduceva in una vertigine di segreti, ponendomi domande, di volta in volta sempre più inquietanti, per i sette sentieri della Torah, facendomi infine approdare alle enigmatiche acque del Sefer ha-zohar (II libro dello splendore).
Succedeva anche, che un'improvvisa nostalgia di giovinezza, un senile, irresistibile bisogno di ritornare al passato,inducesse Guido a rievocazioni di personaggi famosi o di compagni che in tempi passati si erano esibiti, chi come augusto chi come clown bianco, sotto lo zingaresco chapiteau del giornalismo. Incantevole e malinconico riusciva (e questo fino agli ultimi giorni), ad ammaliarti in virtù dell'uso magico della
parola e nella minuscola "casina" dove, tra montagne di libri, erano affastellate a capriccio bottiglie di seltz, pupazzetti di panno Lenci, cofanetti di cristallo di rocca, specchi di Boemia, scudisci dancali, maioliche dai molti colori, ritornava ad essere quellanimoso, lucido, implacabile argomentatore che durante la campagna elettorale del 1948 demoliva col suo rigore dialettico la "paranoia controriformistica" dei vari padri Samoggia e Lombardi.
Nel dicembre del 1999, il comune di Rimini lo volle onorare attribuendogli il "Sigismondo d'oro". In quell'occasione, di fronte ad assessori distratti ed arroganti, giovani politici voraci che nulla conoscevano di lui né della di lui storia. Guido fu dissacrante, autoironico riuscendo ad impartire a tutti i presenti una lezione di stile e di umiltà.
Negli ultimi tempi le sue apparizioni in Piazza Cavour, consueto luogo di incontro con gli amici (Marino Vasi, Tale Benzi, Floriano Biagini, Quarto Perazzini, Alberto Miliani) si erano diradate.
Spesso mi telefonava: una volta era per avere chiarimenti circa una parola provenzale antica e voleva che risolvessi i suoi dubbi andando a cercare il monumentale : Lexique roman ou dictionnaire de la langue des Troubadours, di Raynouard, un'altra volta per aver conferma di una certa data o di un nome che non riusciva a ricordare o soltanto, più semplicemente, per dirmi di andarlo a trovare. Non c'era in lui, al di là dell'increscioso problema della vecchiezza, il minimo indizio che lasciasse supporre la fine . Era soltanto stanco.
Nel giorno del funerale il melodioso fruscio delle foglie cadute sull'acciottolato del pletorico camposanto si mischiava al sommesso parlottio dei vecchi amici che lentamente, sotto un cielo novembrino, si allontanavano, dopo avergli reso lestremo saluto.
Ora che Guido non c'è più fitte di insicurezza e di sgomento trafiggono l'incongruità della mia esistenza ed il mio atroce desiderio di vivere.