Nell'immagine, e nel cosiddetto immaginario collettivo di Rimini, Gianni Fabbri da quarant'anni era qualcosa di più di un semplice personaggio o di un protagonista eccellente, quello che in teatro sarebbe stato il capo di una compagnia celebre.
La sua figura ha coinvolto le cronache che un tempo si chiamavano mondane, ma non soltanto. Era divenuto il simbolo di un'imprenditoria che attorno al turismo aveva coltivato i propri progetti, riuscendo a realizzarli con una felicità di risultati che poi approdavano al significato del modello da esportare, anzi sarebbe più giusto dire da importare da parte degli «altri», quelli che le idee non le avevano e venivano a copiarle (o a rubarle) qui da noi.
Tra le mille cose che si potrebbero aggiungere, oltre alla più ovvia discussione sulla complessità nel bene e nel male di quel modello riminese divenuto proverbialmente il «divertimentificio» (alienante come tutti i fenomeni quando passano da una cerchia ristretta alla fruizione di massa), va detta soltanto questa: Gianni Fabbri aveva conservato una misura geniale di eleganza, frutto forse di un'eredità biologica che aveva dato a lui (fratello minore) il dono dell'agire concreto, e quello dello studio, della vita intellettuale a Paolo, il fratello maggiore, ma che era sempre stato 'costretto' a vivere all'ombra di Gianni, essendo per la gente il fratello del «re della notte», anche se in tutto il mondo della cultura lo conoscono come grande studioso e semiologo dalle efficaci analisi.
Gianni Fabbri ebbe due disgrazie. L'incidente stradale che provocò due vittime a bordo della sua auto. E poi quella carognata della droga, da cui uscì pulito, ed alla quale i riminesi non hanno mai creduto. Forse quelle due vicende lo hanno bruciato dentro, lasciando aperto un varco alla malattia che lo ha portato via giovedì 6 maggio 2004.