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il Rimino - Riministoria

Bertòla e Vico

BERTÒLA DE’ GIORGI AURELIO, Della filosofia della storia, a cura di F. Lomonaco, Napoli, Liguori, 2002, pp. LXXVI, 185.

In quella parte dell’«Introduzione» alla sua Filosofia della storia (1787) dove passa in rassegna «il secolo diciottesimo» (approvando con riserve Montesquieu, e censurando Condillac, D’Alembert, Mably), Bertòla allude pure a «più altri» autori «i quali dal nostro silenzio già non ricevono oltraggio». E’ una dichiarazione di principio che documenta le sue preferenze e ne chiarisce le motivazioni: se nei secoli precedenti «si pose forse troppo mente agli antichi, senza por mente alla filosofia; in questo troppo forse alla filosofia, e poco o nulla agli antichi».
La «degnità» in cui Vico, uno degli autori lasciati in «silenzio», parla del legame tra filologia e filosofia, avrebbe potuto fornirgli una conferma alle sue convinzioni (ma anche correggerle), nel punto in cui essa conclude: nel passato hanno «mancato per metà» sia i filologi sia i filosofi praticando separatamente le loro attività. Bertòla intende rivendicare la grandezza degli antichi scrittori che «quanto pensarsi e dirsi potea di più esatto, di più profondo, di più proficuo sulla morale e sulla politica non a mucchio, per dir così, accolsero e strinsero, ma in diverse e tutte acconce nicchie distribuirono con accorgimento e con verecondia meravigliosa». Di questi scrittori del passato, per dirla con il Vico di quella «degnità», Bertòla non si cura di accertare le ragioni «con l’autorità» della filologia, convinto com’è a priori di un primato dei modelli classici.
Il Nostro (osserva il curatore di quest’edizione, Fabrizio Lomonaco, nell’attenta ed analitica «Introduzione» allo scritto bertoliano), si pone così «contro il proprio secolo che aveva attribuito troppo rilievo alla filosofia e contro l’opinione di chi accusava, con D’Alembert, gli antichi» d’aver trattato la storia (sono parole di Bertòla) «più da oratori, che non da filosofi».
Per esaminare le «ragioni della mancata fortuna» di Vico nel pensiero bertoliano, Lomonaco sostiene che «non soccorre più la vecchia tesi storiografica della sua solitudine e/o oscurità nel tardo Settecento italiano», e spiega: «Alla comprensione della Scienza Nuova la filosofia della storia dello studioso riminese era interdetta dalla prevalente inclinazione al naturale ed alle relative esperienze emotivo-sentimentali nelle forme del “pastoral genere”, sorretto dall’alleanza di studi sulla fisica e sulla morale, tesi a ribadire la distanza dai “chimerici boschi d’Arcadia”».
Come aveva già notato O. Saccozzi (1937), cit. da Lomonaco, nella Filosofia della storia «il Bertòla è piuttosto poeta che filosofo politico» e «si dimentica della filosofia, ritrova i diletti dell’immaginazione, e cioè un poco se stesso». Lomonaco riepiloga che «si rivela distante dall’antropologia del riminese il modo d’essere costitutivamente storico dell’uomo vichiano, e perciò, il senso stesso della storia quale “scienza nuova” del mondo da esplorare in quanto autenticamente umano».
Il Bertòla «filosofo della storia» vive una condizione contraddittoria. Sia quale scrittore sia come insegnante, è sempre rivolto a descrivere «un seguito compiuto di avvenimenti dalla esposizion preceduti delle loro prossime e rimote cagioni» (così leggiamo in un suo quaderno sulle Disposizioni necessarie allo studio della storia, 1786, Fondo Piancastelli, Bib. Saffi Forlì, ms. 64.16, c. 2). Nonostante questa premessa, egli non riesce a compiere il gran salto dal piano letterario (che coniugava il «buon gusto» con le «fonti degli antichi»), a quello scientifico (nel senso vichiano) che lo avrebbe portato ad una teoria generale della storia, con cui ovviare a ciò che Lomonaco chiama mancanza di «un’omogeneità di pensiero» provocata «dalla presenza di riflessioni tra loro contrastanti e alternative».
Bertòla inoltre si limita a descrivere soltanto le vicende antiche, adducendo giustificazioni che alla fine si sottraggono alla discussione storiografica, e si compendiano in una confessione meramente autobiografica. Per descrivere i tempi di mezzo e i moderni, avverte, occorrerebbe uno studio supplementare «sopra un piano e meno uniforme e indicibilmente più vasto», per il quale «né talento abbiamo né salute, né tempo per ora che basti». Egli ci offre una specie di confessione del suo male di vivere, celata in mezzo a motivazioni di metodo riservate agli studiosi. Ai quali spiega che, per riempire l’intervallo fra storia antica e moderna, s’incontrano infinite «eccezioni» al metodo di analisi usato.
Un altro motivo che può spiegare la sua lontananza rispetto a Vico, potrebbe essere il fatto che nella Scienza Nuova la poesia è considerata il sapere dell’età fanciulla, quando in Bertòla è l’essenza del suo intelletto, anche se in un certo momento della propria esperienza culturale (ed umana soprattutto) egli la avverte come limite da superare. Mentre a Napoli vive una fase che definisce di dissipazione, Bertòla si convince infatti che gli conviene mutare la sua immagine pubblica, e confida in un’epistola all’abate Giovanni Cristofano Amaduzzi, ricercato ed inascoltato maestro di bon ton esistenziale, che gli nuoce «esser poeta» (1779).
Bertòla, con ciò che Vico chiama «la boria de’ dotti», si mimetizza allora nei panni austeri del pensatore approdando alla stesura della Filosofia della storia, le cui modalità stilistiche così opposte a quelle del prosatore elegante e affascinante che era, ci indicano tutta la tensione che lo sforza ad abbandonare l’istinto letterario suo proprio, ed a recitare una parte saccente e noiosa, grazie alla quale sperava di guadagnare i conforti di potenti protettori. Fu filosofo, alla fine, o cercò di apparire tale, malgré lui.
[Dal Bollettino del Centro di studi vichiani, XXXIII, 2003, Rubbettino, pp. 352-353.

Antonio Montanari


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