Ho letto le interessanti dichiarazioni sulla cultura italiana del Seicento, rilasciate al «Ponte» (7.3.2004) dal prof. Andrea Emiliani. Il quale dice che, nella valutazione di quel secolo, «pesa la condanna di Benedetto Croce». Ho fatto, come suol dirsi, una botta di conti, partendo da ricordi personali: quarant'anni e più fa per prepararci all'esame di Letteratura italiana, trovavamo ancora in una classica antologia ad uso universitario un brano sferzante di don Benedetto tratto dai «Saggi sulla letteratura italiana del Seicento», la cui prima edizione è del 1911.
Quarant'anni fa leggevamo però i brani crociani non tanto per aderire al suo pensiero interpretativo, quanto per comprenderne i limiti nella valutazione della poesia in generale ed in quella barocca in particolare. Per cui il discorso del prof. Emiliani risulta abbondantemente datato, se già a noi (quarant'anni fa) spiegavano quello che lui detta oggi nel 2004.
Non sarebbe il caso di lasciar stare Benedetto Croce, e fare l'elenco delle nostre pigrizie che non ci hanno permesso di andare oltre, e di lasciar stare (anzi piantare) il chiodo fisso che, per colpa del celebre filosofo, il mondo si era fermato? Il mondo è andato avanti, anche nell'interpretazione del Seicento, e forse non ce ne siamo accorti.
Riporto da un recente libro di Ezio Raimondi («Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda», B. Mondadori, 2003): «Con i primi del Novecento, cominciava una nuova ricognizione da parte dei critici e degli storici, con l'intento di esplorare un paesaggio per molta parte ignorato» (pag. 5).